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venerdì 8 gennaio 2021

Intervento sul tema "La storia e l'informazione economica oggi" 7 Gennaio 2021

Il mio intervento del 7 gennaio 2021, per il terzo ciclo di conferenze in diretta facebook a partire dal Manifesto "La storia cambi passo" sul tema " La storia e l'informazione economica oggi".
https://www.youtube.com/watch?v=AYjqeiQe2tE&t=1173s

martedì 15 settembre 2020

Un’economia vulnerabile: i risultati economici della prima presidenza Trump

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JEL: A10, E02, E39, G10, H10

La crisi economica legata al Covid-19, come tutti gli eventi negativi di carattere globale, tende ad essere classificata come imprevedibile e sganciata da ogni possibilità di prevenzione. In realtà, anche se l’evento è di per sé impronosticabile, le condizioni dei sistemi economici in termini di vulnerabilità agli shocks dovrebbero essere maggiormente tenuti in considerazione nei periodi così detti “normali”. Nel 21esimo secolo, eventi economici di portata catastrofica come la “bolla informatica”, l’11 settembre e la crisi finanziaria globale del 2008, si sono verificati in media ogni 5 anni se consideriamo anche le gravi crisi internazionali a carattere regionale. Pertanto, l’obiettivo di rendere le società moderne più “robuste” in termini di fondamentali economici, e meno vulnerabili agli shocks (Taleb 2009), dovrebbe essere comunque prioritario anche rispetto ai risultati economici di breve termine. La domanda da porsi, per valutare correttamente l’operato dell’amministrazione Trump, è se la sua politica economica prima della crisi pandemica abbia reso l’economia statunitense più forte strutturalmente oppure no.

Donald Trump ha affermato pubblicamente più volte che la sua amministrazione ha raggiunto risultati economici eccezionali, mai ottenuti prima, e tali risultati sarebbero ascrivibili ai provvedimenti di politica economica intrapresi da quando è stato eletto.

Questa opinione, rilanciata anche da altre autorevoli fonti[1], ha fatto breccia nell’opinione pubblica, nazionale ed internazionale, tanto da essere ripresa anche in Italia per corroborare alcune proposte di politica economica allo stato prive di evidenze empiriche favorevoli[2]. Al netto della propaganda elettorale, i dati raccontano un’altra realtà, molto più problematica, che getta pesanti ombre sul futuro economico degli Stati Uniti.

Occupazione, salari e redditi

Il Bureau of Labour Statistics (2020) ha recentemente diffuso un’analisi sul tasso di creazione di posti di lavoro negli ultimi 3 anni dell’amministrazione Obama e nei primi 3 di quella guidata da Donald Trump. Il tasso medio mensile di creazione di posti di lavoro è stato di 224.000 unità negli ultimi 3 anni di Obama e di 182.00 nei primi 3 di Trump, il tutto con tassi di crescita economica simili[3]. Pertanto, lungi dall’essere risultati eccezionali, appaiono conseguenza della crescita iniziata durante il periodo precedente con addirittura un rallentamento della crescita occupazionale, mentre tutti gli altri indicatori del mercato del lavoro hanno un andamento coerente con la dinamica intrapresa nei periodi precedenti.

Sottolineiamo che la disoccupazione ufficiale è al 3,5% ma solo a causa delle metodologie di calcolo. Il tasso di disoccupazione reale dovrebbe considerare come disoccupato almeno un terzo di coloro che lavorano part-time, involontariamente, e anche coloro che sono disoccupati “disponibili” a lavorare indipendentemente da quanto tempo abbiano smesso di cercare lavoro[4]. Se considerassero come disoccupate queste tipologie di persone il tasso di disoccupazione reale stimato nel 2019 sarebbe in realtà del 7,8%, molto lontano dalla piena occupazione (Komlos, 2019a, p. 190). Inoltre, molti dei posti di lavoro creati non forniscono sicurezza e stabilità di reddito ma sono perlopiù lavori precari privi di assicurazione sanitaria e di indennità di disoccupazione (Friedman, 2014; Standing, 2014). In numero dei lavoratori che hanno “abitualmente” solo un’occupazione part time è in costante aumento dagli anni ’70 e durante la presidenza Trump è rimasto stabile ai suoi livelli massimi di sempre[5].

Inoltre, 4,6 milioni di lavoratori part-time non riescono a trovare un lavoro a tempo pieno, non sono stati considerati disoccupati nonostante guadagnino 283 dollari a settimana, solo 14 dollari in più di quanto guadagnavano nel luglio 2002 (ai prezzi del 2019, serie Fed LEU0262881800Q).

Sebbene si possa dire che i salari siano mediamente aumentati, si deve sottolineare che il reddito medio dei lavoratori a tempo pieno è ancora al di sotto del livello del 1979 (serie Fed LES1252881900Q). E per coloro che sono privi di un’istruzione universitaria i salari sono ancora al di sotto in termini reali rispetto ai livelli raggiunti alla fine degli anni ’70.

È anche vero che i redditi medi sono aumentati, ma l’aumento è apparente più che concreto se si considerano i fattori distributivi e quelli legati ai panieri di consumo. Il reddito familiare medio è aumentato solo di 100 dollari all’anno dal 2000 (Fed, serie MEHOINUSA672N) e in molti stati del c.d. Rustbelt, la zona maggiormente colpita dalla deindustrializzazione (Komlos e Perri 2019c), è ancora al di sotto del livello del 2000. La situazione è ancora peggiore se si considerano gli aggiustamenti statistici dell’indice dei prezzi. L’indice COTI[6], che rappresenta l’equivalente dell’indice dei prezzi al consumo, evidenzia una crescita superiore al tasso di crescita dei redditi. Di fatto la classe media sta continuando ad impoverirsi rapidamente perché l’aumento dell’indice dei prezzi al consumo colpisce in misura proporzionalmente maggiore i redditi medio-bassi (Cass 2020).

Politiche fiscali, disuguaglianze e debito

Il caposaldo della politica fiscale Trumpiana è, nel solco della tradizione Reaganiana, il taglio delle tasse ai segmenti ad alto reddito della popolazione[7]. La ratio è sempre la stessa, il taglio delle tasse ai ricchi produrrebbe diversi effetti benefici per l’economia tra cui il rilancio degli investimenti privati dal lato dell’offerta ed il conseguente aumento dell’occupazione dal lato della domanda. Ma come è stato evidenziato sin da subito da centri studi indipendenti, se gli effetti sulla crescita sono incerti, sicuramente una siffatta strategia agisce ampliando le disuguaglianze in termini di distribuzione del reddito (Tax Policy Center, 2017). Nel 2019, a distanza di due anni dei tagli, la crescita economica è stata del 2,9%, come nel 2015, ma il peso delle tasse si è spostato ulteriormente sulla classe media.

