Visualizzazione post con etichetta Reddito di Cittadinanza. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Reddito di Cittadinanza. Mostra tutti i post

lunedì 18 giugno 2018

Mezzogiorno senza reddito e senza cittadinanza

C'è un Sud che non ha ancora cittadinanza, trovata quella, si potrà parlare anche di reddito. Oggi su Economia&Politica: http://www.economiaepolitica.it/lavoro-e-diritti/lavoro-e-sindacato/mezzogiorno-senza-reddito-e-senza-cittadinanza/

La proposta di istituire in Italia un reddito di cittadinanza, proposto come disegno di legge, dal movimento 5 stelle, e largamente utilizzato nella campagna elettorale, ha l’indubbio merito di aver rilanciato il dibattito sul reddito di base. Purtroppo la struttura della proposta, la confusione metodologica e tecnica da cui scaturisce, unita alle peculiari condizioni strutturali dell’economia del sud in particolare, potrebbe determinarne una sostanziale inefficacia, se l’obiettivo (non dichiarato) fosse quello di ridurre il divario strutturale fra nord e sud.
Reddito di base o Super-sussidio?
In primo luogo il reddito di cittadinanza proposto (RDC) non è un reddito di cittadinanza, la questione non è semantica[1]. Facendo riferimento al DDL proposto al Senato dal M5S è prevista la perdita del diritto a riceverlo nel caso non si accettino 3 proposte di lavoro “congrue” o si receda 2 volte da un lavoro. La possibilità di perderlo non lo configura come reddito incondizionato, bensì come un reddito erogabile a determinate condizioni economiche, all’accettazione delle proposte di lavoro a determinati percorsi formativi/lavorativi. Più precisamente, Tridico, infatti parla di Reddito Minimo Condizionato[2] (RMC). Di fatto questa proposta finisce per essere un’estensione del sussidio di disoccupazione aumentato fino a 780 euro mensili.  Obiettivo dichiarato del provvedimento, “riattivare gli inattivi”[3], ovvero far partecipare al mercato del lavoro coloro che ne sono esclusi, sostenendo il loro reddito nel periodo transitorio.
RDC e Sud, quanto è transitorio il periodo transitorio
Il divario occupazionale tra nord e sud si è mantenuto molto elevato negli ultimi 24 anni, quando a parte una lieve diminuzione a metà degli anni 2000 si è mantenuto attorno ai 12 punti percentuali con una certa costanza nel tempo.
Figura 1. Tasso di disoccupazione
Mezzogiorno
Ci si deve chiedere, partendo dai dati, se è credibile una misura isolata per affrontare una questione “strutturale” di questa portata? Una proposta di questo tipo appare distorta all’origine, dalla concezione che lo squilibrio sul mercato del lavoro sia dovuto all’incapacità intrinseca del lavoratore meridionale a trovare un posto di lavoro che c’è ed esiste già. Quindi basterebbe “potenziare” i Centri per l’Impiego, che però da tempo evidenziano la loro scarsa efficienza nel placement dei disoccupati meridionali, pur avendo metà dei dipendenti nazionali[4]. La misura proposta quindi finisce per prestarsi a contestazioni, fondate, di varia natura sia in riferimento alla sostenibilità che all’efficacia.
Sostenibilità
Come segnalato da Seminerio[5] in diversi interventi, non si può considerare di fatto questo intervento un intervento transitorio, poiché essendo condizionato all’accettazione del lavoro “congruo” diventa di fatto permanente, se ipotizziamo che il realtà tanti posti di lavoro congrui nel Sud non ci siano (il lavoratore prima di perdere il diritto al super-sussidio deve rifiutarne 3). Considerando che i Centri per l’impiego attuali faticano a proporre il primo, la misura servirebbe a trasformare gli inattivi in disoccupati permanenti a 780 euro al mese. La somma è ritenuta da Seminerio troppo elevata, punterebbe al superamento della povertà relativa e disincentiverebbe la ricerca di lavoro, consentendo tuttavia la sopravvivenza del settore sommerso. Quest’ultimo punto è questionabile, se l’ammontare è elevato aumenta l’incentivo a rimanere disoccupati, indubbiamente, ma aumenta anche l’incentivo a non accettare lavori sottopagati, senza tutele, ed a condizioni estreme, che sono le caratteristiche di ciò che offre il settore sommerso nel Sud. A maggior ragione se si tiene conto che l’eventuale rinvenimento di posizioni lavorative in nero potrebbe comportare la perdita del beneficio. Resta la questione della sostenibilità finanziaria, come detto il beneficio potrebbe trasformare di fatto da temporaneo in permanente, supponendo la buonafede di chi lo propone (e le coperture) può un paese con un debito pubblico enorme sostenere uno sforzo del genere? La risposta è no sopratutto se si considerano i costi impliciti alla proposta.
