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giovedì 11 aprile 2019

Uscire dal sottosviluppo: nuove strategie per l’economia del Mezzogiorno

Oggi su OpenCalabria:

http://www.opencalabria.com/uscire-dal-sottosviluppo-nuove-strategie-per-leconomia-del-mezzogiorno/?fbclid=IwAR3aGqc99xGooIoY8My2KJQObfFroIOrIGNkGfzoKNzSoDwpGiaxsa7hQH0

L’odierno Mezzogiorno. La condizione economica del Mezzogiorno risulta essere preoccupante sotto diversi profili, sia nel rapporto con le altre aree del paese che nel confronto con analoghe realtà europee. Sostanzialmente le regioni del Sud Italia risultano avere un tessuto produttivo debole e frammentato, una forte dipendenza dai trasferimenti pubblici, un tasso di disoccupazione (specie giovanile) più elevato della media nazionale ed europea, una forte emigrazione intellettuale, un ampio settore sommerso, una burocrazia farraginosa ed inefficace ed una presenza pervasiva della criminalità organizzata[1].
La caratteristica di questa situazione non è tanto relativa all’ampiezza dei divari (elevata) quanto alla relativa stabilità nel tempo dei divari stessi, il che suggerisce che un siffatto sistema economico abbia trovato una sua forma di equilibrio, un equilibrio di sottodimensionamento. La debolezza del tessuto produttivo, fatto di piccole e piccolissime imprese che non si mettono in rete non raggiungendo quindi una sufficiente massa critica per diventare distretti industriali, influenza la domanda aggregata condizionandone l’ampiezza a causa del basso valore aggiunto prodotto. La ristrettezza dei margini di profitto, a sua volta, genera un costante ricorso a varie forme di sommerso produttivo, che “integrano” la produzione e consentono agli individui a basso reddito di rifornirsi di merci a basso costo. Inevitabilmente la prevalenza di imprese che escono dal circuito legale per produrre in “nero” determinano una domanda aggiuntiva di lavoratori scarsamente qualificati[2]. L’emigrazione costante di persone con una qualificazione culturale elevata produce un danno cumulativo nel tempo, in quanto impoverisce strutturalmente il sistema economico meridionale, anche in relazione di svantaggio competitivo con le aree in cui i giovani meridionali qualificati vanno a lavorare, contribuendo ad aggravare il divario ed a renderlo persistente.
I dati pubblicati nel “The Global Human Capital Report 2017” evidenziano come siano proprio i lavoratori italiani con un livello di istruzione medio-alto a dare un contributo maggiore in termini di crescita del PIL, paragonabile a quello dei paesi più avanzati, mentre quelli a basso livello di istruzione danno un contributo inferiore, in proporzione, se paragonati agli omologhi dei paesi OECD. Si genera, quindi, un doppio circolo vizioso, da un lato le imprese meridionali non attraggono a sufficienza lavoratori qualificati, l’emigrazione di lavoratori “skilled” riduce la produttività del lavoro e quindi la competitività dell’intero “sistema economico Mezzogiorno”. L’emigrazione complessiva (di lavoratori qualificati e non) unita alla diminuzione della popolazione che ne consegue, riduce strutturalmente la domanda aggregata, e aumenta paradossalmente la domanda di sommerso, di merce a basso valore aggiunto, di lavoratori con bassi salari, innescando una spirale che non si fermerà autonomamente. Nella Figura 1, si evidenzia la divaricazione del numero di occupati fra Sud e Centro, cominciato prima della recente crisi economica, si è accentuato e poi stabilizzato, certificando che l’occupazione che viene persa nel Sud in genere non viene assorbita, anche quando le condizioni macroeconomiche generali migliorano.

