giovedì 11 aprile 2019

Uscire dal sottosviluppo: nuove strategie per l’economia del Mezzogiorno

Oggi su OpenCalabria:

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L’odierno Mezzogiorno. La condizione economica del Mezzogiorno risulta essere preoccupante sotto diversi profili, sia nel rapporto con le altre aree del paese che nel confronto con analoghe realtà europee. Sostanzialmente le regioni del Sud Italia risultano avere un tessuto produttivo debole e frammentato, una forte dipendenza dai trasferimenti pubblici, un tasso di disoccupazione (specie giovanile) più elevato della media nazionale ed europea, una forte emigrazione intellettuale, un ampio settore sommerso, una burocrazia farraginosa ed inefficace ed una presenza pervasiva della criminalità organizzata[1].
La caratteristica di questa situazione non è tanto relativa all’ampiezza dei divari (elevata) quanto alla relativa stabilità nel tempo dei divari stessi, il che suggerisce che un siffatto sistema economico abbia trovato una sua forma di equilibrio, un equilibrio di sottodimensionamento. La debolezza del tessuto produttivo, fatto di piccole e piccolissime imprese che non si mettono in rete non raggiungendo quindi una sufficiente massa critica per diventare distretti industriali, influenza la domanda aggregata condizionandone l’ampiezza a causa del basso valore aggiunto prodotto. La ristrettezza dei margini di profitto, a sua volta, genera un costante ricorso a varie forme di sommerso produttivo, che “integrano” la produzione e consentono agli individui a basso reddito di rifornirsi di merci a basso costo. Inevitabilmente la prevalenza di imprese che escono dal circuito legale per produrre in “nero” determinano una domanda aggiuntiva di lavoratori scarsamente qualificati[2]. L’emigrazione costante di persone con una qualificazione culturale elevata produce un danno cumulativo nel tempo, in quanto impoverisce strutturalmente il sistema economico meridionale, anche in relazione di svantaggio competitivo con le aree in cui i giovani meridionali qualificati vanno a lavorare, contribuendo ad aggravare il divario ed a renderlo persistente.
I dati pubblicati nel “The Global Human Capital Report 2017” evidenziano come siano proprio i lavoratori italiani con un livello di istruzione medio-alto a dare un contributo maggiore in termini di crescita del PIL, paragonabile a quello dei paesi più avanzati, mentre quelli a basso livello di istruzione danno un contributo inferiore, in proporzione, se paragonati agli omologhi dei paesi OECD. Si genera, quindi, un doppio circolo vizioso, da un lato le imprese meridionali non attraggono a sufficienza lavoratori qualificati, l’emigrazione di lavoratori “skilled” riduce la produttività del lavoro e quindi la competitività dell’intero “sistema economico Mezzogiorno”. L’emigrazione complessiva (di lavoratori qualificati e non) unita alla diminuzione della popolazione che ne consegue, riduce strutturalmente la domanda aggregata, e aumenta paradossalmente la domanda di sommerso, di merce a basso valore aggiunto, di lavoratori con bassi salari, innescando una spirale che non si fermerà autonomamente. Nella Figura 1, si evidenzia la divaricazione del numero di occupati fra Sud e Centro, cominciato prima della recente crisi economica, si è accentuato e poi stabilizzato, certificando che l’occupazione che viene persa nel Sud in genere non viene assorbita, anche quando le condizioni macroeconomiche generali migliorano.