Le famiglie statunitensi appartenenti all’1% più ricco hanno accumulato complessivamente risparmi delle tasse pari a 35 milioni di dollari mentre il 40% degli adulti non ha a disposizione riserve emergenziali di 400 dollari per far fronte ad una spesa imprevista (Board of Governors, 2018, p. 21).

Il livello di disuguaglianza è stato palesemente aggravato dai tagli fiscali del 2017[8] ed è peggiorata anche la percezione della disuguaglianza stessa, in quanto ad ampliarsi non sono solo i divari in termini di reddito reale ma anche quelli in termini di ricchezza. L’aumento delle disuguaglianze può generare crisi sociali dall’impatto economico distruttivo (Greenspan, 2007b, pp. 365, 408).

Se la crescita economica è rimasta invariata rispetto al periodo di Obama anche il debito pubblico ha continuato a correre, all’inizio del 2020, prima della pandemia aveva raggiunto 23,2 trilioni di dollari (Serie Fed, GFDEBTN, GFDEGDQ188S). Ma il contributo netto delle politiche Trumpiane si può osservare in termini di rapporto deficit/Pil che, proprio a seguito dei tagli fiscali del 2017, ha ricominciato a crescere passando dal 102,78% del quarto trimestre del 2017 al 106,68 del quarto trimestre del 2019[9]. All’aumento del debito contribuisce in maniera decisiva l’aumento del Deficit Federale che è cresciuto costantemente durante l’intera presidenza Trump, in questo caso in controtendenza rispetto agli ultimi anni di Obama nei quali si stava riducendo[10] (Federal Reserve Bank of St. Louis 2020). In sostanza si è confermata la tendenza che vede crescere il debito a seguito di tagli delle tasse[11], da Reagan in poi, considerando che il debito federale era il 31% del PIL nel 1981 (Komlos e Perri 2019b).

Non vanno meglio le cose per quanto riguarda il settore privato in quanto sono in aumento le persone che non riescono a risparmiare (Board of Governors 2018), e dalla grande crisi finanziaria del 2008 sappiamo che l’impossibilità di ripagare i debiti è un ulteriore elemento di fragilità sistemica per un’economia, perché può generare un effetto domino in grado di trasmettere la crisi finanziaria al settore reale.

Politica monetaria e mercati azionari

A seguito della crisi finanziaria del 2008 l’intervento della FED è diventato sempre più incisivo. L’espansione del bilancio della banca centrale statunitense, per quanto imponente, appare in linea quello delle altre grandi banche centrali delle economie mature. L’arrivo di una nuova crisi ha reso necessario confermare gli interventi precedenti e proporne di nuovi, analogamente a quello che succede in Europa. Tra l’11 marzo e il 15 aprile 2020 la Fed ha acquistato attività finanziarie per il valore, senza precedenti, di 2 trilioni di dollari. La dichiarazione di Jerome Powell[12] sull’inflazione è solo l’ultimo segnale di un cambiamento epocale delle politiche monetaria, che difficilmente potrà essere revocato in futuro.

Anche i record dei mercati azionari sono stati portati da Trump come il risultato della sua strategia, ma molti analisti hanno parlato di “un’esuberanza irrazionale” (Shiller 2020). L’elevata volatilità degli indici rispetto ai fondamentali non è necessariamente un fenomeno positivo, in particolare se le valutazioni borsistiche deviano dai fondamentali, evidenziando uno sganciamento dai fattori reali dell’economia[13]. La letteratura scientifica ha ipotizzato degli indicatori in grado di misurare l’instabilità finanziaria[14], prendono in considerazione la volatilità degli indici di borsa e l’espansione del credito bancario[15] (Ferguson 2002, Borio e Lowe 2002), entrambi questi indicatori stanno toccando livelli record in questa fase[16].

Conclusioni

Le crisi non sono affatto eventi estemporanei e imprevedibili, ma sono eventi che devono essere considerati nell’implementazione delle strategie di politica economica a lungo termine. Una crisi può avere natura esterna, come quella odierna di carattere globale, oppure può avere origine interna ad uno stato e tramettersi agli altri. In entrambi i casi bisogna ridurre la vulnerabilità dei sistemi economici per ridurne gli impatti potenziali. Donald Trump ha presentato i propri risultati economici come straordinari, evidenziando la riduzione della disoccupazione, la crescita economica e i record macinati in serie dalla borsa. In realtà i dati evidenziano altro, l’aumento delle diseguaglianze economiche e sociali rappresentano un fattore di instabilità dalle conseguenze imprevedibili, i tagli delle tasse vengono di fatto trasferiti sul debito pubblico e l’intero processo di creazione di reddito appare sempre più dipendente dalla politica monetaria. I record della borsa nel periodo peggiore della pandemia non sono un segnale positivo, ma rappresentano la fuga degli investitori verso profitti a breve termine, sganciati dall’economia reale. Le diatribe commerciali intraprese da Trump con gran parte dei partner commerciali possono essere essi stessi fattori in grado, da soli, di scatenare una nuova crisi globale.

Se l’obiettivo di Donald Trump era quello di ottenere una crescita economica superiore al 2% annuo, che il dato che storicamente garantisce la riconferma dei presidenti, possiamo dire che è stato raggiunto. Ma se guardiamo alla robustezza del sistema economico statunitense ed alla sua capacità di resistere in modo coeso ad eventuali shocks, si può affermare che non sarà la prima presidenza Trump ad essere ricordata per questo. L’opinione condivisa è che un deficit endemico di 1 trilione sia insostenibile (Rogoff 2019), il deficit del 2020 supererà i 4 trilioni.

Riferimenti Bibliografici

Board of Governors of the Federal Reserve System. 2019. “Report on the Economic Well-Being of U.S. Households in 2018.” May.

Borio, C. E., & Lowe, P. W. (2002). Asset prices, financial and monetary stability: exploring the nexus.

CBO: Congressional Budget Office, 2020. “Budget.” https://www.cbo.gov/topics/budget accessed April 2.

Cass, Oren. 2020. “The Cost-of-Thriving Index: Reevaluating the Prosperity of the American Family.” Report, The Manhattan Institute, February; https://media4.manhattan-institute.org/sites/default/files/the-cost-of-thriving-index-OC.pdf accessed April 8, 2020.

