Visualizzazione post con etichetta Reddito. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Reddito. Mostra tutti i post

mercoledì 13 maggio 2015

Il Reddito di Base in Italia. Intendimenti e fraintendimenti.

Oggi sul BIN Italia http://www.bin-italia.org/article.php?id=2012

di Salvatore Perri

Nel proseguo del dibattito su una qualsiasi forma di reddito di base da introdurre in Italia aumentano i contributi ma si moltiplica anche la confusione, pertanto è utile continuare a ragionare sui fraintendimenti piu' comuni, sia che arrivino dal mondo istituzionale sia che vengano da ambienti accademici e giornalistici.
Quale forma di reddito di base? Su questo punto c'è molta confusione.

Il punto fondamentale è distribuire diversamente il reddito dalla fiscalità generale, non redistribuire (quindi togliere a qualcuno per dare a qualcun altro). La questione non è semantica, nel bilancio dello stato ci sono mille rivoli, inclusi gli sgravi fiscali, gli ammortizzatori sociali (spesso in deroga) e trasferimenti piu' o meno giustificabili, si tratterebbe di prevedere il reddito di base o il reddito minimo venga scorporato "prima" di arrivare alle voci successive. Le varie forme di reddito di base vanno da quello universale rivolto a tutti (Basic Income) fino a forme di reddito minimo garantito (RMG) che tendono ad "integrare" altri redditi fino al raggiungimento della soglia di povertà relativa. E' chiaro che quello che si potrà fare dipenderà, anche, dalla situazione dei conti pubblici italiani.

Lavoro e reddito? Non torno negli stessi termini su questioni già affrontate, ma è evidente che, da qualunque punto di vista la si consideri, nelle società moderne e postmoderne non ci sarà lavoro per tutti, anche per via del progresso tecnologico e della globalizzazione economica, ma soprattutto perché è esistita da sempre una quota di "disoccupazione ineliminabile". Le ragioni sono contemplate in qualunque manuale macroeconomico. Alcuni disoccupati non sono compatibili con le attuali qualifiche richieste nel mondo del lavoro, e non parlo di metalmeccanici che dovrebbero imparare un particolare software, ma dell'analfabetismo di rientro che ormai colpisce un buon numero di giovani adulti che abbandonano la scuola o conseguono diplomi "una tantum" dallo scarso valore culturale. Altri disoccupati sono incompatibili territorialmente con i lavori offerti oppure fanno lavori che sono esclusivamente stagionali (agricoltura, turismo etc.). Inoltre esiste sempre un periodo di "vacanza" tra la vecchia e la nuova occupazione per chi perde un lavoro. Va da se che ogni economista degno di questo nome si sia cimentato a studiare il c.d. Tasso Naturale di disoccupazione, che è quello che si osserva durante i periodi di pieno impiego (vero o ipotetico). Questo valore varia nel tempo, ma esiste sempre, dal 6% al 7% al 12% (i piu' radicali sono i teorici del c.d. Real Business Cycle), è comunque una quantità enorme. Di questi disoccupati cosa si fa? Si assume che siano antropologicamente inferiori perché non hanno trovato lavoro? Oppure si creano miriadi di corsi di formazione inutili e costosi che non hanno creato un solo posto di lavoro? Offrire una forma di reddito a queste persone le rende nuovamente "produttive" seppur in modo indiretto, in quanto sarebbero in grado di "giustificare" una parte delle merci prodotte dal sistema economico (il che combatte la caduta della produzione), potrebbero dedicarsi alla cura di se stessi, anche perseguendo percorsi culturali, artistici, potrebbero dedicarsi alla cura delle persone vicine o potrebbero dedicarsi a forme di volontariato sociale, ma allo stesso tempo condurrebbero una vita dignitosa ed indipendente.

Lavoro o reddito? L'alternativa "lavorista" è quella che vuole necessariamente che chi riceve un reddito vada a fare un lavoro deciso centralisticamente, spesso inutile, ma che comunque (non si capisce bene secondo chi) darebbe maggiore dignità al reddito. Partendo dal presupposto che tali "lavori" andrebbero "organizzati" dando fiato ai peggiori istinti della burocrazia italiana, l'esperienza degli LSU ed LPU ha chiarito che in Italia queste cose non funzionano, perché burocrazia e politica si inseriscono nelle varie fasi di questo percorso rendendo questi lavori piu' virtuali del reddito di base. In piu' queste forme di lavoro sussudiato sono "selettive" ma spesso senza criterio, per cui sono proprio idonee a fomentare forme distorsive e clientelari che con il reddito di base ci si propone di combattere.