Errori del passato e strategie per il futuro. A problemi noti sono stati contrapposte varie risposte dal punto di vista delle “politiche” nell’arco del tempo. Si è passati dagli embrioni dei programmi di lavoro garantito[3] degli anni ‘60 (per evitare lo spopolamento) al tentativo di industrializzare il Mezzogiorno con localizzazioni mirate di industrie negli anni ’70 (finanziate dal pubblico), al tentativo di promuovere nel meridione forme di crescita “endogena” basata su incentivi alla nascita di nuove imprese ed alla formazione, con decontribuzione, dei nuovi assunti (politiche finanziate con progetti statali ed Europei nel solco delle Strategie di Lisbona). Queste fasi si sono ormai concluse, lasciando un Sud Italia privo di un tessuto industriale pesante, con una prevalenza di piccole e micro imprese con un altissimo livello di nata-mortalità delle stesse legata al ciclo degli incentivi[4]. Il Mezzogiorno d’Italia si può rappresentare come una realtà post industriale senza che essa sia stata pienamente industriale, prova di questo sono le realtà nelle quali sono presenti i frutti avvelenati dell’industria, quali inquinamento presente e persistente a distanza di molti anni dalla fine dei tentativi di imporre lo “stato imprenditore”.
Appare evidente, quindi, che lo sviluppo del Mezzogiorno debba passare per un totale cambio di strategia. In particolare, nonostante il dibattito ed i tentativi di investimento, nel Meridione esiste oggettivamente un gap infrastrutturale difficilmente colmabile nel breve periodo, di conseguenza ipotizzare una crescita endogena che adegui la struttura industriare a quella media europea appare decisamente utopico. Sono possibili altre strade, in particolare,  quelle relative al coordinamento di strategie d’investimento miste finalizzate al supporto della trasformazione delle imprese legate al modello dell’Industria 4.0 sinergicamente al concetto di Economia Sostenibile.
I dati sono impietosi, in proporzione esiste un numero maggiore di giovani meridionali con titolo di studio che emigrano in quanto non esistono (o sono limitate) le opportunità di lavoro sulla base delle loro qualificazioni professionali (Rapporto Svimez, 2018 e precedenti[5]). Incentivare la trasformazione (anziché la nascita, o la localizzazione) delle imprese verso il modello della Smart Manifacturing potrebbe frenare il depauperamento qualitativo della forza lavoro nel Meridione. La “Fabbrica del Futuro” si basa sui paradigmi dell’Internet of Things, dei Manufacturing Big Data, sulle Wearable Technologies, l’Additive Manufacturing e le New Automations & Robotics. Sotto questo aspetto vi è da sottolineare che il ritardo nello sviluppo delle ICT non denota componenti territoriali ma appare omogeneo da Nord a Sud[6]. I concetti produttivi dell’Industria 4.0 hanno in comune caratteristiche che potrebbero essere applicabili anche in “questo” Mezzogiorno. Si tratta di industrie “leggere” che non hanno bisogno di investimenti in sovrastrutture fisiche, di conseguenza potrebbero essere implementate rapidamente, si basano sugli interscambi virtuali di informazioni, sulla condivisione e l’accrescimento delle stesse, un modello che ben si collegherebbe ad una realtà che possiede capitale umano all’avanguardia che deve soltanto essere messo in condizioni di lavorare. Questo cambiamento appare necessario in quanto, come si evince dalla Tabella 1, le regioni Meridionali sono tra le peggiori d’Europa dal punto di vista della dotazione infrastrutturale, e pertanto attendere un adeguamento a standard europei potrebbe necessitare di decenni.