I costi impliciti del RDC
Si è detto del costo mensile che sarebbe di 780 euro al mese per disoccupato (e inattivo trasmutato), il doppio circa dell’omologo programma tedesco Hartz IV con cui peraltro condivide l’impostazione (reddito condizionato alla ricerca ed accettazione di lavoro). Una delle critiche a cui è sottoposto il programma Hartz IV è l’eccesso di burocrazia necessaria a garantirne il funzionamento. L’Italia è il paese della burocrazia costosa e inefficiente[6], nel Sud la situazione è ancora peggiore. La proposta di RDC così com’è implica un potenziamento quantitativo della burocrazia disponendo che questa debba “monitorare” la ricerca di lavoro ed organizzare eventualmente i “corsi di formazione” obbligatori per accedere al programma. Paradossale la proposta di “lavori sociali” per alcune ore settimanali da parte di chi riceve il sussidio. Dotare di strumenti e controllare queste attività potrebbe costare quanto se non più del sussidio stesso e per un tempo indefinito[7]. Una pagina a parte riguarda i corsi di formazione. La strategia di Lisbona ci ha lasciato in eredità una serie di “politiche dell’offerta” che copiando le “best practices” nord europee avrebbero guidato le regioni meridionali fuori dal sottosviluppo. Queste politiche si sono basate sugli incentivi alle imprese e sulla formazione dei lavoratori, paradigmi neoclassici. Gli incentivi alle imprese hanno aumentato il tasso di nata/mortalità delle imprese, mentre i corsi di formazione (con incentivo orario) hanno rappresentato una forma di reddito passivo per formatori (generalmente enti privati accreditati) e beneficiari, senza che ci sia stato un riscontro di nessun genere sul mercato del lavoro (sia in termini di tasso di disoccupazione che di occupazione). Non è ben chiaro cosa cambierebbe con il nuovo sistema, chi deciderebbe quali “corsi” necessitano al lavoratore meridionale, in quali campi e di quale intensità?
La confusione teorica
Si è detto che un trasferimento ai disoccupati/inoccupati, a prescindere dalla forma, può avere come effetto ultimo quello di sostenere la domanda aggregata attraverso i consumi. Questo tipo di intervento parte da presupposti diametralmente opposti rispetto alle politiche dell’offerta neoclassiche basate sulla “flex-security”. La proposta del RDC confonde le cose, per rendere “accettabile” ai contribuenti l’elargizione di una somma ai disoccupati (piu’ che proporzionalmente meridionali) deve abbinare alla misura un controllo rigoroso del soggetto ricevente, che deve essere istruito, spinto a lavorare, e severamente punito in caso di inadempienza. Ne viene fuori una figura del disoccupato meridionale propenso all’ozio, all’ignoranza ed al lassismo come stile di vita. Ben si attaglia questo concetto ai recenti dibattiti sul lavoro nel sud. I meridionali sarebbero anche meno produttivi quando un lavoro ce l’hanno, quindi meriterebbero un salario inferiore[8]. Inoltre, secondo l’analisi di Ricolfi sul Foglio, il Sud in generale sarebbe un parassitario assorbitore di risorse pubbliche[9].  Questo quadro sconfortante viene implicitamente avallato dalla proposta di RDC proprio per come è strutturato.
Un Sud perduto o una politica economica sbagliata?