Errori del passato e strategie per il futuro. A problemi noti sono stati contrapposte varie risposte dal punto di vista delle “politiche” nell’arco del tempo. Si è passati dagli embrioni dei programmi di lavoro garantito[3] degli anni ‘60 (per evitare lo spopolamento) al tentativo di industrializzare il Mezzogiorno con localizzazioni mirate di industrie negli anni ’70 (finanziate dal pubblico), al tentativo di promuovere nel meridione forme di crescita “endogena” basata su incentivi alla nascita di nuove imprese ed alla formazione, con decontribuzione, dei nuovi assunti (politiche finanziate con progetti statali ed Europei nel solco delle Strategie di Lisbona). Queste fasi si sono ormai concluse, lasciando un Sud Italia privo di un tessuto industriale pesante, con una prevalenza di piccole e micro imprese con un altissimo livello di nata-mortalità delle stesse legata al ciclo degli incentivi[4]. Il Mezzogiorno d’Italia si può rappresentare come una realtà post industriale senza che essa sia stata pienamente industriale, prova di questo sono le realtà nelle quali sono presenti i frutti avvelenati dell’industria, quali inquinamento presente e persistente a distanza di molti anni dalla fine dei tentativi di imporre lo “stato imprenditore”.
Appare evidente, quindi, che lo sviluppo del Mezzogiorno debba passare per un totale cambio di strategia. In particolare, nonostante il dibattito ed i tentativi di investimento, nel Meridione esiste oggettivamente un gap infrastrutturale difficilmente colmabile nel breve periodo, di conseguenza ipotizzare una crescita endogena che adegui la struttura industriare a quella media europea appare decisamente utopico. Sono possibili altre strade, in particolare,  quelle relative al coordinamento di strategie d’investimento miste finalizzate al supporto della trasformazione delle imprese legate al modello dell’Industria 4.0 sinergicamente al concetto di Economia Sostenibile.
I dati sono impietosi, in proporzione esiste un numero maggiore di giovani meridionali con titolo di studio che emigrano in quanto non esistono (o sono limitate) le opportunità di lavoro sulla base delle loro qualificazioni professionali (Rapporto Svimez, 2018 e precedenti[5]). Incentivare la trasformazione (anziché la nascita, o la localizzazione) delle imprese verso il modello della Smart Manifacturing potrebbe frenare il depauperamento qualitativo della forza lavoro nel Meridione. La “Fabbrica del Futuro” si basa sui paradigmi dell’Internet of Things, dei Manufacturing Big Data, sulle Wearable Technologies, l’Additive Manufacturing e le New Automations & Robotics. Sotto questo aspetto vi è da sottolineare che il ritardo nello sviluppo delle ICT non denota componenti territoriali ma appare omogeneo da Nord a Sud[6]. I concetti produttivi dell’Industria 4.0 hanno in comune caratteristiche che potrebbero essere applicabili anche in “questo” Mezzogiorno. Si tratta di industrie “leggere” che non hanno bisogno di investimenti in sovrastrutture fisiche, di conseguenza potrebbero essere implementate rapidamente, si basano sugli interscambi virtuali di informazioni, sulla condivisione e l’accrescimento delle stesse, un modello che ben si collegherebbe ad una realtà che possiede capitale umano all’avanguardia che deve soltanto essere messo in condizioni di lavorare. Questo cambiamento appare necessario in quanto, come si evince dalla Tabella 1, le regioni Meridionali sono tra le peggiori d’Europa dal punto di vista della dotazione infrastrutturale, e pertanto attendere un adeguamento a standard europei potrebbe necessitare di decenni.