Pago adesso o pago dopo? Altra questione è che una forma di reddito di base è vista come "improduttiva" come premio all'ozio oppure addirittura come disincentivo al lavoro. A parte che i primi esperimenti condotti da Guy Standings in villaggi africani ed indiani dicono il contrario, e cioè che chi riceve il reddito lavora di piu', siamo sicuri che una tal misura deprimerebbe la produzione? In primo luogo non stiamo parlando di redditi enormi, le varie proposte vanno da 600 euro mensili a 720, di conseguenza il soggetto ricevente che ambisce a qualcosa di piu' continuerebbe a cercare lavoro per integrare. Ma supponiamo che il ricevente consideri sufficiente il reddito di base e non cerchi lavoro. Sicuramente il soggetto consumerebbe gran parte se non tutto il reddito ricevuto (il consumo è decrescente rispetto al reddito, una delle poche realtà incontrovertibili della teoria economica). Pertanto egli "rimetterebbe in circolo" quanto ricevuto in via istantanea, rianimando l'economia circostante. Ricordiamo che Italia e Grecia, che non avevano un reddito di base, sono gli stati che fanno piu' fatica ad uscire dalla crisi. Inoltre, avere o non avere reddito, influisce sulla qualità della vita di questi soggetti, stress e cattiva alimentazione possono contribuire all'insorgere di patologie, che scaricherebbero comunque sullo stato, a costi maggiori, visto che la sanità in Italia è pubblica. Tra gli altri effetti indiretti ci sarebbe quello di garantire un minimo di coesione sociale anche nei piccoli centri che continuano a spopolarsi, appunto per l'assenza di opportunità di lavoro.

Libertà e legalità. La disoccupazione è un bacino elettorale storicamente irrinunciabile, un reddito di base libererebbe molti elettori dal vincolo di cercare il referente politico (o sindacale) di turno. Inoltre collegando il reddito di base al godimento dei diritti civili e politici si darebbe un forte disincentivo alla criminalità, in quanto tra il vivere legalmente e non, il discriminante molto spesso è proprio il reddito. Altro fattore dirimente è lo sfruttamento del lavoro nero, chi possiede il reddito chiederebbe lavori tutelati dalla legge, non essendo piu' sottomesso allo sfruttamento di quella minoranza di imprenditori sconosciuti al fisco. Questo riequilibrerebbe anche i rapporti fra le imprese, in quanto quelle che fanno concorrenza sleale a basso costo sarebbero svantaggiate nel trovare manodopera.

Ci sono le risorse? Il dibattito sull'adeguamento delle pensioni all'inflazione e la recente sentenza della Consulta, chiarisce questo punto in maniera definitiva. Il blocco all'adeguamento delle pensioni per quelle superiori a 1400 euro mensili valeva 16 Miliardi, piu' o meno quanto servirebbe per una forma intermedia di reddito minimo. Pur supponendo che il governo debba restituire una parte di questi soldi, appare chiaro che rimodulando proprio le pensioni piu' alte (sfruttando il principio costituzionale della "progressività delle imposte"), e mettendo ordine nella giungla degli attuali ammortizzatori in deroga (spesso elargite verso aziende che mai hanno prodotto nulla, e che oggi vedono i lavoratori percepire la cassa integrazione in deroga e magari lavorando in nero) le risorse potrebbero essere reperite, senza che questo determini necessariamente lo sforamento dei vincoli di bilancio.

In conclusione, una forma di reddito di base, oltre ad essere un segno di civiltà: è produttivo economicamente, è conveniente finanziariamente, favorisce la lotta alla criminalità organizzata ed al lavoro nero, combatte la corruzione, favorisce la "ricostruzione" del tessuto sociale attraverso la spinta all'inclusione di soggetti ad oggi emarginati.

giovedì 23 gennaio 2014

Il capitalismo dominato dalla finanza e la sua crisi



Salvatore Perri

Sempre più spesso si ascoltano ragionamenti secondo cui gli Economisti non servirebbero a nulla in quanto, non hanno previsto la crisi, non la risolvono, nonché varie ed eventuali, tanto varrebbe chiudere i corsi di Economia ed andare in collina. A poco vale sottolineare un passaggio di Galbraith che, citando Marx, spiegava che il capitalismo “avanza per crisi”, ma queste cose in genere si leggono nei corsi di Economia.