Si è già detto che l’emigrazione dal Mezzogiorno d’Italia verso il centro nord e l’estero non stà più riguardando solo i lavoratori giovani e qualificati bensì anche fasce d’età più avanzate, si può porre rimedio collegando agli investimenti per la trasformazione produttiva anche al “recupero dell’esistente[7]”. Tra i vari effetti della desertificazione industriale in larghe zone del Meridione vi sono zone industriali semi abbandonate, frutto in larga parte di incentivazione pubblica. La cura del territorio, il recupero delle strutture esistenti da riutilizzare, sono attività ad alta intensità di lavoro che potrebbero effettivamente consentire di “reintegrare” almeno parzialmente il divario occupazionale che è sostanzialmente stabile tra nord e sud negli ultimi 20 anni[8].
Il rapporto dell’Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile (2018) non a caso segnala che i problemi che si stanno aggravando in Italia riguardano proprio la Povertà, l’Occupazione, la Condizione Economica, le Disuguaglianze e le condizioni delle Città. Investire nella lotta al degrado delle periferie cittadine, alle bonifiche post industriali attraverso il recupero infrastrutturale, consentirebbe in modo sinergico di ridurre strutturalmente il divario occupazionale e di porre le basi per uno sviluppo durevole basato anche sul recupero della domanda interna.
Conclusioni. In conclusione, una politica economica lungimirante per il Mezzogiorno dovrebbe basarsi su due direttive. La prima è quella di delineare un insieme di politiche economiche utili a consentire il passaggio dalla situazione attuale fatta di aziende piccole, che non fanno rete, con prevalenza di settori tradizionali, ad una caratterizzata da una prevalenza di aziende Smart. Il sud Italia è risultato essere periferico nel contesto europeo, per la distanza geografica con i grandi centri produttivi ed i grandi mercati, può invece ancora diventare centrale, in un contesto euro-mediterraneo, allorquando fosse in grado di rappresentare un modello di sviluppo ad alto contenuto tecnologico in cui la produzione materiale ed immateriale non dipenda dai limiti fisici e dimensionali di cui ha sofferto sin’ora. Questo passaggio deve essere necessariamente mediato da una modifica delle politiche economiche adottate e dal volume e qualità degli investimenti. In secondo luogo c’è ancora spazio per assorbire la disoccupazione generata dallo scarso peso dimensionale delle aziende nel Mezzogiorno, ovvero l’applicazione dei principi dello sviluppo economico sostenibile, che nel sud si devono declinare come interventi di recupero infrastrutturale e territoriale. Questi interventi devono essere necessariamente coordinati ed organizzati dal settore pubblico, ma avrebbero un ritorno immediato nel recupero della domanda aggregata derivante dai consumi di coloro che sarebbero altrimenti emigrati. Mentre a lungo termine si avrebbe un miglioramento strutturale nelle condizioni di vita nel Mezzogiorno, rendendolo vivibile e attrattivo, non solo per il turismo, ma anche per gli investimenti ad altro contenuto culturale e tecnologico.

[1] Si veda un mio precedente commento pubblicato da “La Voce.info” nel 2015 a proposito dei divari di produttività tra nord e sud https://www.lavoce.info/archives/37879/perche-il-sud-e-meno-efficiente/
[2] Si potrebbe dire con un basso “salario di riserva”.
[3] Ad esempio nel campo della forestazione, il massiccio impiego di lavoratori nel settore, sproporzionato in termini territoriali, è stato oggetto di dibattito politico fino alla fine degli anni ’80.
[4] Nel corso del I Trimestre 2018, in Calabria, il saldo annuale tra iscrizioni e cessazioni di imprese è stato di negativo per 421unità, dati Movimprese-Unioncamere.
[5] Si stima che negli ultimi 10 anni siano emigrati dal Meridione 500.000 persone, sul peso anche qualitativo dell’emigrazione intellettuale si veda Vecchione (2017).
[6]  Si veda la Nota diffusa dal Centro Studi di Confindustria sull’industria italiana 4.0, su dati del 2017.
[7] Secondo i dati Istat al 2017 erano più di 300.000 le abitazioni vuote nel Mezzogiorno, il recupero anche di abitazioni, oltre che di edifici industriali da riconvertire, potrebbe rappresentare una opportunità di sviluppo per le piccole imprese, prevalenti nel Sud.
[8] La persistenza della disoccupazione meridionale rispetto a quella del centro nord è da me discussa, su dati Istat, nell’articolo “Mezzogiorno senza reddito e senza cittadinanza” pubblicato da Economia e Politica nel 2018.

Riferimenti Bibliografici
ALLEANZA ITALIANA PER LO SVILUPPO SOSTENIBILE (2018). L’Italia e gli obiettivi di sviluppo sostenibile. http://asvis.it/rapporto-asvis-2018/#.
Bolto, A. (2013). Il Mezzogiorno italiano: forze di mercato o politiche economiche? Moneta e Credito, 43(172).
Martin, S., & Scott, J. T. (2000). The nature of innovation market failure and the design of public support for private innovation. Research policy, 29(4-5), 437-447.
Ortega-Argilés, R., & McCann, P. (2018). Smart Specialization, Regional Growth and Applications to European Union Cohesion Policy. In Place-based Economic Development and the New EU Cohesion Policy (pp. 51-62). Routledge.
Perri, S., & Lampa, R. (2018). When small-sized and non-innovating firms meet a crisis: Evidence from the Italian labour market. PSL Quarterly Review, 71(284), 61-83.
SVIMEZ (2018). L’economia e la società del Mezzogiorno. Il Mulino.
World Economic Forum. “The Global Human Capital Report” (2017). https://www.weforum.org/reports/the-global-human-capital-report-2017
Vecchione, G. (2017). Migrazioni intellettuali ed effetti economici sul Mezzogiorno d’Italia. Rivista Economia del Mezzogiorno, SVIMEZ 3-2017, Il Mulino, Bologna.