Si è già detto che l’emigrazione dal Mezzogiorno d’Italia verso il centro nord e l’estero non stà più riguardando solo i lavoratori giovani e qualificati bensì anche fasce d’età più avanzate, si può porre rimedio collegando agli investimenti per la trasformazione produttiva anche al “recupero dell’esistente[7]”. Tra i vari effetti della desertificazione industriale in larghe zone del Meridione vi sono zone industriali semi abbandonate, frutto in larga parte di incentivazione pubblica. La cura del territorio, il recupero delle strutture esistenti da riutilizzare, sono attività ad alta intensità di lavoro che potrebbero effettivamente consentire di “reintegrare” almeno parzialmente il divario occupazionale che è sostanzialmente stabile tra nord e sud negli ultimi 20 anni[8].
Il rapporto dell’Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile (2018) non a caso segnala che i problemi che si stanno aggravando in Italia riguardano proprio la Povertà, l’Occupazione, la Condizione Economica, le Disuguaglianze e le condizioni delle Città. Investire nella lotta al degrado delle periferie cittadine, alle bonifiche post industriali attraverso il recupero infrastrutturale, consentirebbe in modo sinergico di ridurre strutturalmente il divario occupazionale e di porre le basi per uno sviluppo durevole basato anche sul recupero della domanda interna.
Conclusioni. In conclusione, una politica economica lungimirante per il Mezzogiorno dovrebbe basarsi su due direttive. La prima è quella di delineare un insieme di politiche economiche utili a consentire il passaggio dalla situazione attuale fatta di aziende piccole, che non fanno rete, con prevalenza di settori tradizionali, ad una caratterizzata da una prevalenza di aziende Smart. Il sud Italia è risultato essere periferico nel contesto europeo, per la distanza geografica con i grandi centri produttivi ed i grandi mercati, può invece ancora diventare centrale, in un contesto euro-mediterraneo, allorquando fosse in grado di rappresentare un modello di sviluppo ad alto contenuto tecnologico in cui la produzione materiale ed immateriale non dipenda dai limiti fisici e dimensionali di cui ha sofferto sin’ora. Questo passaggio deve essere necessariamente mediato da una modifica delle politiche economiche adottate e dal volume e qualità degli investimenti. In secondo luogo c’è ancora spazio per assorbire la disoccupazione generata dallo scarso peso dimensionale delle aziende nel Mezzogiorno, ovvero l’applicazione dei principi dello sviluppo economico sostenibile, che nel sud si devono declinare come interventi di recupero infrastrutturale e territoriale. Questi interventi devono essere necessariamente coordinati ed organizzati dal settore pubblico, ma avrebbero un ritorno immediato nel recupero della domanda aggregata derivante dai consumi di coloro che sarebbero altrimenti emigrati. Mentre a lungo termine si avrebbe un miglioramento strutturale nelle condizioni di vita nel Mezzogiorno, rendendolo vivibile e attrattivo, non solo per il turismo, ma anche per gli investimenti ad altro contenuto culturale e tecnologico.

[1] Si veda un mio precedente commento pubblicato da “La Voce.info” nel 2015 a proposito dei divari di produttività tra nord e sud https://www.lavoce.info/archives/37879/perche-il-sud-e-meno-efficiente/
[2] Si potrebbe dire con un basso “salario di riserva”.
[3] Ad esempio nel campo della forestazione, il massiccio impiego di lavoratori nel settore, sproporzionato in termini territoriali, è stato oggetto di dibattito politico fino alla fine degli anni ’80.
[4] Nel corso del I Trimestre 2018, in Calabria, il saldo annuale tra iscrizioni e cessazioni di imprese è stato di negativo per 421unità, dati Movimprese-Unioncamere.
[5] Si stima che negli ultimi 10 anni siano emigrati dal Meridione 500.000 persone, sul peso anche qualitativo dell’emigrazione intellettuale si veda Vecchione (2017).
[6]  Si veda la Nota diffusa dal Centro Studi di Confindustria sull’industria italiana 4.0, su dati del 2017.
[7] Secondo i dati Istat al 2017 erano più di 300.000 le abitazioni vuote nel Mezzogiorno, il recupero anche di abitazioni, oltre che di edifici industriali da riconvertire, potrebbe rappresentare una opportunità di sviluppo per le piccole imprese, prevalenti nel Sud.
[8] La persistenza della disoccupazione meridionale rispetto a quella del centro nord è da me discussa, su dati Istat, nell’articolo “Mezzogiorno senza reddito e senza cittadinanza” pubblicato da Economia e Politica nel 2018.

