giovedì 22 marzo 2012

La fine del lavoro salariato


C’è qualcosa di profondamente sbagliato nel modo in cui la coppia Fornero-Monti ha approcciato il tema della riforma del mercato del lavoro e dell’art.18, ma non dal punto di vista metodologico, ovvero dei rapporti sindacali o della comunicazione con le forze politiche, bensì proprio nel contenuto “economico” della riforma, che appare sottovalutare l’effetto che potrebbe avere sull’intera struttura economica italiana.

Chi si occupa di tendenze Macroeconomiche di lungo periodo, a rischio di essere tacciato di essere un teorico dei massimi sistemi, affronta da tempo il tema del peso del lavoro salariato all’interno dei sistemi economici moderni, e di come esso sia destinato a diminuire per via del mutamento delle forme e della composizione della struttura economica.

La riforma che si appresta a varare il governo tecnico và esattamente nella direzione di ridurre il lavoro salariato a qualcosa di inferiore dal punto di vista valoriale, qualcosa di cui ci si può liberare per interessi superiori, tra l’altro neanche ben definiti.
Consentire il licenziamento individuale per “motivi economici” apre la strada ad una drastica riduzione dei diritti sul luogo di lavoro, consentendo indirettamente il licenziamento discriminatorio.

Supponiamo che un lavoratore 55enne sia inviso alla proprietà dell’azienda non perché lavativo o peggio, ma solo perché attivista sindacalmente o politicamente.
L’azienda può licenziarlo per ragioni economiche ed assumere il giorno dopo un 20enne precario con mansioni solo lievemente differenti. E’ possibile questo? Non solo lo è ma sarà inevitabile.

Il lavoratore potrebbe ricorrere al giudice dicendo che il licenziamento non è per motivi economici bensì per motivi discriminatori, a questo punto si aprono i tempi biblici della giustizia italiana (vera emergenza per tutti tranne che per il governo tecnico), il lavoratore resta a casa ed il precario vive la sua illusione di essere un lavoratore.
Nel giudizio all’azienda servirà soltanto dimostrare che il nuovo lavoratore era funzionale ad un riassetto economicamente vantaggioso per l’azienda (è un motivo economico) ed il gioco è fatto, basterà mentire con giudizio (mi serviva un saldatore che conosce 3 lingue rispetto ad un saldatore normale).

L’Italia è il paese delle simulazioni contrattuali, delle false partita iva, dei veri docenti universitari travestiti da falsi co.co.co, quale sarebbe il freno inibitore che dovrebbe fermare le aziende dal licenziare a piacimento? La bontà non è una ragione economica sufficiente.

Senza contare che è il lavoratore che deve ricorrere al giudice, con i costi che questo implica, essendo il lavoratore la parte debole del rapporto di lavoro si può facilmente prevedere che acconsentirà a farsi ridurre i propri diritti pur di mantenere il posto, anche a costo di dimettersi per farsi riassumere in altra forma.

Questo passaggio è fondamentale, ed in un paese con alta disoccupazione avrà effetti devastanti sulle condizioni generali del lavoro, ci sarà una guerra fra poveri che non avrà vincitori, perché il lavoratore stressato lavora peggio e perché il turn-over selvaggio riduce anch’esso la produttività. 

Due Economisti avrebbero dovuto prevederlo.

A meno che non ci indichino la via luminosa, che noi moralisti del giorno dopo non siamo in grado di vedere, oppure che ci dicano ancora una volta (falsamente) che è l’Europa che ce lo chiede, la stessa Europa che ci chiede da tempo di ratificare le norme anticorruzione, una giustizia efficace, un sistema radiotelevisivo plurale.

Ma si sa, ci sono richieste e richieste.

Salvatore Perri