Le politiche economiche applicate nel Sud e, in particolare, gli incentivi europei, peccano di due errori fondamentali: avallare le politiche neoclassiche e pensare che sia possibile applicare “per analogia” politiche economiche identiche a contesti differenti. Si è detto che le “politiche dell’offerta” e le best practices della strategia di Lisbona non hanno modificato il tessuto economico meridionale in misura sostanziale. Se si vuole affrontare seriamente il divario nord-sud, bisognerebbe intervenire con un piano a medio-lungo termine che consideri in primo luogo il divario infrastrutturale (fisico, immateriale e tecnologico), la lotta alla criminalità organizzata, alla corruzione ed alle clientele parassitarie. Sul lato delle imprese non serve finanziarne di nuove, se le nascenti muoiono perché non riescono ad avere credito a costi accessibili. Sul lato pubblico bisogna efficientare la burocrazia, modernizzandola, imponendo severi controlli di valutazione con premi e sanzioni, togliendo il reclutamento dei funzionari pubblici dalla disponibilità della politica istituendo delle centrali uniche alla stregua delle stazioni appaltanti. La trasformazione del funzionamento del sistema economico meridionale richiederà tempi non brevi, proprio per questo questi interventi dovrebbero essere attuati ad un livello europeo, che lasci da parte le “buone pratiche” nordiche, come parrebbe finalmente avere abbandonato il paradigma dell’austerità espansiva. Se si vuole potenziare l’istruzione bisognerebbe combattere la dispersione scolastica e l’analfabetismo di ritorno, potenziando la formazione pubblica e la ricerca di base. All’interno di una siffatta strategia di sviluppo, troverebbe posto anche un reddito di base, condizionato al solo reddito, senza apparati burocratici e centri di potere a mediarlo, di ammontare simile all’omologo tedesco, sommabile a redditi da lavoro. Il finanziamento di queste strategie potrebbe essere favorito anche dalla revisione complessiva del sistema di incentivi pubblici, della cassa integrazione (da lasciare solo per le aziende con prospettive di rilancio), delle miriadi di lavori sociali e dalla drastica riforma delle società partecipate dal pubblico. Una società dei diritti da contrapporre alla società del privilegio, a meno che non si sia realmente convinti che i meridionali siano esseri antropologicamente inferiori.
[1] Il “reddito di cittadinanza” sarebbe di cittadinanza se fosse connaturato ai diritti di cittadinanza stessi.
[2] Si veda la risposta degli autori al dibattito: Tridico et al. “Reddito minimo e output gap: trucchetto contabile o questione politica?” su Economia&Politica, 30 marzo 2018, http://www.economiaepolitica.it/politiche-economiche/europa-e-mondo/reddito-minimo-e-output-gap-trucchetto-contabile-o-questione-politica/
[3] Si ricorda che gli “inattivi” sono coloro che non cercano lavoro, quindi non entrano nel calcolo della disoccupazione effettiva in quanto non sono disoccupati in senso tecnico. La partecipazione di tutti, o parte, degli inattivi dovrebbe portare un beneficio in termini di modificazione del prodotto potenzialmente ottenibile (che dipende appunto dal numero assoluto di lavoratori “occupabili”).
[4] Dati al 2015 del monitoraggio ISFOL: http://www.isfol.it/primo-piano/uscito-il-rapporto-di-monitoraggio-dell2019isfol
[5] In questo saggio si fa riferimento agli articoli della proposta di legge estrapolati da Seminerio nel contributo “Perché il reddito di cittadinanza è di fatto un sussidio incondizionato” https://phastidio.net/2018/03/13/perche-il-reddito-di-cittadinanza-e-di-fatto-un-sussidio-incondizionato/, nel quale sono presenti molte delle obiezioni discusse.
[6] Si veda l’ultimo rapporto a riguardo della CGIA di Mestre: http://www.cgiamestre.com/wp-content/uploads/2017/08/14-agosto.pdf
[7] A meno che la proposta non abbia limiti temporali come appare nell’ultima bozza del “contratto di governo”.
[8] Il dibattito sul tema è ben rappresentato da Clericetti su Repubblica on-line: http://clericetti.blogautore.repubblica.it/2016/06/07/nel-sud-salari-troppo-alti-come-no/
[9] Ricolfi :”… se non dovesse staccare un assegno di almeno 50 miliardi di euro all’anno alle regioni del Sud, il Nord sarebbe un’isola felice, una sorta di Svizzera sotto le Alpi”.Si veda a tal proposito la chiarificazione di Petraglia: https://www.eticaeconomia.it/residui-fiscali-regionali-istruzioni-per-luso/