La mia opinione è che non ci si improvvisa Economisti dalla mattina al pomeriggio, come non ci si improvvisa Medici, Astrofisici o Esperti di Storia dell’Arte. Ma anche all’interno della stessa categoria degli Economisti ci sono una moltitudine di specializzazioni come in Medicina. A puro scopo di esempio, ho scoperto di avere il reflusso andando dal Gastroenterologo, fossi andato dell’Ortopedico non credo che avrei mai iniziato una terapia.

Ovviamente chiunque può dire cose intelligenti dal punto di vista economico, soprattutto se svolge professioni per le quali questo è necessario, in particolare quando si và sul piano tecnico specifico ci sono degli analisti nel privato che ne sanno più dei docenti. E’ piu’ difficile, invece, che un profano assoluto della materia ci offra soluzioni strutturate a livello “Macro”, perché le problematiche non sono mai banali.

Il Macroeconomista (lo studioso di Economia Politica) è assimilabile ad un Medico specializzato in “Medicina Generale”, analizza il soggetto, osserva le sintomatologie, e sulla base della propria cultura ed esperienza fornisce una diagnosi ed una prognosi. La differenza è il soggetto, che non è un complesso organismo umano ma un altrettanto complesso sistema economico. Anche le diagnosi mediche a volte non è detto siano giuste, ma non per questo bisogna chiudere le facoltà di Medicina. Cosa sia un Economista dal punto di vista formale lo ha spiegato Fabio Sabatini in un articolo su Micromega e Repubblica. Ma anche all’interno della categoria degli “Economisti” in senso stretto si può integrare la classificazione di Sabatini con altre 3 categorie. 

Ci sono gli “Illuminati” cioè coloro che, in base ai loro studi e ricerche, analizzano correttamente i fenomeni economici e sono in grado di anticipare le dinamiche future fornendo spunti per la correzione delle politiche economiche. Ci sono i “Fulminati” che si sono svegliati una mattina convinti di avere le risposte a tutte le domande, oppure che una particolare teoria a cui sono affezionati sin da bambini salverà l’universo-mondo e non và messa in discussione pena la scomunica. In ultimo, sicuramente per importanza, ci sono i “Mistici”, che hanno avuto carriere così miracolistiche da essere troppo impegnati a rendere omaggio ai loro Santi Patroni per accorgersi che c’è un mondo là fuori, ma almeno questi ultimi non sono dannosi per l’ambiente perché non li si vede e non li si sente.

Io non so se sono Illuminato o Fulminato (o entrambe), lascio a chi legge i miei pezzi stabilirlo, sicuramente non sono Mistico (visto l’andamento della mia carriera).

Per certo Eckhard Hein è uno studioso serio e razionale. Ho letto il suo ultimo libro The Macroeconomics of Finance-dominated Capitalism – and its Crisis” edito da Edgar Elgar (2012), e credo che possa rappresentare un ottimo esempio di che cosa vuol dire fare i Macroeconomisti.

Hein analizza le trasformazioni economiche provocate da un capitalismo dominato dalla finanza, individuando i canali attraverso i quali esso opera e propone soluzioni di politica economica per uscire dalla crisi. Fa tutto questo attraverso l’analisi dei dati di un gruppo di paesi c.d. “avanzati” e con l’ausilio del modello di crescita endogena proposto originariamente da Kalecki.

In primo luogo, l’autore dimostra che nel capitalismo dominato dalla finanza il reddito da lavoro si riduce a vantaggio dei profitti da capitale, delle rendite finanziarie e dei salari dei managers. Questo meccanismo non sarebbe di per sé dannoso, se i profitti così ottenuti fossero reinvestiti nell’economia reale. Invece Hein nota che la finanziarizzazione dell’economia produce un regime economico nel quale l’orizzonte temporale degli investimenti “si accorcia”. In pratica gli operatori guardano al brevissimo periodo, cercando di massimizzare i profitti finanziari in poco tempo, di conseguenza, si ottiene come risultato un sistema in cui ci sono “profitti senza investimenti”. Per esemplificare, anziché in una azienda si investe nel fondo speculativo.
Sostanzialmente a livello macro, ciò che avviene è un’estrazione di rendita finanziaria sovranazionale, laddove i capitali sono liberi, mentre il reddito dei lavoratori e le risorse a disposizione delle imprese si riducono.