Salvatore Perri

Salvatore Perri

Economista Indipendente, esperto di Analisi delle Politiche Economiche Internazionali, attualmente Professore a Contratto di Politica Economica presso l'Università della Magna Graecia di Catanzaro. Ha pubblicato ricerche su riviste nazionali ed estere. Alcuni suoi contributi sono stati pubblicati dal blog della London School of Economics, La Voce.info ed Economia&Politica. E' membro dell'International Institute of Global Economy e del Board of Experts della BBC. Tra i suoi temi di ricerca: Il rapporto Finanza-Crescita, le Teorie Macroeconomiche, il Mezzogiorno, l'Euro e le Politiche Europee.

martedì 9 aprile 2019

Le Vere Cause della Vittoria di Donald Trump | Perri e Komlos

Oggi su Economia&Politica

https://www.economiaepolitica.it/2019-anno-11-n-17-sem-1/perche-ha-vinto-trump/?fbclid=IwAR38x1B2f44gAFADbZAYFHenbjnJSIVAuKJY7e3cV_Q3Ix_cbCs4hxMNiv4

Perché ha vinto Trump? | La vittoria di Trump non è solo frutto di un voto di protesta, ma è il risultato di trasformazioni politiche e sociali in atto negli USA da più di trent’anni.
La vittoria di Donald Trump nelle elezioni presidenziali del 2016 è stata determinata dal cambiamento della maggioranza di tre stati “contendibili” che sono passati dal votare il Partito Democratico a votare per quello Repubblicano. Tuttavia, ridurre questo risultato ad un voto di protesta oltre ad essere semplicistico risulta essere completamente sbagliato. La presidenza Trump è il risultato di una serie di dinamiche sociali ed economiche che si sono sviluppate attraverso più di tre decadi e che hanno trasformato profondamente la società americana, in modo probabilmente irreversibile.

L’onda lunga del Reaganismo

La vittoria di Ronald Reagan e le sue due amministrazioni consecutive hanno rappresentato un punto di svolta nella società americana. Dal punto di vista delle politiche economiche il messaggio era semplice quanto efficace, “meno tasse per tutti”. Appare evidente che una riduzione delle tasse per tutti vuol dire un guadagno in termini relativi per i grandi contribuenti ed un vantaggio modesto per la classe media e nessun vantaggio per i poveri. La logica economica che poteva giustificare una tale politica era la seguente, una riduzione delle tasse per i ceti alti avrebbe provocato un incremento delle somme disponibili per gli investimenti, riattivando gli “spiriti animali” e rimettendo in moto il motore neoclassico della crescita economica. La successiva crescita economica scaturente avrebbe investito a “cascata” anche le altre classi sociali. Più investimenti, più posti di lavoro, più ricchezza in generale. Un modello di sviluppo orientato ad una visione iper-liberista (Ravitch, 2017) dove, dal punto di vista sociale, chi non riesce a cogliere le opportunità “del paese delle opportunità” merita di essere povero in senso dispregiativo. La realtà è stata ben diversa. La concezione del c.d. “stato minimo” non solo ha coinvolto la protezione sociale dei meno abbienti, ma ha riguardato ad esempio, la deregolamentazione di vari settori tra i quali quello finanziario, ponendo sostanzialmente le basi per quelle manovre spericolate che hanno causato le recenti crisi finanziarie. Anziché riversarsi a cascata sulle classi inferiori, le grandi risorse disponibili a favore delle classi abbienti, sono state investite nel processo di acquisizione di maggior potere, quali ad esempio il lobbing ed il controllo dei media. Di fatto l’acquisizione di ricchezza ha innescato un processo volto all’acquisizione del potere che serve per influenzare la produzione legislativa per ottenere maggiore ricchezza. Non è un fatto secondario che queste politiche siano state successivamente perpetrate con continuità anche dalle amministrazioni Democratiche[1].