Editorial Board. 2020. “The America We Need.” The New York Times, April 9.

Fed Series: Federal Reserve Bank of St. Louis. 2020. FRED economic data bank.

Ferguson, R. W. (2003). Should financial stability be an explicit central bank objective. Challenges to Central Banking from Globalized Financial Systems, 208-223.

Friedman, Gerald. 2014. “Workers without employers: shadow corporations and the rise of the gig economy.” Review of Keynesian Economics 2 (2): 171-188.

Galli, G., Gerotto, L. 2019. “La curva di Laffer e la flat tax”, 12 Agosto. Osservatorio CPI, https://osservatoriocpi.unicatt.it/cpi-archivio-studi-e-analisi-la-curva-di-laffer-e-la-flat-tax

Greenspan, Alan. 2007b. The Age of Turbulence: Adventures in a New World. New York: Penguin Press.

Komlos, John, 2019a. Fundamentals of Real-World Economics: What Every Economics Student Needs to Know (2nd edition, Abingdon, UK: Routledge).

Komlos, J., Perri, S. 2019a. “Le vere cause della vittoria di Donald Trump”, 2019 anno 11, n. 17 sem. 1, Economia&Politica, https://www.economiaepolitica.it/2019-anno-11-n-17-sem-1/perche-ha- vinto-trump/

Komlos, J., Perri, S. 2019b. Il Reaganismo, la Curva di Laffer e la Flat Tax: alcune considerazioni realistiche. EticaPa. https://www.eticapa.it/eticapa/wp-content/uploads/2019/10/Breve-_Reaganomics-curva-di-Laffer-e-flat-tax_.pdf

Komlos, J. e Perri, S. 2019c. “Le ragioni sociali ed economiche dell’ascesa di Donald Trump”, Ordines, 2019, Par.3, p. 366. http://www.ordines.it/le-ragioni-sociali-ed-economiche-dellascesa-di-trump-di-john-komlos-e-salvatore-perri/

Long, Heather. 2020. “Fed Chair Powell warns Congress that $1 trillion budget deficits are unsustainable.” The Washington Post February 11.

Perri, Salvatore. 2013. The role of macroeconomic stability in the finance-growth nexus. Threshold regression approach. Studi Economici, FrancoAngeli Editore, vol. 2013(110), pages 57-81.

Rogoff, Kenneth. 2019. “Government Debt Is Not a Free Lunch.” Project Syndicate December 6.

Shiller, Robert. “Online Data.” http://www.econ.yale.edu/~shiller/data.htm accessed April 4, 2020.

Standing, Guy. 2014. “Understanding the Precariat through Labour and Work.” Development and Change 45 (5): 963-980.

Taleb, Nassim. 2009. “Ten Principles for a Black Swan-Proof World.” Financial Times, April 7.

The Tax Policy Center. 2017. Distributional Analysis of the Conference Agreement for the Tax Cuts and Jobs Act.


[1] Ancora l’11 febbraio 2020 Jerome Powell, presidente della Federal Reserve, ha affermato che “l’economia era in una posizione molto buona” (Long, 2020).

[2] Il taglio delle tasse ai ceti alti come motore della crescita, declinato in termini di tassa piatta, si vedano Komlos e Perri (2019b) e Galli e Gerotto (2019).

[3] https://www.bls.gov/news.release/empsit.nr0.htm

[4] I così detti “lavoratori scoraggiati”.

[5] Dati si veda https://fred.stlouisfed.org/series/LNS12600000, il tasso di crescita dei lavoratori part time ha rallentato dal 2018 in poi, ma in corrispondenza del tasso di crescita dell’occupazione complessiva di cui si è detto in precedenza.

[6] Sull’indice COTI e le sue caratteristiche si veda https://www.manhattan-institute.org/press/cost-of-thriving-index-growing-economic-pressure-families

[7] L’ultimo taglio del 2017 (Tax Cuts and Jobs Act, TCJA, del 22 dicembre) è ammontato a 1,5 Trilioni di dollari.

[8] Dopo alcuni anni in cui era rimasto stabile, l’indice di Gini ha ricominciato a crescere https://www.statista.com/statistics/219643/gini-coefficient-for-us-individuals-families-and-households/

[9] Federal Reserve Bank of St. Louis (2020) https://fred.stlouisfed.org/series/GFDEGDQ188S.

[10] Si veda l’andamento in figura su https://fred.stlouisfed.org/series/FYFSD.

[11] Secondo uno studio della Deutsche Bank (2018), il taglio delle tasse ha provocato l’incremento del deficit dal 3,2 al 3,5% del Pil, innescando la dinamica che lo avrebbe portato comunque entro il 2020 oltre il Trilione di Dollari, anche senza la crisi, https://www.db.com/newsroom_news/2018/deutsche-bank-estimates-the-impacts-of-u-s-tax-reforms-and-updates-on-fourth-quarter-2017-results-en-11453.htm

[12] https://www.cnbc.com/2020/08/27/powell-announces-new-fed-approach-to-inflation-that-could-keep-rates-lower-for-longer.html

[13] Si vedano le argomentazioni di Paul Krugman (2020) https://www.nytimes.com/2020/08/20/opinion/stock-market-unemployment.html

[14] L’instabilità finanziaria è uno degli aspetti che concorre a determinare la instabilità macroeconomica (Perri 2013).

[15] Così come l’espansione del Bilancio della Fed, anche le banche private stanno incrementando costantemente il credito verso i privati, durante l’intera amministrazione Trump, https://fred.stlouisfed.org/series/TCMDO.