Hein nota anche che i regimi economici che emergono dal capitalismo finanziario sono estremamente instabili dal punto di vista macroeconomico. In una mia ricerca, (che spero sia pubblicata a breve), dimostro empiricamente che l’instabilità macroeconomica impedisce una corretta trasformazione dei risparmi in investimenti, accentuando il fenomeno sottolineato da Hein. Pertanto unendo questi due argomenti si ottiene un circolo vizioso potenzialmente devastante e senza limiti.

Un altro aspetto interessante riguarda il cambiamento di risultati considerati come acquisiti dalla letteratura classica. Si sosteneva che un aumento del potere degli azionisti all’interno della società comportasse un incremento del tasso di accumulazione del capitale e di conseguenza della crescita di lungo periodo. Secondo Hein, le dinamiche descritte in precedenza ci raccontano un’altra storia, gli azionisti utilizzano i dividendi per il profitto di breve periodo, e per le ragioni di cui sopra, sottraggono denaro alla circolazione “produttiva” privilegiando quella speculativa. Di conseguenza l’aumento del potere degli azionisti anziché agire come stimolo alla crescita finisce per deprimerla.

Quando Hein introduce esplicitamente nel modello il debito privato, i risultati che ne scaturiscono sono tutt’altro che incoraggianti. Come abbiamo detto il reddito dei lavoratori si stà riducendo, gli stessi per mantenere un livello congruo di consumi si indebitano. Ma se il tasso di interesse è più alto del tasso di crescita dell’economia il debito aggregato tende a crescere senza limiti, in assenza di regolazione esterna (fenomeno che avevo analizzato in un altro pezzo).

Successivamente l’autore mette in evidenza che l’esplosione del debito in alcuni paesi europei ha colpito anche gli altri, perché la riduzione della domanda aggregata complessiva ha danneggiato le loro esportazioni.

In conclusione e riassumendo, il capitalismo dominato dalla finanza (insieme alle politiche economiche neo-liberiste) è alla base della crisi che stiamo vivendo. Per uscire da questa situazione è necessario, secondo Hein, muoversi su diversi profili. A livello intranazionale devono essere varate politiche fiscali che restituiscano potere d’acquisto ai redditi da lavoro, anche in termini di aumenti salariari. Questo ridurrebbe gli effetti derivanti dall’incremento del debito privato. Per quanto riguarda il contesto europeo, Hein sostiene che sia necessario un maggior coordinamento delle politiche economiche tra i diversi stati, al fine di muovere risorse dai paesi in surplus commerciale verso quelli in deficit per ridurre gli squilibri (che durante la crisi sono aumentati).

Un aspetto decisivo in questo senso è la considerazione che l’ampiezza dei fenomeni evidenziati ha dimensione sovranazionale, di conseguenza anche una buona politica, varata dal singolo stato potrebbe rivelarsi inefficace, se gli altri paesi fanno l’opposto. Inoltre è necessario, secondo l’autore, reintrodurre la separazione fra banche commerciali e banche d’investimento, oltre ad una efficiente regolazione del settore finanziario a livello sovranazionale.

Ovviamente nel libro c’è molto di più ed ho sottolineato solo gli aspetti che hanno colpito la mia curiosità, pertanto ne consiglio la lettura ai più “appassionati di Economia”. Economisti e non.


lunedì 29 aprile 2013

L’austerità espansiva e la buonanima di Pigou.



Salvatore Perri

Abstract

Coloro che si ostinano a chiedere la fine dell’austerità, rivelatasi inefficace, vengono spesso accusati di assumere posizioni ideologiche irrazionali. In realtà i basamenti teorici su cui si fondano le recenti politiche economiche europee sono fragilissimi. Attendersi la crescita dall’austerità e dalla depressione economica appare oggi irrealistico, almeno quanto lo è stato nel passato.

Le ultime vicissitudini del governo Monti, i dati terrificanti sulla produzione, sul livello di attività economica e soprattutto sulla disoccupazione, mettono in discussione i fondamenti teorici (classici e neoclassici) delle politiche economiche adottate, decretando il fallimento dell’austerità come soluzione alla crisi.