Aspettative e Realtà

Le ipotesi alla base delle scelte economiche Reaganiane erano già alla base prive di fondamenti teorici convincenti, le dinamiche in atto nell’economia mondiale ne hanno anche accentuato gli effetti discorsivi. Uno dei cardini di queste politiche, era l’ipotesi che i maggiori profitti avrebbero innescato investimenti (e consumi di fascia alta), in realtà il processo di “finanziarizzazione” dell’economia (Hein, 2012) ha fatto sì che i maggiori profitti semplicemente uscissero dal circuito produttivo, diventando rendite, oppure che fossero investiti al di fuori degli Stati Uniti. Contestualmente in quella fase arrivava impetuoso l’ingresso sul mercato delle merci provenienti dai paesi a basso costo, che invadevano i mercati statunitensi. La risposta a questi fenomeni complessi era semplice, cercare di flessibilizzare ulteriormente il mercato del lavoro interno attaccando e depotenziando i sindacati. L’episodio del licenziamento di 11.345 controllori di volo rappresentò un passaggio che determinò la fine dell’influenza dei sindacati negli Stati Uniti (Mishel, 2012). Queste dinamiche ormai innescate erano impossibili da arginare. Maggiore potere alle lobbies, maggiore influenza sulle decisioni legislative. A Reagan successe Bush Sr. e successivamente Clinton, entrambi hanno sottovalutato l’impatto dell’ingresso della Cina nel WTO, impatto che è stato devastante, il settore manifatturiero è stato distrutto e il ceto medio con esso, i posti di lavoro sono stati “esportati” e il deficit commerciale è cresciuto (Acemoglu et al., 2016; Pierce and Schott, 2016).
Questo può essere considerato il primo passaggio nel quale la classe media statunitense ha finito per considerare come equivalenti le politiche economiche repubblicane e quelle democratiche, creando una nuova dicotomia: establishment-popolo (Ferguson et. al 2018). A questa dinamica ormai in atto si è sommata la transizione dalla grande industria pesante a quella IT che ha acuito la disarticolazione del mercato del lavoro rendendo estremamente vulnerabile la classe operaia povera e scarsamente istruita. Nel contempo, il ritorno dei repubblicani alla casa bianca non provocava cambiamenti, l’amministrazione di Bush Jr si caratterizza per ulteriori deregolamentazioni e soprattutto per l’elargizione di soldi pubblici nei confronti di banche e banchieri (Komlos, 2018). L’amministrazione Obama, seppur lodevole per i tentativi di intervento in tema di assicurazione sanitaria per le classi meno abbienti, non ha rappresentato una vera e propria inversione di tendenza dal punto di vista della distribuzione della ricchezza. Ad esempio, Obama ha reso permanenti i tagli fiscali decisi da Bush Jr continuando l’elargizione di denaro verso le grandi banche (Scheiber, 2011), la sua scarsa distinguibilità dai repubblicani è stata accentuata dal fatto che ha confermato in alcuni ruoli economici chiave gli uomini nominati da Bush[2].