mercoledì 13 maggio 2015

Il Reddito di Base in Italia. Intendimenti e fraintendimenti.

Oggi sul BIN Italia http://www.bin-italia.org/article.php?id=2012

di Salvatore Perri

Nel proseguo del dibattito su una qualsiasi forma di reddito di base da introdurre in Italia aumentano i contributi ma si moltiplica anche la confusione, pertanto è utile continuare a ragionare sui fraintendimenti piu' comuni, sia che arrivino dal mondo istituzionale sia che vengano da ambienti accademici e giornalistici.
Quale forma di reddito di base? Su questo punto c'è molta confusione.

Il punto fondamentale è distribuire diversamente il reddito dalla fiscalità generale, non redistribuire (quindi togliere a qualcuno per dare a qualcun altro). La questione non è semantica, nel bilancio dello stato ci sono mille rivoli, inclusi gli sgravi fiscali, gli ammortizzatori sociali (spesso in deroga) e trasferimenti piu' o meno giustificabili, si tratterebbe di prevedere il reddito di base o il reddito minimo venga scorporato "prima" di arrivare alle voci successive. Le varie forme di reddito di base vanno da quello universale rivolto a tutti (Basic Income) fino a forme di reddito minimo garantito (RMG) che tendono ad "integrare" altri redditi fino al raggiungimento della soglia di povertà relativa. E' chiaro che quello che si potrà fare dipenderà, anche, dalla situazione dei conti pubblici italiani.

Lavoro e reddito? Non torno negli stessi termini su questioni già affrontate, ma è evidente che, da qualunque punto di vista la si consideri, nelle società moderne e postmoderne non ci sarà lavoro per tutti, anche per via del progresso tecnologico e della globalizzazione economica, ma soprattutto perché è esistita da sempre una quota di "disoccupazione ineliminabile". Le ragioni sono contemplate in qualunque manuale macroeconomico. Alcuni disoccupati non sono compatibili con le attuali qualifiche richieste nel mondo del lavoro, e non parlo di metalmeccanici che dovrebbero imparare un particolare software, ma dell'analfabetismo di rientro che ormai colpisce un buon numero di giovani adulti che abbandonano la scuola o conseguono diplomi "una tantum" dallo scarso valore culturale. Altri disoccupati sono incompatibili territorialmente con i lavori offerti oppure fanno lavori che sono esclusivamente stagionali (agricoltura, turismo etc.). Inoltre esiste sempre un periodo di "vacanza" tra la vecchia e la nuova occupazione per chi perde un lavoro. Va da se che ogni economista degno di questo nome si sia cimentato a studiare il c.d. Tasso Naturale di disoccupazione, che è quello che si osserva durante i periodi di pieno impiego (vero o ipotetico). Questo valore varia nel tempo, ma esiste sempre, dal 6% al 7% al 12% (i piu' radicali sono i teorici del c.d. Real Business Cycle), è comunque una quantità enorme. Di questi disoccupati cosa si fa? Si assume che siano antropologicamente inferiori perché non hanno trovato lavoro? Oppure si creano miriadi di corsi di formazione inutili e costosi che non hanno creato un solo posto di lavoro? Offrire una forma di reddito a queste persone le rende nuovamente "produttive" seppur in modo indiretto, in quanto sarebbero in grado di "giustificare" una parte delle merci prodotte dal sistema economico (il che combatte la caduta della produzione), potrebbero dedicarsi alla cura di se stessi, anche perseguendo percorsi culturali, artistici, potrebbero dedicarsi alla cura delle persone vicine o potrebbero dedicarsi a forme di volontariato sociale, ma allo stesso tempo condurrebbero una vita dignitosa ed indipendente.