[16] In particolare l’indice Dow Jones ha toccato livelli record a febbraio e dopo una caduta li sta’ raggiungendo nuovamente da fine agosto. Si veda https://www.statista.com/statistics/1104278/weekly-performance-of-djia-index/ per l’andamento dell’indice.

lunedì 18 giugno 2018

Mezzogiorno senza reddito e senza cittadinanza

C'è un Sud che non ha ancora cittadinanza, trovata quella, si potrà parlare anche di reddito. Oggi su Economia&Politica: http://www.economiaepolitica.it/lavoro-e-diritti/lavoro-e-sindacato/mezzogiorno-senza-reddito-e-senza-cittadinanza/

La proposta di istituire in Italia un reddito di cittadinanza, proposto come disegno di legge, dal movimento 5 stelle, e largamente utilizzato nella campagna elettorale, ha l’indubbio merito di aver rilanciato il dibattito sul reddito di base. Purtroppo la struttura della proposta, la confusione metodologica e tecnica da cui scaturisce, unita alle peculiari condizioni strutturali dell’economia del sud in particolare, potrebbe determinarne una sostanziale inefficacia, se l’obiettivo (non dichiarato) fosse quello di ridurre il divario strutturale fra nord e sud.
Reddito di base o Super-sussidio?
In primo luogo il reddito di cittadinanza proposto (RDC) non è un reddito di cittadinanza, la questione non è semantica[1]. Facendo riferimento al DDL proposto al Senato dal M5S è prevista la perdita del diritto a riceverlo nel caso non si accettino 3 proposte di lavoro “congrue” o si receda 2 volte da un lavoro. La possibilità di perderlo non lo configura come reddito incondizionato, bensì come un reddito erogabile a determinate condizioni economiche, all’accettazione delle proposte di lavoro a determinati percorsi formativi/lavorativi. Più precisamente, Tridico, infatti parla di Reddito Minimo Condizionato[2] (RMC). Di fatto questa proposta finisce per essere un’estensione del sussidio di disoccupazione aumentato fino a 780 euro mensili.  Obiettivo dichiarato del provvedimento, “riattivare gli inattivi”[3], ovvero far partecipare al mercato del lavoro coloro che ne sono esclusi, sostenendo il loro reddito nel periodo transitorio.
RDC e Sud, quanto è transitorio il periodo transitorio
Il divario occupazionale tra nord e sud si è mantenuto molto elevato negli ultimi 24 anni, quando a parte una lieve diminuzione a metà degli anni 2000 si è mantenuto attorno ai 12 punti percentuali con una certa costanza nel tempo.
Figura 1. Tasso di disoccupazione
Mezzogiorno
Ci si deve chiedere, partendo dai dati, se è credibile una misura isolata per affrontare una questione “strutturale” di questa portata? Una proposta di questo tipo appare distorta all’origine, dalla concezione che lo squilibrio sul mercato del lavoro sia dovuto all’incapacità intrinseca del lavoratore meridionale a trovare un posto di lavoro che c’è ed esiste già. Quindi basterebbe “potenziare” i Centri per l’Impiego, che però da tempo evidenziano la loro scarsa efficienza nel placement dei disoccupati meridionali, pur avendo metà dei dipendenti nazionali[4]. La misura proposta quindi finisce per prestarsi a contestazioni, fondate, di varia natura sia in riferimento alla sostenibilità che all’efficacia.
Sostenibilità
Come segnalato da Seminerio[5] in diversi interventi, non si può considerare di fatto questo intervento un intervento transitorio, poiché essendo condizionato all’accettazione del lavoro “congruo” diventa di fatto permanente, se ipotizziamo che il realtà tanti posti di lavoro congrui nel Sud non ci siano (il lavoratore prima di perdere il diritto al super-sussidio deve rifiutarne 3). Considerando che i Centri per l’impiego attuali faticano a proporre il primo, la misura servirebbe a trasformare gli inattivi in disoccupati permanenti a 780 euro al mese. La somma è ritenuta da Seminerio troppo elevata, punterebbe al superamento della povertà relativa e disincentiverebbe la ricerca di lavoro, consentendo tuttavia la sopravvivenza del settore sommerso. Quest’ultimo punto è questionabile, se l’ammontare è elevato aumenta l’incentivo a rimanere disoccupati, indubbiamente, ma aumenta anche l’incentivo a non accettare lavori sottopagati, senza tutele, ed a condizioni estreme, che sono le caratteristiche di ciò che offre il settore sommerso nel Sud. A maggior ragione se si tiene conto che l’eventuale rinvenimento di posizioni lavorative in nero potrebbe comportare la perdita del beneficio. Resta la questione della sostenibilità finanziaria, come detto il beneficio potrebbe trasformare di fatto da temporaneo in permanente, supponendo la buonafede di chi lo propone (e le coperture) può un paese con un debito pubblico enorme sostenere uno sforzo del genere? La risposta è no sopratutto se si considerano i costi impliciti alla proposta.
I costi impliciti del RDC
Si è detto del costo mensile che sarebbe di 780 euro al mese per disoccupato (e inattivo trasmutato), il doppio circa dell’omologo programma tedesco Hartz IV con cui peraltro condivide l’impostazione (reddito condizionato alla ricerca ed accettazione di lavoro). Una delle critiche a cui è sottoposto il programma Hartz IV è l’eccesso di burocrazia necessaria a garantirne il funzionamento. L’Italia è il paese della burocrazia costosa e inefficiente[6], nel Sud la situazione è ancora peggiore. La proposta di RDC così com’è implica un potenziamento quantitativo della burocrazia disponendo che questa debba “monitorare” la ricerca di lavoro ed organizzare eventualmente i “corsi di formazione” obbligatori per accedere al programma. Paradossale la proposta di “lavori sociali” per alcune ore settimanali da parte di chi riceve il sussidio. Dotare di strumenti e controllare queste attività potrebbe costare quanto se non più del sussidio stesso e per un tempo indefinito[7]. Una pagina a parte riguarda i corsi di formazione. La strategia di Lisbona ci ha lasciato in eredità una serie di “politiche dell’offerta” che copiando le “best practices” nord europee avrebbero guidato le regioni meridionali fuori dal sottosviluppo. Queste politiche si sono basate sugli incentivi alle imprese e sulla formazione dei lavoratori, paradigmi neoclassici. Gli incentivi alle imprese hanno aumentato il tasso di nata/mortalità delle imprese, mentre i corsi di formazione (con incentivo orario) hanno rappresentato una forma di reddito passivo per formatori (generalmente enti privati accreditati) e beneficiari, senza che ci sia stato un riscontro di nessun genere sul mercato del lavoro (sia in termini di tasso di disoccupazione che di occupazione). Non è ben chiaro cosa cambierebbe con il nuovo sistema, chi deciderebbe quali “corsi” necessitano al lavoratore meridionale, in quali campi e di quale intensità?