Un tappeto rosso per Trump

Per capire la situazione economica e sociale degli stati americani che hanno determinato la vittoria di Trump bastano pochi dati. Il reale reddito familiare medio in Ohio, Wisconsin e Michigan è ancora di 5.900, 6.000 e 9.300 dollari al di sotto del suo livello alla fine del 20esimo secolo[3]. Tutti e tre gli stati hanno registrato un tasso di mortalità per overdose più elevato rispetto alla media nazionale nel 2015 (Hedegaard, Warner and Miniño, 2017). Gli Stati Uniti sono l’unico paese ricco a sperimentare un aumento della mortalità negli ultimi tempi. I più colpiti sono gli uomini bianchi con un’istruzione di livello medio basso (Case and Deaton, 2017). Nel 2015 ci sono stati non meno di 6,7 milioni di persone (il 2,7% della popolazione adulta) “attenzionate” dal sistema giurisdizionale negli Stati Uniti; questo include persone scarcerate sotto condizione o in libertà vigilata e 2,2 milioni di persone detenute (Bureau of Justice Statistics, 2015). Questo è il più alto tasso di incarcerazione del mondo: con il 5% della popolazione mondiale, gli Stati Uniti hanno il 23% dei suoi prigionieri (Hartney, 2006). Nel 2014 ci sono stati 0,9 milioni di fallimenti. Tra le conseguenze sociali più devastanti basta evidenziare i 9,3 milioni di proprietari che hanno perso la casa tra il 2006 e il 2014 (Realtytrac.com, 2014; Kusisto, 2015; U.S. Bankruptcy Courts, 2017). Nel 2017, 45 milioni di persone vivevano sotto la soglia di povertà, il 15% della popolazione, mentre altri 15 milioni di persone vivevano leggermente al di sopra della povertà, definita come il 100-125% della soglia di povertà (Hokayem and Heggeness, 2014) e quindi sono da considerare tra quelli che vivono in una condizione di maggiore stress e di paura nei confronti del futuro. Questi risultati sono le conseguenze di un lungo periodo nel quale i benefici della crescita sono andati in un’unica direzione come mostra la Figura 1, ovvero verso le classi più ricche.

Figura 1.Tasso di crescita del benessere 1979-2011



Conclusioni: perché Trump, perché adesso

Donald Trump ha compiuto un miracolo politico, un miliardario che è riuscito a presentarsi come un nemico dell’establishment e amico dei bianchi americani del Rust Belt ridotti in povertà. La sua campagna elettorale ha avuto gioco facile, l’America profonda, spaventata e depressa voleva essere difesa e protetta da un “uomo forte”. Donald Trump ha dichiarato di voler lottare contro la globalizzazione riportando in patria le aziende che avevano delocalizzato, propone dazi, e presenta nemici esterni sulla base dei quali compattare i propri sostenitori (musulmani e migranti in generale). Grazie a questi annunci è riuscito a coalizzare una vasta platea di grandi finanziatori, che hanno infuso nella sua campagna un ammontare di risorse senza precedenti[4] (Ferguson et. al 2018). Paradossalmente Trump vince proponendo la stessa ricetta che ha portato gli Stati Uniti a questo punto, meno tasse e un sistema ancora più sperequato, che tolga quelle poche protezioni rimaste ai poveri. Un programma economico illogico e pericoloso, senza fondamenti ne teorici e ne empirici che può spianare la strada a guerre commerciali (e non solo) a povertà diffusa, ad instabilità interna ed internazionale[5]. Ma tutto questo non ha fermato gli americani dallo sceglierlo perché egli è riuscito a fare presa sui c.d. “hot buttons” dell’elettorato, mentre Hillary Clinton definiva “deplorabili ignoranti” i bianchi americani poveri e scarsamente istruiti che protestavano, veniva da loro identificata come contigua ai “poteri forti”, alle banche ed alle lobbies. Mentre Trump si dichiarava “amo quelli scarsamente istruiti” gli mostrava un futuro radioso, mirabolante e impossibile, che loro hanno deciso di scegliere, nonostante tutto.

*Professore Emerito, Università di Monaco; Visiting Professor, Università della Carolina del Nord di Chapel Hill. Contatto: john.h.komlos@gmail.com
**Professore a contratto di Politica Economica, Università Magna Graecia di Catanzaro (Italia). Contatto: perriphdsalvatore@gmail.com