Riferimenti Bibliografici
ALLEANZA ITALIANA PER LO SVILUPPO SOSTENIBILE (2018). L’Italia e gli obiettivi di sviluppo sostenibile. http://asvis.it/rapporto-asvis-2018/#.
Bolto, A. (2013). Il Mezzogiorno italiano: forze di mercato o politiche economiche? Moneta e Credito, 43(172).
Martin, S., & Scott, J. T. (2000). The nature of innovation market failure and the design of public support for private innovation. Research policy, 29(4-5), 437-447.
Ortega-Argilés, R., & McCann, P. (2018). Smart Specialization, Regional Growth and Applications to European Union Cohesion Policy. In Place-based Economic Development and the New EU Cohesion Policy (pp. 51-62). Routledge.
Perri, S., & Lampa, R. (2018). When small-sized and non-innovating firms meet a crisis: Evidence from the Italian labour market. PSL Quarterly Review, 71(284), 61-83.
SVIMEZ (2018). L’economia e la società del Mezzogiorno. Il Mulino.
World Economic Forum. “The Global Human Capital Report” (2017). https://www.weforum.org/reports/the-global-human-capital-report-2017
Vecchione, G. (2017). Migrazioni intellettuali ed effetti economici sul Mezzogiorno d’Italia. Rivista Economia del Mezzogiorno, SVIMEZ 3-2017, Il Mulino, Bologna.


Salvatore Perri

Salvatore Perri

Economista Indipendente, esperto di Analisi delle Politiche Economiche Internazionali, attualmente Professore a Contratto di Politica Economica presso l'Università della Magna Graecia di Catanzaro. Ha pubblicato ricerche su riviste nazionali ed estere. Alcuni suoi contributi sono stati pubblicati dal blog della London School of Economics, La Voce.info ed Economia&Politica. E' membro dell'International Institute of Global Economy e del Board of Experts della BBC. Tra i suoi temi di ricerca: Il rapporto Finanza-Crescita, le Teorie Macroeconomiche, il Mezzogiorno, l'Euro e le Politiche Europee.

martedì 7 luglio 2015

Il prezzo da pagare per la tragedia greca

Oggi un mio pezzo su La Voce.info
 http://www.lavoce.info/archives/35990/il-prezzo-da-pagare-per-la-tragedia-greca/

L’austerità ha fallito, lo dice anche l’Fmi. E la dimostrazione è la Grecia. Ma se si arrivasse al default, i paesi europei sarebbero direttamente coinvolti. La scelta è ora fra piccoli sacrifici distribuiti fra tutti gli europei o un prezzo molto alto per il popolo greco oggi e per noi domani.

Tra austerità e default

Il referendum greco sull’accordo di salvataggio è solo l’ultimo di una serie di tentativi del governo Tsipras di evitare ulteriori misure di austerità al suo popolo. Se è una strada giusta o sbagliata, nessuno può saperlo. Alcune cose però si sanno ed è meglio dirle, prima che sia troppo tardi.
L’austerità ha fallito. Finché a dirlo era solo una parte dell’accademia considerata a torto o ragione “eterodossa”, il tema poteva essere fonte di discussione, ma quando uno studio in tal senso arriva direttamente dal Fondo monetario internazionale a firma Olivier Blanchard e Daniel Leigh, si può tranquillamente prenderla come una considerazione definitiva. Le “riforme” chieste alla Grecia hanno accentuato gli effetti della crisi, poiché una politica fatta di tagli alla spesa, senza un programma di riforme favorevoli alla ripresa, finisce per ridurre i consumi interni proprio delle fasce sociali che consumano una porzione maggiore del proprio reddito. Di conseguenza, la riduzione del prodotto interno lordo greco ha fatto aumentare il peso del debito in termini relativi, dinamica illustrata da Marianna Mazzucato e in atto anche per l’Italia, che nonostante la riforma pensionistica ha visto crescere costantemente il rapporto debito/Pil negli anni seguenti l’inizio della crisi.
Il default è un’opzione? In queste ore in Grecia si avvertono i primi segni dell’eventuale insolvenza. Dalle file agli sportelli bancari, alla carenza di farmaci nonché di tutti i beni importati in genere. Le conseguenze di diventare un debitore insolvente sono gravi e immediate, a cominciare dall’impossibilità di avere nuove linee di credito, il che comporta immediatamente la difficoltà di approvvigionamento delle merci importate (tra le quali le materie prime, petrolio e gas). Successivamente, vista la crisi di liquidità, senza accordo, la Grecia dovrebbe necessariamente ricorrere a forme alternative di emissione valutaria creando, di fatto, un sistema a doppia circolazione, in cui la nuova dracma verrebbe usata solo all’interno, mentre gli euro sarebbero usati come bene rifugio (nella più classica applicazione della legge di Gresham, secondo cui la moneta “cattiva scaccia quella buona”).
Le conseguenze di un tale caos si estenderebbero a tutta l’Europa, attraverso i mancati pagamenti della Grecia ai paesi creditori, ma colpirebbero prioritariamente proprio le classi meno abbienti del popolo greco. Inoltre, ogni forma di evento “destabilizzante” provocherebbe una crisi di fiducia e minerebbe la stabilità dell’intera area, dando fiato agli attacchi dei fondi finanziari speculativi.

