C’è qualcosa di profondamente sbagliato nel modo in
cui la coppia Fornero-Monti ha approcciato il tema della riforma del mercato
del lavoro e dell’art.18, ma non dal punto di vista metodologico, ovvero dei
rapporti sindacali o della comunicazione con le forze politiche, bensì proprio
nel contenuto “economico” della riforma, che appare sottovalutare l’effetto che
potrebbe avere sull’intera struttura economica italiana.
Chi si occupa di tendenze Macroeconomiche di lungo
periodo, a rischio di essere tacciato di essere un teorico dei massimi sistemi,
affronta da tempo il tema del peso del lavoro salariato all’interno dei sistemi
economici moderni, e di come esso sia destinato a diminuire per via del
mutamento delle forme e della composizione della struttura economica.
La riforma che si appresta a varare il governo
tecnico và esattamente nella direzione di ridurre il lavoro salariato a
qualcosa di inferiore dal punto di vista valoriale, qualcosa di cui ci si può
liberare per interessi superiori, tra l’altro neanche ben definiti.
Consentire il licenziamento individuale per “motivi
economici” apre la strada ad una drastica riduzione dei diritti sul luogo di
lavoro, consentendo indirettamente il licenziamento discriminatorio.
Supponiamo che un lavoratore 55enne sia inviso alla
proprietà dell’azienda non perché lavativo o peggio, ma solo perché attivista
sindacalmente o politicamente.
L’azienda può licenziarlo per ragioni economiche ed
assumere il giorno dopo un 20enne precario con mansioni solo lievemente
differenti. E’ possibile questo? Non solo lo è ma sarà inevitabile.
Il lavoratore potrebbe ricorrere al giudice dicendo
che il licenziamento non è per motivi economici bensì per motivi
discriminatori, a questo punto si aprono i tempi biblici della giustizia
italiana (vera emergenza per tutti tranne che per il governo tecnico), il
lavoratore resta a casa ed il precario vive la sua illusione di essere un
lavoratore.
Nel giudizio all’azienda servirà soltanto dimostrare
che il nuovo lavoratore era funzionale ad un riassetto economicamente
vantaggioso per l’azienda (è un motivo economico) ed il gioco è fatto, basterà
mentire con giudizio (mi serviva un saldatore che conosce 3 lingue rispetto ad
un saldatore normale).
L’Italia è il paese delle simulazioni contrattuali,
delle false partita iva, dei veri docenti universitari travestiti da falsi
co.co.co, quale sarebbe il freno inibitore che dovrebbe fermare le aziende dal
licenziare a piacimento? La bontà non è una ragione economica sufficiente.
Senza contare che è il lavoratore che deve ricorrere
al giudice, con i costi che questo implica, essendo il lavoratore la parte
debole del rapporto di lavoro si può facilmente prevedere che acconsentirà a
farsi ridurre i propri diritti pur di mantenere il posto, anche a costo di
dimettersi per farsi riassumere in altra forma.
Questo passaggio è fondamentale, ed in un paese con
alta disoccupazione avrà effetti devastanti sulle condizioni generali del lavoro,
ci sarà una guerra fra poveri che non avrà vincitori, perché il lavoratore
stressato lavora peggio e perché il turn-over selvaggio riduce anch’esso la
produttività.
Due Economisti avrebbero dovuto prevederlo.
A meno che non ci indichino la via luminosa, che noi
moralisti del giorno dopo non siamo in grado di vedere, oppure che ci dicano
ancora una volta (falsamente) che è l’Europa che ce lo chiede, la stessa Europa
che ci chiede da tempo di ratificare le norme anticorruzione, una giustizia
efficace, un sistema radiotelevisivo plurale.
Ma si sa, ci sono richieste e richieste.
Salvatore Perri