Mi sono già soffermato nei miei precedenti articoli (in tempi non sospetti) sull’inefficacia delle politiche di austerità, in particolare, spiegando l’assenza di un qualsiasi legame (anche ipotetico) fra riduzione della spesa ed aumento degli investimenti, sull’inefficacia dei tagli alla spesa per ridurre il debito e sull’inefficacia delle azioni sul mercato del lavoro per rilanciare l’occupazione. 

Semplificando, in primo luogo, non è detto che una riduzione del debito comporti un miglioramento della posizione relativa dell’Italia in termini di attrattività degli investimenti privati (nazionali ed esteri). Una parte consistente degli investimenti non dipende dal tasso di interesse (investimenti autonomi), bensì dalle prospettive di profitto che in Italia sono calate drasticamente dalla fine degli anni ’70.
Secondariamente, una riduzione della spesa pubblica è immediatamente recessiva, sia nel primo periodo che, cumulativamente, in quelli a seguire. Di conseguenza il Pil tende a ridursi in tutti i periodi e paradossalmente il debito continua ad aumentare nonostante i tagli.
In ultimo, ma non per importanza, le  c.d. “riforme” del mercato del lavoro hanno aumentato la disoccupazione anziché ridurla per il semplice motivo che un sistema economico afflitto dalla presenza del lavoro sommerso e dalle molteplici forme flessibili di contratto, difficilmente può essere riequilibrato con ulteriori flessibilizzazioni del mercato. Soprattutto in piena recessione economica quando le imprese licenziano e non assumono.

In sostanza “l’austerità espansiva” ci ha regalato conti “apparentemente” in ordine (appesi ad un filo) in cambio di meno consumi, più disoccupazione e più debito.
Ma non è finita qui, il substrato teorico delle politiche neoclassiche e monetariste che ha guidato la BCE ed il governo Monti include anche un principio ancora più radicale, il c.d. “Effetto Pigou”. 

Secondo questo classico pre-keynesiano la disoccupazione e la deflazione avrebbero avuto un freno automatico in qualunque sistema economico, che magicamente sarebbe ritornato a crescere per effetto di due fattori.
In primis, la disoccupazione avrebbe generato una riduzione dei salari che avrebbe reso il lavoro meno costoso spingendo le imprese ad assumere.
In secondo luogo la caduta dei prezzi avrebbe aumentato il potere d’acquisto della moneta spingendo i consumatori ad acquistare più merci.
L’insieme di questi due effetti sarebbero in grado di ripristinare la crescita.
 
Il primo ostacolo importante a queste mirabolanti affermazioni si ritrova nella crisi del ’29, quando i prezzi calarono la disoccupazione negli USA toccò i suoi massimi ed il sistema economico continuò a precipitare. In pratica, gli imprenditori spaventati non investirono, a causa dell’assenza di prospettive di profitto, le aziende continuarono a chiudere licenziando, e le merci semplicemente scomparvero dai mercati, quindi nessuno dei due effetti entrò mai in funzione.

Il capitalismo fù salvato dall’intervento statale e dalle politiche espansive, ma questa è storia nota.

Oggi l’effetto Pigou potrebbe manifestarsi? I suoi sostenitori osservano che la disoccupazione era determinata dalle “innaturali” leggi sul salario minimo e dall’art. 18. Rimossi questi vincoli i miracoli sarebbero possibili.
Purtroppo non è così, per le identiche ragioni che decretarono la fine dell’economia classica dopo il ’29 statunitense. 

Meno salari comportano meno consumi, meno reddito, meno produzione. Le aziende chiudono e chi detiene ricchezza speculativa non investe perché non ci sono prospettive di profitto. Nel frattempo che si attendono i miracoli il capitale inutilizzato (capannoni, macchine, abilità dei lavoratori) si deprezza rendendone ancora più complicato il ripristino.

Uno straordinario saggio di Keynes, ancora attualissimo, parlava dell’assurdità dei sacrifici.