Chi sono i creditori della Grecia

Chi detiene il debito greco? La sua distribuzione, come ricostruita da Paolo Cardenà, vede come maggiori creditori le istituzioni internazionali: addirittura il 60 per cento è in mano proprio all’UE (attraverso i fondi Efsf di stabilità e del fondo “salva stati” Esm), mentre solo il 12 per cento sarebbe nelle mani dell’Fmi, in questo momento il più intransigente nei confronti della Grecia. Nell’articolo, si evidenzia come i paesi europei siano “realmente” coinvolti nell’eventuale default (Germania, Francia e Italia con 146 miliardi al gennaio 2015) e come questo trasferimento di proprietà del debito abbia avuto una dinamica veramente singolare: in pratica le banche private dei paesi europei hanno scaricato sugli stati, e sulla Bce, il peso del debito greco dal 2009 a oggi.
In altre parole, il salvataggio della Grecia, anziché salvare il paese, ha legato a filo doppio il destino dei greci a quello degli altri europei. Fosse fallita nel 2009, la Grecia avrebbe fatto fallire le banche europee, trasmettendo lo shock alle economie reali; oggi, un default di Atene costringerebbe Italia, Francia e Germania direttamente a manovre correttive di bilancio.

Scenari inquietanti

Cosa si può fare ora? Lo scenario è inquietante, le conseguenze a breve termine di un default greco potrebbero essere pesantissime e per questo un accordo deve essere trovato. Ma quale accordo? È impossibile prendere in considerazione l’ipotesi che siano gli stati europei a pagare, visto che per esempio l’equilibrio dei conti pubblici italiani già così è a rischio. Dunque, un piano di salvataggio dovrebbe partire da alcuni presupposti ineludibili:
1) La riduzione del debito, attraverso uno storno della quota degli interessi dovuti agli investitori internazionali, proprio quella che ha autoalimentato il debito negli ultimi anni (attraverso un accordo che veda come interlocutore l’Unione Europea e non la sola Grecia);
2) La Bce dovrebbe rilevare la quota detenuta dall’Fmi, anche questo con un accordo “al ribasso” dato che, per ammissione stessa dell’Fmi, le “riforme” imposte alla Grecia, in cambio dei prestiti, erano errate.
3) Un piano d’investimenti straordinari in Grecia, ma anche una riformulazione delle richieste, che consideri la necessità di protezione sociale per le classi meno abbienti (andando verso una convergenza dei parametri economici anziché esclusivamente dei vincoli finanziari) in cambio, ad esempio, delle riforme pensionistiche. Si ricordi che sono proprio Grecia e Italia i due paesi più carenti in questo senso.
È evidente che queste misure avrebbero un costo, anche in termini d’inflazione, visto che la Bce dovrebbe rompere il dogma del divieto di politiche espansive. Allo stesso tempo si dovrebbe archiviare definitivamente il mito dell’austerità espansiva, che si è rivelata inutile e dannosa come sottolineato più volte anche da Paul Krugman.
In conclusione, la scelta dell’Europa e della Grecia non è quella fra euro e dracma, tra Alexis Tsipras e Angela Merkel, tra democrazia e autocrazia, quanto fra piccoli sacrifici distribuiti fra tutti i paesi europei ed enormi sacrifici per il popolo greco oggi (e per noi domani).
 

giovedì 23 gennaio 2014

Il capitalismo dominato dalla finanza e la sua crisi



Salvatore Perri

Sempre più spesso si ascoltano ragionamenti secondo cui gli Economisti non servirebbero a nulla in quanto, non hanno previsto la crisi, non la risolvono, nonché varie ed eventuali, tanto varrebbe chiudere i corsi di Economia ed andare in collina. A poco vale sottolineare un passaggio di Galbraith che, citando Marx, spiegava che il capitalismo “avanza per crisi”, ma queste cose in genere si leggono nei corsi di Economia.