La confusione teorica
Si è detto che un trasferimento ai disoccupati/inoccupati, a prescindere dalla forma, può avere come effetto ultimo quello di sostenere la domanda aggregata attraverso i consumi. Questo tipo di intervento parte da presupposti diametralmente opposti rispetto alle politiche dell’offerta neoclassiche basate sulla “flex-security”. La proposta del RDC confonde le cose, per rendere “accettabile” ai contribuenti l’elargizione di una somma ai disoccupati (piu’ che proporzionalmente meridionali) deve abbinare alla misura un controllo rigoroso del soggetto ricevente, che deve essere istruito, spinto a lavorare, e severamente punito in caso di inadempienza. Ne viene fuori una figura del disoccupato meridionale propenso all’ozio, all’ignoranza ed al lassismo come stile di vita. Ben si attaglia questo concetto ai recenti dibattiti sul lavoro nel sud. I meridionali sarebbero anche meno produttivi quando un lavoro ce l’hanno, quindi meriterebbero un salario inferiore[8]. Inoltre, secondo l’analisi di Ricolfi sul Foglio, il Sud in generale sarebbe un parassitario assorbitore di risorse pubbliche[9].  Questo quadro sconfortante viene implicitamente avallato dalla proposta di RDC proprio per come è strutturato.
Un Sud perduto o una politica economica sbagliata?
Le politiche economiche applicate nel Sud e, in particolare, gli incentivi europei, peccano di due errori fondamentali: avallare le politiche neoclassiche e pensare che sia possibile applicare “per analogia” politiche economiche identiche a contesti differenti. Si è detto che le “politiche dell’offerta” e le best practices della strategia di Lisbona non hanno modificato il tessuto economico meridionale in misura sostanziale. Se si vuole affrontare seriamente il divario nord-sud, bisognerebbe intervenire con un piano a medio-lungo termine che consideri in primo luogo il divario infrastrutturale (fisico, immateriale e tecnologico), la lotta alla criminalità organizzata, alla corruzione ed alle clientele parassitarie. Sul lato delle imprese non serve finanziarne di nuove, se le nascenti muoiono perché non riescono ad avere credito a costi accessibili. Sul lato pubblico bisogna efficientare la burocrazia, modernizzandola, imponendo severi controlli di valutazione con premi e sanzioni, togliendo il reclutamento dei funzionari pubblici dalla disponibilità della politica istituendo delle centrali uniche alla stregua delle stazioni appaltanti. La trasformazione del funzionamento del sistema economico meridionale richiederà tempi non brevi, proprio per questo questi interventi dovrebbero essere attuati ad un livello europeo, che lasci da parte le “buone pratiche” nordiche, come parrebbe finalmente avere abbandonato il paradigma dell’austerità espansiva. Se si vuole potenziare l’istruzione bisognerebbe combattere la dispersione scolastica e l’analfabetismo di ritorno, potenziando la formazione pubblica e la ricerca di base. All’interno di una siffatta strategia di sviluppo, troverebbe posto anche un reddito di base, condizionato al solo reddito, senza apparati burocratici e centri di potere a mediarlo, di ammontare simile all’omologo tedesco, sommabile a redditi da lavoro. Il finanziamento di queste strategie potrebbe essere favorito anche dalla revisione complessiva del sistema di incentivi pubblici, della cassa integrazione (da lasciare solo per le aziende con prospettive di rilancio), delle miriadi di lavori sociali e dalla drastica riforma delle società partecipate dal pubblico. Una società dei diritti da contrapporre alla società del privilegio, a meno che non si sia realmente convinti che i meridionali siano esseri antropologicamente inferiori.
[1] Il “reddito di cittadinanza” sarebbe di cittadinanza se fosse connaturato ai diritti di cittadinanza stessi.
[2] Si veda la risposta degli autori al dibattito: Tridico et al. “Reddito minimo e output gap: trucchetto contabile o questione politica?” su Economia&Politica, 30 marzo 2018, http://www.economiaepolitica.it/politiche-economiche/europa-e-mondo/reddito-minimo-e-output-gap-trucchetto-contabile-o-questione-politica/
[3] Si ricorda che gli “inattivi” sono coloro che non cercano lavoro, quindi non entrano nel calcolo della disoccupazione effettiva in quanto non sono disoccupati in senso tecnico. La partecipazione di tutti, o parte, degli inattivi dovrebbe portare un beneficio in termini di modificazione del prodotto potenzialmente ottenibile (che dipende appunto dal numero assoluto di lavoratori “occupabili”).
[4] Dati al 2015 del monitoraggio ISFOL: http://www.isfol.it/primo-piano/uscito-il-rapporto-di-monitoraggio-dell2019isfol
[5] In questo saggio si fa riferimento agli articoli della proposta di legge estrapolati da Seminerio nel contributo “Perché il reddito di cittadinanza è di fatto un sussidio incondizionato” https://phastidio.net/2018/03/13/perche-il-reddito-di-cittadinanza-e-di-fatto-un-sussidio-incondizionato/, nel quale sono presenti molte delle obiezioni discusse.
[6] Si veda l’ultimo rapporto a riguardo della CGIA di Mestre: http://www.cgiamestre.com/wp-content/uploads/2017/08/14-agosto.pdf
[7] A meno che la proposta non abbia limiti temporali come appare nell’ultima bozza del “contratto di governo”.
[8] Il dibattito sul tema è ben rappresentato da Clericetti su Repubblica on-line: http://clericetti.blogautore.repubblica.it/2016/06/07/nel-sud-salari-troppo-alti-come-no/
[9] Ricolfi :”… se non dovesse staccare un assegno di almeno 50 miliardi di euro all’anno alle regioni del Sud, il Nord sarebbe un’isola felice, una sorta di Svizzera sotto le Alpi”.Si veda a tal proposito la chiarificazione di Petraglia: https://www.eticaeconomia.it/residui-fiscali-regionali-istruzioni-per-luso/