Lavoro o reddito? L'alternativa "lavorista" è quella che vuole necessariamente che chi riceve un reddito vada a fare un lavoro deciso centralisticamente, spesso inutile, ma che comunque (non si capisce bene secondo chi) darebbe maggiore dignità al reddito. Partendo dal presupposto che tali "lavori" andrebbero "organizzati" dando fiato ai peggiori istinti della burocrazia italiana, l'esperienza degli LSU ed LPU ha chiarito che in Italia queste cose non funzionano, perché burocrazia e politica si inseriscono nelle varie fasi di questo percorso rendendo questi lavori piu' virtuali del reddito di base. In piu' queste forme di lavoro sussudiato sono "selettive" ma spesso senza criterio, per cui sono proprio idonee a fomentare forme distorsive e clientelari che con il reddito di base ci si propone di combattere.

Pago adesso o pago dopo? Altra questione è che una forma di reddito di base è vista come "improduttiva" come premio all'ozio oppure addirittura come disincentivo al lavoro. A parte che i primi esperimenti condotti da Guy Standings in villaggi africani ed indiani dicono il contrario, e cioè che chi riceve il reddito lavora di piu', siamo sicuri che una tal misura deprimerebbe la produzione? In primo luogo non stiamo parlando di redditi enormi, le varie proposte vanno da 600 euro mensili a 720, di conseguenza il soggetto ricevente che ambisce a qualcosa di piu' continuerebbe a cercare lavoro per integrare. Ma supponiamo che il ricevente consideri sufficiente il reddito di base e non cerchi lavoro. Sicuramente il soggetto consumerebbe gran parte se non tutto il reddito ricevuto (il consumo è decrescente rispetto al reddito, una delle poche realtà incontrovertibili della teoria economica). Pertanto egli "rimetterebbe in circolo" quanto ricevuto in via istantanea, rianimando l'economia circostante. Ricordiamo che Italia e Grecia, che non avevano un reddito di base, sono gli stati che fanno piu' fatica ad uscire dalla crisi. Inoltre, avere o non avere reddito, influisce sulla qualità della vita di questi soggetti, stress e cattiva alimentazione possono contribuire all'insorgere di patologie, che scaricherebbero comunque sullo stato, a costi maggiori, visto che la sanità in Italia è pubblica. Tra gli altri effetti indiretti ci sarebbe quello di garantire un minimo di coesione sociale anche nei piccoli centri che continuano a spopolarsi, appunto per l'assenza di opportunità di lavoro.

Libertà e legalità. La disoccupazione è un bacino elettorale storicamente irrinunciabile, un reddito di base libererebbe molti elettori dal vincolo di cercare il referente politico (o sindacale) di turno. Inoltre collegando il reddito di base al godimento dei diritti civili e politici si darebbe un forte disincentivo alla criminalità, in quanto tra il vivere legalmente e non, il discriminante molto spesso è proprio il reddito. Altro fattore dirimente è lo sfruttamento del lavoro nero, chi possiede il reddito chiederebbe lavori tutelati dalla legge, non essendo piu' sottomesso allo sfruttamento di quella minoranza di imprenditori sconosciuti al fisco. Questo riequilibrerebbe anche i rapporti fra le imprese, in quanto quelle che fanno concorrenza sleale a basso costo sarebbero svantaggiate nel trovare manodopera.

Ci sono le risorse? Il dibattito sull'adeguamento delle pensioni all'inflazione e la recente sentenza della Consulta, chiarisce questo punto in maniera definitiva. Il blocco all'adeguamento delle pensioni per quelle superiori a 1400 euro mensili valeva 16 Miliardi, piu' o meno quanto servirebbe per una forma intermedia di reddito minimo. Pur supponendo che il governo debba restituire una parte di questi soldi, appare chiaro che rimodulando proprio le pensioni piu' alte (sfruttando il principio costituzionale della "progressività delle imposte"), e mettendo ordine nella giungla degli attuali ammortizzatori in deroga (spesso elargite verso aziende che mai hanno prodotto nulla, e che oggi vedono i lavoratori percepire la cassa integrazione in deroga e magari lavorando in nero) le risorse potrebbero essere reperite, senza che questo determini necessariamente lo sforamento dei vincoli di bilancio.

In conclusione, una forma di reddito di base, oltre ad essere un segno di civiltà: è produttivo economicamente, è conveniente finanziariamente, favorisce la lotta alla criminalità organizzata ed al lavoro nero, combatte la corruzione, favorisce la "ricostruzione" del tessuto sociale attraverso la spinta all'inclusione di soggetti ad oggi emarginati.