Speriamo di non dovere pagare ancora a lungo la cieca obbedienza dei decisori delle politiche economiche alla speranza della risurrezione di Pigou.


venerdì 15 febbraio 2013

Quale Lavoro e quale Reddito: Italia 2013



Salvatore Perri

Abstract

E’ un luogo comune piuttosto diffuso quello che vuole il Lavoro ed il Reddito in contrapposizione fra loro. Senza lavoro non può esserci reddito, il reddito assegnato senza una contropartita distrugge il lavoro. Nell’Italia del 2013, che ha un passato ed ha un futuro, le tendenze macroeconomiche e socio-politiche certificano l’esatto contrario. Senza reddito non ci sarà lavoro ed il declino italiano sarà irreversibile.

Quale lavoro. E’ impossibile ricostruire in poche righe la storia industriale italiana. Tutti sanno che dalla fine degli anni 70 è cominciato un sostanziale smantellamento della grande industria del nord-ovest, rimpiazzato in parte dal “miracolo” dei distretti industriali del NEC (nord-est, centro). Molti studiosi si sono soffermati sulla natura di questi distretti, enfatizzandone gli aspetti peculiari. Ai nostri scopi è essenziale affermare che tutte queste trasformazioni sono state “labour saving” ovvero, i progressi tecnologici hanno consentito di risparmiare lavoro. Viene prodotto un maggior volume di produzione con un minore impiego di lavoratori. Maggior reddito più disoccupazione. Parallelamente la dimensione media dell’industria è diminuita ed il peso dei lavoratori sindacalizzati si è contratto di conseguenza. Meno lavoro, minore influenza dello stesso nella società. Il sud (alcune parti di esso) in questa storia ha un destino a se stante, seppur funzionale allo sviluppo del nord-est, esso è stato un mercato protetto per le merci settentrionali finanziato in larga parte dai trasferimenti statali (sotto forma di finanziamento di lavori non direttamente produttivi o pensioni). 

Le risposte politiche. Rispetto alla condizione che si delineava la politica ha risposto con provvedimenti inadeguati. Maggiore disoccupazione? Si cambiano i contratti rendendoli “flessibili”. Questo ha fatto sì che da un lavoro a tempo indeterminato ne scaturissero un paio a tempo determinato, ma con un minor monte salari complessivo, senza che ciò comportasse un’inversione della tendenza. Rispetto alle imprese le politiche sono state di 2 tipi: detassare gli straordinari e spingere ogni disoccupato a creare una nuova impresa. Entrambe le politiche si sono rivelate fallimentari. Incentivare gli straordinari determina un ulteriore risparmio di lavoro, mentre le nuove imprese in un mercato asfittico non hanno margine di sviluppo, come è dimostrato dalla notevole mortalità nel primo anno di attività delle stesse.

Le Risposte Politiche 2. In termini di risposta a questa crisi, a livello ideologico si è pensato di competere al ribasso sui salari, raggiungendo l’equilibrio dei conti attraverso tagli al welfare, alla scuola ed università (solo pubblica). A livello locale invece, la classe politica ha capito perfettamente come sfruttare le debolezze del contesto normativo nazionale ed europeo. In passato c’è stato un abuso di finanziamenti statali volti alla creazione di “finti” lavori. Più o meno le buche Keynesiane per intenderci (fondi agricoli, Forestazione, LSU, LPU). La logica è lavorista, non puoi ricevere reddito se non fai nulla. In pratica questi lavori erano produttivi in modo indiretto (come con il Reddito D’Esistenza) con la differenza che questo meccanismo ha alimentato negli anni il mercato delle vacche politico-elettorali. Il passato ritorna oggi in altre forme, stessi risultati. Il settore pubblico non può assumere? Si creano società miste pubblico-privato che assumono, sempre sotto dettatura politica, poi poco conta se i lavoratori non lavorano e le società vengono chiuse con passivi da debito di guerra. L’importante è essere fintamente lavoratori, almeno per un giorno, per poter iniziare la vertenza sindacale ed usufruire della cassa integrazione. Stesso discorso per gli incentivi alla nascita delle imprese, diceva un vecchio adagio “se tutti fanno la pasta, ognuno mangia la sua”. Il mito delle imprese che creano sviluppo (sempre) esiste dai tempi della legge degli sbocchi di Say, il problema è che fù confutata da Keynes e sotterrata dalla grande depressione, ma evidentemente esercita un certo fascino ancora oggi, soprattutto in chi non conosce la storia. L’incentivo alla nascita di nuove imprese non è sempre sbagliato, lo è quando i mercati sono saturi. Se manca la domanda aggregata le nuove entranti devono dividersi la scarsa domanda con le imprese che già ci sono, le quali hanno un vantaggio competitivo dall’essere già sul mercato (Microeconomia livello “basic”). Di conseguenza le imprese create per produrre grazie all’incentivo muoiono spesso nei primi mesi di vita. Le imprese create per distrarre fondi pubblici (o comunitari) chiudono appena gli incentivi vengono riscossi, a volte senza neanche aprire i capannoni. In questi casi avviene il miracolo del lavoratore che deve iniziare la vertenza contrattuale avendo prodotto per “zero ore”.