La mia opinione è che non ci si improvvisa Economisti dalla mattina al pomeriggio, come non ci si improvvisa Medici, Astrofisici o Esperti di Storia dell’Arte. Ma anche all’interno della stessa categoria degli Economisti ci sono una moltitudine di specializzazioni come in Medicina. A puro scopo di esempio, ho scoperto di avere il reflusso andando dal Gastroenterologo, fossi andato dell’Ortopedico non credo che avrei mai iniziato una terapia.

Ovviamente chiunque può dire cose intelligenti dal punto di vista economico, soprattutto se svolge professioni per le quali questo è necessario, in particolare quando si và sul piano tecnico specifico ci sono degli analisti nel privato che ne sanno più dei docenti. E’ piu’ difficile, invece, che un profano assoluto della materia ci offra soluzioni strutturate a livello “Macro”, perché le problematiche non sono mai banali.

Il Macroeconomista (lo studioso di Economia Politica) è assimilabile ad un Medico specializzato in “Medicina Generale”, analizza il soggetto, osserva le sintomatologie, e sulla base della propria cultura ed esperienza fornisce una diagnosi ed una prognosi. La differenza è il soggetto, che non è un complesso organismo umano ma un altrettanto complesso sistema economico. Anche le diagnosi mediche a volte non è detto siano giuste, ma non per questo bisogna chiudere le facoltà di Medicina. Cosa sia un Economista dal punto di vista formale lo ha spiegato Fabio Sabatini in un articolo su Micromega e Repubblica. Ma anche all’interno della categoria degli “Economisti” in senso stretto si può integrare la classificazione di Sabatini con altre 3 categorie. 

Ci sono gli “Illuminati” cioè coloro che, in base ai loro studi e ricerche, analizzano correttamente i fenomeni economici e sono in grado di anticipare le dinamiche future fornendo spunti per la correzione delle politiche economiche. Ci sono i “Fulminati” che si sono svegliati una mattina convinti di avere le risposte a tutte le domande, oppure che una particolare teoria a cui sono affezionati sin da bambini salverà l’universo-mondo e non và messa in discussione pena la scomunica. In ultimo, sicuramente per importanza, ci sono i “Mistici”, che hanno avuto carriere così miracolistiche da essere troppo impegnati a rendere omaggio ai loro Santi Patroni per accorgersi che c’è un mondo là fuori, ma almeno questi ultimi non sono dannosi per l’ambiente perché non li si vede e non li si sente.

Io non so se sono Illuminato o Fulminato (o entrambe), lascio a chi legge i miei pezzi stabilirlo, sicuramente non sono Mistico (visto l’andamento della mia carriera).

Per certo Eckhard Hein è uno studioso serio e razionale. Ho letto il suo ultimo libro The Macroeconomics of Finance-dominated Capitalism – and its Crisis” edito da Edgar Elgar (2012), e credo che possa rappresentare un ottimo esempio di che cosa vuol dire fare i Macroeconomisti.

Hein analizza le trasformazioni economiche provocate da un capitalismo dominato dalla finanza, individuando i canali attraverso i quali esso opera e propone soluzioni di politica economica per uscire dalla crisi. Fa tutto questo attraverso l’analisi dei dati di un gruppo di paesi c.d. “avanzati” e con l’ausilio del modello di crescita endogena proposto originariamente da Kalecki.