venerdì 4 dicembre 2015

Produttività a Sud: intervista a Salvatore Perri. Corriere del Mezzogiorno Economia 9 Novembre 2015

Esistono divari di produttività tra Centro Nord e Sud? In che percentuale e in quali settori economici? Secondo Svimez, nell'industria e in agricoltura. E’ d’accordo?
“Che esista un divario di produttività fra aziende del Nord e del Sud è innegabile, ma attribuirne le cause a un fattore specifico e quantificarlo è molto difficile - spiega Salvatore Perri, giovane economista calabrese che ha studiato il tema. PhD in Economia Applicata ed MSc in Economics all’Università inglese di Southampton, autore del blog “Impunito”, esperto di analisi delle politiche e teorie macroeconomiche, collabora con vari centri di ricerca, in Italia e all’estero, tra cui Basic Income Network e Idea - Nel Sud è prevalente la piccola impresa che raramente fa rete con le altre, questo secondo l’Istat spiega i divari di produttività. Se poi consideriamo che la dotazione di infrastrutture è costantemente inferiore a quella settentrionale da 30 anni si capisce che può essere fuorviante confrontare la produttività aziendale. Ci sono settori in cui la crisi colpisce in maniera differenziata perché più esposti alla domanda esterna, per questo l’industria al Sud e l’agricoltura pagano un prezzo più alto”.
 Quanto incide nel Mezzogiorno il lavoro nero e l'economia sommersa sui divari di produttività e sul costo del lavoro differenziato per aree?
“La presenza del sommerso agisce negativamente sull’intero apparato produttivo sia dal lato delle imprese che dei lavoratori. Le aziende regolari subiscono la concorrenza sleale di quelle sommerse, per farlo abbassano i salari. I bassi salari, insieme alla difficoltà di effettuare investimenti, peggiorano la qualità del lavoro nel Sud. E’ un circolo vizioso che estende i suoi effetti anche ai consumi, perché bassi salari accompagnano un basso livello di domanda aggregata”.
Il tema dei divari di produttività può essere affrontato agendo sul costo del lavoro ma anche intervenendo sulle imposte. Al Sud addizionali e Irap sono più elevate. Non servirebbe una Fiscalità di vantaggio per attrarre investimenti esterni nel Sud?
“Perché gli investimenti esteri arrivino è necessario agire sulle infrastrutture, sulla cornice giuridica e sul contesto socioeconomico. La lentezza dei processi civili scoraggia le imprese estere più di un punto di Irap. Fare concorrenza su questo terreno non ha senso, perché i costi sarebbero comunque superiori a quelli dei paesi dell’Est Europa o di quelli asiatici. Bisogna fornire servizi di supporto, certezza del diritto, fruibilità infrastrutturale, allora arriveranno investimenti esteri e non solo”.
 Le politiche di contesto, soprattutto il costo del denaro, quanto incidono sui livelli di produttività?
“La burocrazia pubblica è vista come nemica dell’impresa, non dovrebbe esserlo, bisogna attuare riforme che la rendano un attore attivo nel sostegno alle imprese, costante e non legato al controllo sanzionatorio. Il Sud non ha più da tempo un sistema bancario autonomo, le aziende pagano tassi d’interesse alti, dovuti ai crediti in sofferenza. Bisogna mettere in comunicazione la burocrazia, con le organizzazioni di categoria ed i sindacati, creare così una forma di supporto e monitoraggio che aiuti il sistema bancario a dividere i buoni dai cattivi e sostenere la crescita delle aziende sane che è il vero problema specifico del Mezzogiorno”.
Il costo del lavoro nel Sud si può abbassare con sgravi contributivi maggiori rispetto al resto del Paese. Se nel corso del dibattito parlamentare si cambiasse la legge di Stabilità per lasciarli interi solo al Sud come nel 2015?
“Sono contrario agli sgravi contributivi in generale, soprattutto per quanto riguarda i giovani. Si possono creare buchi di bilancio e si eliminano quei contributi che sarebbero più pesanti al momento del pensionamento. Allungare i tempi degli sgravi vuol dire rimandare il momento in cui l’azienda deciderà se è il caso di tenere il nuovo lavoratore a costo pieno o se mandarlo via, ma questa decisione dipende dalle condizioni economiche dell’azienda, non dalla volontà dell’imprenditore. Se l’Italia torna a crescere allora le imprese faranno profitti e possono tenere i neo assunti, altrimenti ci ritroveremo nella stessa situazione di prima, Nord o Sud non fa differenza in questo caso. Sarebbe molto meglio agire per ridurre strutturalmente il cuneo fiscale, ma credo ci siano problemi di risorse per poterlo fare”.

EMA.IMPE.
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mercoledì 16 aprile 2014

Sui benefici del Reddito Minimo Garantito in Italia (LIG)

Salvatore Perri

La crisi economica internazionale e la finanziarizzazione dell'economia, hanno (finalmente) sollevato il tema della diversa distribuzione del reddito all'interno dei sistemi economici. Il Reddito di Base ed il Reddito Minimo Garantito sono due delle forme possibili per scongiurare il tracollo delle economie c.d. "avanzate". Ho già scritto sulla necessità di redistribuire il lavoro e sul Basic Income. In questo pezzo, stimolato dagli attivisti internazionali del LIG, discuto perchè il Reddito Minimo Garantito è un passaggio obbligato per invertire le odierne tendenze economiche negative altrimenti inarrestabili.

La definizione di reddito minimo. Come ho già scritto in altri pezzi, i sistemi economici maturi, come quello italiano, necessitano di un mix di redistribuzione del lavoro e reddito di base per interrompere la spirale debito-disoccupazione che stà distruggendo le fondamenta della convivenza civile. Tuttavia, nel breve periodo, un primo passo verso una diversa configurazione della struttura economica può essere il Reddito Minimo Garantito (LIG), il quale si configura come un supporto al reddito di coloro che non stanno lavorando e delle persone inabili al lavoro per malattia. In sostanza il LIG è un meccanismo di welfare allargato (ma selettivo) che supporta il reddito delle persone dando attuazione ad un principio costituzionale di "dignità" della retribuzione, intesa in senso lato.

La fine del "self made man dream". Per anni in Italia si è attuata una politica economica di incentivazione alla nascita di nuove imprese che probabilmente non ha eguali nella storia moderna. In aggiunta alcuni governi hanno provveduto a ridurre alcuni tipi di imposte (su successioni, donazioni e patrimoni) al fine di spingere i potenziali imprenditori ad assumere lavoratori investendo nell'impresa. Inoltre, grazie ai fondi dell'Unione Europea sono stati finanziati progetti per "nuovi imprenditori". Gli esisti di questo mix di politiche è stato sconfortante. La maggior parte delle imprese nate con incentivi individuali sono cessate in breve tempo, mentre il peggioramento del quadro macroeconomico, con la riduzione dei profitti attesi, ha determinato un'ondata di crisi industriali con delocalizzazioni, ristrutturazioni, chiusure per fallimento.

Finanziarizzazione dell'economia e crisi. Il crollo delle prospettive di profitto derivanti dalle attività industriali ha spinto il "capitale" a cercare forme di investimento più remunerative, quali i fondi di investimento internazionali che si muovono con movente essenzialmente speculativo. Pertanto, il lavoro ha perso valore all'interno della società ed i consumi interni si sono compressi trascinando nella crisi anche le piccole e medie imprese che producono su scala locale. Le banche a loro volta hanno spostato i loro orizzonti di investimento verso i titoli di Stato (approfittando degli alti tassi dovuti alla crisi) disinvestendo sull'economia reale.