Riferimenti bibliografici
Acemoglu, D. et al. (2016) ‘Import Competition and the Great US Employment Sag of the 2000s’, Journal of Labor Economics, 34(51), pp. 141–198. Available at: https://economics.mit.edu/files/11560.
Bureau of Justice Statistics (2015) ‘Correctional Populations in the United States’. Available at: https://www.bjs.gov/index.cfm?ty=pbdetail&iid=5870.
Case, A. and Deaton, A. (2017) ‘Mortality and morbidity in the 21st century’, Brookings Papers on Economic Activity. Available at: https://www.brookings.edu/bpea-articles/mortality-and-morbidity-in-the-21st-century/.
Ferguson, T., Jorgensen, P., & Chen, J. (2018). Industrial Structure and Party Competition in an Age of Hunger Games: Donald Trump and the 2016 Presidential Election. INET WP n. 66, January 2018.
Hartney, C. (2006) ‘US Rates of Incarceration: A Global Perspective’. Available at: http://www.nccdglobal.org/sites/default/files/publication_pdf/factsheet-us-incarceration.pdf.
Hedegaard, H., Warner, M. and Miniño, A. M. (2017) ‘Drug Overdose Deaths in the United States, 1999-2015’, NCHS data brief, (273). doi: 10.1016/j.neulet.2010.07.040.
Hein, E. (2012) The macroeconomics of finance-dominated capitalism and its crisis. Edward Elgar Publishing.
Hokayem, C. and Heggeness, M. L. (2014) Living in Near Poverty in the United States: 1966–2012. Available at: https://www.census.gov/prod/2014pubs/p60-248.pdf.
Komlos, J. (2018) ‘The economic Roots of the Rise of Trumpism’, CESinfo Working Paper Series, 6868.
Kusisto, L. (2015) ‘Many Who Lost Homes to Foreclosure in Last Decade Won’t Return – NAR’, Wall Street Journal. Available at: https://www.wsj.com/articles/many-who-lost-homes-to-foreclosure-in-last-decade-wont-return-nar-1429548640.
Mishel, L. (2012) ‘Unions, inequality, and faltering middle-class wages’, Economic Policy Institute.
Pierce, J. and Schott, P. (2016) ‘The Surprisingly Swift Decline of US Manufacturing Employment’, American Economic Review, 106(7), pp. 1632–1662. Available at: https://www.aeaweb.org/articles/pdf/doi/10.1257/aer.20131578?doi=10.1257/aer.20131578.
Ravitch, D. (2017) ‘Big Money Rules’, The New York Review of Books. Available at: http://68.77.48.18/RandD/Other/Big Money Rules – Diane Ravitch (NY Rev of Books, 2017-12-07).pdf.
Ravitch.com (2014) Foreclosure & Foreclosed Homes. Available at: https://www.realtytrac.com/mapsearch/foreclosures/.
Scheiber, N. (2011) The Escape Artists: How Obama‘s Team Fumbled the Recovery. New York: Simon & Schuster. Available at: https://www.simonandschuster.com/books/The-Escape-Artists/Noam-Scheiber/9781439172414.
S. Bankruptcy Courts (2017) Bankruptcy Cases Commenced, Terminated and Pending. Available at: http://www.uscourts.gov/sites/default/files/data_tables/bf_f_0331.2017.pdf.
Valli, V. (2018). The Economic Consequences of Donald Trump. In The American Economy from Roosevelt to Trump (pp. 163-180). Palgrave Macmillan, Cham.

[1]
L’abrogazione del Glass-Steagall Act del 1933, che separava le banche tradizionali da quelle d’investimento, è stata promulgata dal presidente Clinton nel 1999 (seppur su proposta del Congresso a maggioranza Repubblicana).
[2]
Ad esempio, Timothy Geithner, nominato da Bush Jr. presso la Federal Reserve di New York era un ex amministratore delegato di Goldman-Sachs (e membro del gabinetto di Bill Clinton) oppure Robert Rubin, in pratica, Obama si è affidato ad un ex incaricato repubblicano nella posizione cruciale di segretario del tesoro non dando nemmeno l’idea di un vero cambiamento.
[3]
Altri Stati limitrofi nei quali il reale reddito familiare medio è ancora inferiore al suo livello di fine del 20esimo secolo includono Indiana, Kentucky, West Virginia e Virginia.
[4]
In particolare lo studio di Ferguson, Jorgensen e Chen (2018), dimostra che l’esito elettorale è stato profondamente influenzato dai così detti “late contributions” ovvero quelli giunti a Trump nelle ultime settimane precedenti le elezioni.
[5]     Non a caso Ferguson, evidenzia come alcuni dei finanziatori di Trump gli abbiano già voltato le spalle contribuendo alla vittoria dei Democratici in Senato https://www.ineteconomics.org/perspectives/blog/how-money-won-trump-the-white-house. Beto O’Rourke in Texas, nonostante la sconfitta, è stato il candidato Democratico che ha avuto i maggiori finanziamenti nelle recenti elezioni di mid-term.