In primo luogo, l’autore dimostra che nel capitalismo dominato dalla finanza il reddito da lavoro si riduce a vantaggio dei profitti da capitale, delle rendite finanziarie e dei salari dei managers. Questo meccanismo non sarebbe di per sé dannoso, se i profitti così ottenuti fossero reinvestiti nell’economia reale. Invece Hein nota che la finanziarizzazione dell’economia produce un regime economico nel quale l’orizzonte temporale degli investimenti “si accorcia”. In pratica gli operatori guardano al brevissimo periodo, cercando di massimizzare i profitti finanziari in poco tempo, di conseguenza, si ottiene come risultato un sistema in cui ci sono “profitti senza investimenti”. Per esemplificare, anziché in una azienda si investe nel fondo speculativo.
Sostanzialmente a livello macro, ciò che avviene è un’estrazione di rendita finanziaria sovranazionale, laddove i capitali sono liberi, mentre il reddito dei lavoratori e le risorse a disposizione delle imprese si riducono.

Hein nota anche che i regimi economici che emergono dal capitalismo finanziario sono estremamente instabili dal punto di vista macroeconomico. In una mia ricerca, (che spero sia pubblicata a breve), dimostro empiricamente che l’instabilità macroeconomica impedisce una corretta trasformazione dei risparmi in investimenti, accentuando il fenomeno sottolineato da Hein. Pertanto unendo questi due argomenti si ottiene un circolo vizioso potenzialmente devastante e senza limiti.

Un altro aspetto interessante riguarda il cambiamento di risultati considerati come acquisiti dalla letteratura classica. Si sosteneva che un aumento del potere degli azionisti all’interno della società comportasse un incremento del tasso di accumulazione del capitale e di conseguenza della crescita di lungo periodo. Secondo Hein, le dinamiche descritte in precedenza ci raccontano un’altra storia, gli azionisti utilizzano i dividendi per il profitto di breve periodo, e per le ragioni di cui sopra, sottraggono denaro alla circolazione “produttiva” privilegiando quella speculativa. Di conseguenza l’aumento del potere degli azionisti anziché agire come stimolo alla crescita finisce per deprimerla.

Quando Hein introduce esplicitamente nel modello il debito privato, i risultati che ne scaturiscono sono tutt’altro che incoraggianti. Come abbiamo detto il reddito dei lavoratori si stà riducendo, gli stessi per mantenere un livello congruo di consumi si indebitano. Ma se il tasso di interesse è più alto del tasso di crescita dell’economia il debito aggregato tende a crescere senza limiti, in assenza di regolazione esterna (fenomeno che avevo analizzato in un altro pezzo).

Successivamente l’autore mette in evidenza che l’esplosione del debito in alcuni paesi europei ha colpito anche gli altri, perché la riduzione della domanda aggregata complessiva ha danneggiato le loro esportazioni.

In conclusione e riassumendo, il capitalismo dominato dalla finanza (insieme alle politiche economiche neo-liberiste) è alla base della crisi che stiamo vivendo. Per uscire da questa situazione è necessario, secondo Hein, muoversi su diversi profili. A livello intranazionale devono essere varate politiche fiscali che restituiscano potere d’acquisto ai redditi da lavoro, anche in termini di aumenti salariari. Questo ridurrebbe gli effetti derivanti dall’incremento del debito privato. Per quanto riguarda il contesto europeo, Hein sostiene che sia necessario un maggior coordinamento delle politiche economiche tra i diversi stati, al fine di muovere risorse dai paesi in surplus commerciale verso quelli in deficit per ridurre gli squilibri (che durante la crisi sono aumentati).

Un aspetto decisivo in questo senso è la considerazione che l’ampiezza dei fenomeni evidenziati ha dimensione sovranazionale, di conseguenza anche una buona politica, varata dal singolo stato potrebbe rivelarsi inefficace, se gli altri paesi fanno l’opposto. Inoltre è necessario, secondo l’autore, reintrodurre la separazione fra banche commerciali e banche d’investimento, oltre ad una efficiente regolazione del settore finanziario a livello sovranazionale.

Ovviamente nel libro c’è molto di più ed ho sottolineato solo gli aspetti che hanno colpito la mia curiosità, pertanto ne consiglio la lettura ai più “appassionati di Economia”. Economisti e non.