“Diamogli la canna da pesca.” Un altro dramma tutto locale, si compie quando vengono applicate le “best practices” europee al mercato italiano. La strategia di Lisbona, tra le altre cose, proponeva di riqualificare i lavoratori attraverso la formazione permanente, si finanziano quindi corsi di formazione “purchessia” nelle regioni svantaggiate. Concetto giusto applicazione sbagliata. In primo luogo è paradossale che si finanzino corsi anche all’esterno degli enti di formazione preposti (scuole ed università) mentre gli stessi vengono deprivati di risorse. Ma a parte l’illogicità di un tale approccio, questi corsi passano per la mediazione politica che indirizza le risorse, non effettua controlli, non effettua indagini di mercato per sapere di quali figure c’è bisogno. In buona sostanza i corsi di formazione servono a stipendiare passivamente gli enti formatori, i loro dipendenti e gli studenti che ricevono l’incentivo orario. Esiti di questi finanziamenti? Risibili, se non altro perché al termine del periodo di fruizione dei fondi comunitari per la formazione (2008-2013) la disoccupazione stà toccando i suoi picchi proprio nelle regioni svantaggiate. Per sfatare la metafora si può dire che è inutile che mi insegni a pescare e mi dai la canna da pesca se poi mi mandi in un lago senz’acqua in cui quelli prima di me hanno pescato con l’esplosivo. Anche qui c’è un paragone storico da non sottovalutare, la logica della canna da pesca è stata utilizzata nei magici anni ’80 per giustificare gli aiuti allo sviluppo in Africa, aiuti che spesso si concretizzavano in megatangenti ai politici e traffici di scorie radioattive.

La (quasi) fine del lavoro salariato. Ci troviamo di fronte ad una condizione nella quale il lavoro subordinato come concetto è dequalificato sul piano valoriale. Deve essere retribuito meno, ma chi guadagna meno vale anche meno (nella società moderna siamo ciò che abbiamo). Il lavoro salariato è contemporaneamente uguale e diverso, in termini di trattamento economico e di mansione svolta, il precario svolge la stessa mansione del collega a tempo indeterminato ma non ha gli stessi diritti. Il finto lavoratore, cooptato con logiche politiche, ha gli stessi diritti degli altri pur non essendo un lavoratore. Il lavoro è un semi-diritto, in quanto non c’è e non ci sarà per tutti, ma coloro che non lo hanno meritano il discredito sociale per questo (sono portatori individuali di colpe sociali), anche perché non sono stati in grado di costruire relazioni per averlo (o non hanno voluto pagarne il prezzo). In sostanza anche la libertà del lavoratore-individuo diventa un valore negativo.

Conclusioni. Riassumendo, il mercato del lavoro si comprime dal punto di vista dimensionale perché c’è una tendenza alla riduzione del lavoro impiegato. Il lavoro che rimane viene ripartito in modo arbitrario in una tripartizione fra lavoratori salariati veri, lavoratori sussidiati e precari (veri o sussidiati anch’essi). In ogni caso le politiche adottate comportano una riduzione complessiva dei salari erogati. Viene così meno una parte della domanda interna ed una parte della produzione cessa di essere “giustificata”. Si determina una ulteriore diminuzione del lavoro necessario e la spirale ricomincia, potenzialmente senza limiti. Si può interrompere questa spirale in due modi complementari fra di loro: redistribuendo il lavoro delle aziende ancora produttive in modo da aumentare il numero dei lavoratori attivi, riconoscere i finti lavori per quello che sono, riconducendo le miriadi di forme di sussidio ad una unica forma di Reddito d’Esistenza da attribuire a tutti coloro che non godono di un contratto “dignitoso”. Si interromperebbe la caduta della produzione, dell’occupazione, ma anche la perdita di competitività dovuta alla presenza del lavoro sussidiato e delle corruttele che lo determinano.