Dal profitto al reddito per uscire dalla crisi. Appare evidente che le politiche di incentivazioni alle imprese hanno fallito. Se non c'è prospettiva di profitto è impossibile che le imprese si espandano senza una giustificazione di mercato. Le politiche economiche di austerità hanno compresso ulteriormente il reddito disponibile e la finanziarizzazione dell'economia internazionale ha consentito rapide fuoriscite di capitali verso fondi speculativi. Come interrompere questa spirale? Una diversa distribuzione del reddito all'interno delle fasce sociali è l'unica politica economica in grado di determinare, anche nel breve periodo, una ripresa dei consumi.

Disuguaglianze e crisi. La crisi economica, qualunque ne sia l'origine, viene accentuata dalle disuguaglianze di reddito, in quanto più la ricchezza è concentrata in poche mani, meno consumi ci sono all'interno del sistema economico. In un contesto in cui gli investimenti crollano ciò determina un aggravamento della crisi. Distribuire il reddito in maniera meno diseguale consente di portare vantaggi economici nell'immediato, oltre a rappresentare una misura di carattere umanitario che caratterizza il diverso grado di civiltà di una nazione. Un aumento del reddito degli individui indigenti, anche modesto, si riversa inevitabilmente in consumi (spesso primari) riattivando le relazioni sociali di prossimità con le piccole e medie imprese locali.

Redistribuzione e capitalismo. Paradossalmente solo politiche redistributive possono salvare il capitalismo, come l'avvento delle socialdemocrazie all'inizio del 900 in Europa. Pertanto una battaglia per il Reddito Minimo dovrebbe essere combattuta anche dagli imprenditori che invece continuano a chiedere solo riduzioni di imposte (sicuramente troppo elevate) ed incentivazioni di vario genere che si sono già rivelate inefficaci. La redistribuzione del reddito, invece, comporterebbe uno spostamento di valori (economici e non) dal livello subnazionale al livello locale, riconnettendo il tessuto sociale, combattendo l'individualismo e favorendo la solidarietà fra gli esseri umani.

Conclusioni. Per ragioni, che non solo di ordine Economico, appare evidente che forme di diversa distribuzione del reddito sono ormai improcastinabili per interrompere la crisi economica ed arginare il disfacimento della società. Bisogna trasferire risorse verso i redditi individuali, verso una qualche forma di Reddito Minimo che consenta una vita dignitosa alle persone salvando la società dal disfacimento. E' importante che maturi la consapevolezza che questo non rappresenta un investimento umanitario bensì anche un investimento economico-produttivo.


mercoledì 19 marzo 2014

Brevi note metodologiche sulla Spending Review

Salvatore Perri

Premesso che ragionare sulle ipotesi, in Politica Economia, è come fare statistica nel caos, le indiscrezioni sulle proposte elaborate da Cottarelli ed offerte al governo, meritano una qualche discussione che ne aiuti a comprendere la portata.

In primo luogo, è assolutamente certo che una riduzione della tassazione finanziata dal taglio della spesa è comunque recessiva. La ragione risiede nel valore del moltiplicatore della spesa pubblica che è maggiore di quello delle imposte. Di conseguenza avremmo fatto tutto questo per ottenere ulteriori riduzioni del PIL? Non è necessariamente detto.

Gli effetti della Spending Review saranno espansivi, recessivi o neutrali a seconda dei redditi su cui andranno ad incidere. Si parte da un assunto economico di base, la propensione al consumo è decrescente rispetto al reddito, cosa che è alla base di ogni politica redistributiva. Si toglie a chi ha di più non perchè ci piace Robin Hood, per invidia sociale, o per dare sfogo al giacobinismo che è in ognuno di noi, bensì perchè un euro tolto ad un multimilionario andrebbe in risparmi, mentre lo stesso euro donato ad un individuo comune con buona probabilità andrà in consumi. Difatti è stato proprio il crollo dei consumi interni ad aggravare gli effetti della crisi, e non il calo delle esportazioni, come invece viene propagandato.

Pertanto, se i tagli di Cottarelli riusciranno ad incidere sugli stipendi dei managers pubblici, sui doppi e tripli incarichi, sulle indennità, le trasferte fittizie, e qualsivoglia beneficio cumulato da alcuni dipendenti del settore pubblico, l'effetto del combinato disposto di tagli e riduzione di tasse non è detto che sia recessivo.

La discriminante è il "soggetto" non è la categoria.

Questo è bene che se lo ricordino anche i sindacati, perchè se si riesce a ridurre il monte pensioni colpendo quelle piu' alte (sfruttando la progressività delle imposte, che è in costituzione, e non ipotetiche soglie che sappiamo già essere incostituzionali), è inutile che i sindacati scendano sul piede di guerra equiparando i tripli cumuli alla pensione del singolo incolpevole, ben sapendo che i tripli cumuli di alcuni pensionati pubblici sono stati finanziati con contributi pagati sempre dal settore pubblico, quindi dalla collettività.

giovedì 23 gennaio 2014

Il capitalismo dominato dalla finanza e la sua crisi



Salvatore Perri

Sempre più spesso si ascoltano ragionamenti secondo cui gli Economisti non servirebbero a nulla in quanto, non hanno previsto la crisi, non la risolvono, nonché varie ed eventuali, tanto varrebbe chiudere i corsi di Economia ed andare in collina. A poco vale sottolineare un passaggio di Galbraith che, citando Marx, spiegava che il capitalismo “avanza per crisi”, ma queste cose in genere si leggono nei corsi di Economia.

La mia opinione è che non ci si improvvisa Economisti dalla mattina al pomeriggio, come non ci si improvvisa Medici, Astrofisici o Esperti di Storia dell’Arte. Ma anche all’interno della stessa categoria degli Economisti ci sono una moltitudine di specializzazioni come in Medicina. A puro scopo di esempio, ho scoperto di avere il reflusso andando dal Gastroenterologo, fossi andato dell’Ortopedico non credo che avrei mai iniziato una terapia.

Ovviamente chiunque può dire cose intelligenti dal punto di vista economico, soprattutto se svolge professioni per le quali questo è necessario, in particolare quando si và sul piano tecnico specifico ci sono degli analisti nel privato che ne sanno più dei docenti. E’ piu’ difficile, invece, che un profano assoluto della materia ci offra soluzioni strutturate a livello “Macro”, perché le problematiche non sono mai banali.

Il Macroeconomista (lo studioso di Economia Politica) è assimilabile ad un Medico specializzato in “Medicina Generale”, analizza il soggetto, osserva le sintomatologie, e sulla base della propria cultura ed esperienza fornisce una diagnosi ed una prognosi. La differenza è il soggetto, che non è un complesso organismo umano ma un altrettanto complesso sistema economico. Anche le diagnosi mediche a volte non è detto siano giuste, ma non per questo bisogna chiudere le facoltà di Medicina. Cosa sia un Economista dal punto di vista formale lo ha spiegato Fabio Sabatini in un articolo su Micromega e Repubblica. Ma anche all’interno della categoria degli “Economisti” in senso stretto si può integrare la classificazione di Sabatini con altre 3 categorie. 

Ci sono gli “Illuminati” cioè coloro che, in base ai loro studi e ricerche, analizzano correttamente i fenomeni economici e sono in grado di anticipare le dinamiche future fornendo spunti per la correzione delle politiche economiche. Ci sono i “Fulminati” che si sono svegliati una mattina convinti di avere le risposte a tutte le domande, oppure che una particolare teoria a cui sono affezionati sin da bambini salverà l’universo-mondo e non và messa in discussione pena la scomunica. In ultimo, sicuramente per importanza, ci sono i “Mistici”, che hanno avuto carriere così miracolistiche da essere troppo impegnati a rendere omaggio ai loro Santi Patroni per accorgersi che c’è un mondo là fuori, ma almeno questi ultimi non sono dannosi per l’ambiente perché non li si vede e non li si sente.

Io non so se sono Illuminato o Fulminato (o entrambe), lascio a chi legge i miei pezzi stabilirlo, sicuramente non sono Mistico (visto l’andamento della mia carriera).

Per certo Eckhard Hein è uno studioso serio e razionale. Ho letto il suo ultimo libro The Macroeconomics of Finance-dominated Capitalism – and its Crisis” edito da Edgar Elgar (2012), e credo che possa rappresentare un ottimo esempio di che cosa vuol dire fare i Macroeconomisti.

Hein analizza le trasformazioni economiche provocate da un capitalismo dominato dalla finanza, individuando i canali attraverso i quali esso opera e propone soluzioni di politica economica per uscire dalla crisi. Fa tutto questo attraverso l’analisi dei dati di un gruppo di paesi c.d. “avanzati” e con l’ausilio del modello di crescita endogena proposto originariamente da Kalecki.

In primo luogo, l’autore dimostra che nel capitalismo dominato dalla finanza il reddito da lavoro si riduce a vantaggio dei profitti da capitale, delle rendite finanziarie e dei salari dei managers. Questo meccanismo non sarebbe di per sé dannoso, se i profitti così ottenuti fossero reinvestiti nell’economia reale. Invece Hein nota che la finanziarizzazione dell’economia produce un regime economico nel quale l’orizzonte temporale degli investimenti “si accorcia”. In pratica gli operatori guardano al brevissimo periodo, cercando di massimizzare i profitti finanziari in poco tempo, di conseguenza, si ottiene come risultato un sistema in cui ci sono “profitti senza investimenti”. Per esemplificare, anziché in una azienda si investe nel fondo speculativo.
Sostanzialmente a livello macro, ciò che avviene è un’estrazione di rendita finanziaria sovranazionale, laddove i capitali sono liberi, mentre il reddito dei lavoratori e le risorse a disposizione delle imprese si riducono.

Hein nota anche che i regimi economici che emergono dal capitalismo finanziario sono estremamente instabili dal punto di vista macroeconomico. In una mia ricerca, (che spero sia pubblicata a breve), dimostro empiricamente che l’instabilità macroeconomica impedisce una corretta trasformazione dei risparmi in investimenti, accentuando il fenomeno sottolineato da Hein. Pertanto unendo questi due argomenti si ottiene un circolo vizioso potenzialmente devastante e senza limiti.

Un altro aspetto interessante riguarda il cambiamento di risultati considerati come acquisiti dalla letteratura classica. Si sosteneva che un aumento del potere degli azionisti all’interno della società comportasse un incremento del tasso di accumulazione del capitale e di conseguenza della crescita di lungo periodo. Secondo Hein, le dinamiche descritte in precedenza ci raccontano un’altra storia, gli azionisti utilizzano i dividendi per il profitto di breve periodo, e per le ragioni di cui sopra, sottraggono denaro alla circolazione “produttiva” privilegiando quella speculativa. Di conseguenza l’aumento del potere degli azionisti anziché agire come stimolo alla crescita finisce per deprimerla.

Quando Hein introduce esplicitamente nel modello il debito privato, i risultati che ne scaturiscono sono tutt’altro che incoraggianti. Come abbiamo detto il reddito dei lavoratori si stà riducendo, gli stessi per mantenere un livello congruo di consumi si indebitano. Ma se il tasso di interesse è più alto del tasso di crescita dell’economia il debito aggregato tende a crescere senza limiti, in assenza di regolazione esterna (fenomeno che avevo analizzato in un altro pezzo).

Successivamente l’autore mette in evidenza che l’esplosione del debito in alcuni paesi europei ha colpito anche gli altri, perché la riduzione della domanda aggregata complessiva ha danneggiato le loro esportazioni.

In conclusione e riassumendo, il capitalismo dominato dalla finanza (insieme alle politiche economiche neo-liberiste) è alla base della crisi che stiamo vivendo. Per uscire da questa situazione è necessario, secondo Hein, muoversi su diversi profili. A livello intranazionale devono essere varate politiche fiscali che restituiscano potere d’acquisto ai redditi da lavoro, anche in termini di aumenti salariari. Questo ridurrebbe gli effetti derivanti dall’incremento del debito privato. Per quanto riguarda il contesto europeo, Hein sostiene che sia necessario un maggior coordinamento delle politiche economiche tra i diversi stati, al fine di muovere risorse dai paesi in surplus commerciale verso quelli in deficit per ridurre gli squilibri (che durante la crisi sono aumentati).

Un aspetto decisivo in questo senso è la considerazione che l’ampiezza dei fenomeni evidenziati ha dimensione sovranazionale, di conseguenza anche una buona politica, varata dal singolo stato potrebbe rivelarsi inefficace, se gli altri paesi fanno l’opposto. Inoltre è necessario, secondo l’autore, reintrodurre la separazione fra banche commerciali e banche d’investimento, oltre ad una efficiente regolazione del settore finanziario a livello sovranazionale.

Ovviamente nel libro c’è molto di più ed ho sottolineato solo gli aspetti che hanno colpito la mia curiosità, pertanto ne consiglio la lettura ai più “appassionati di Economia”. Economisti e non.