Oggi sul BIN Italia http://www.bin-italia.org/article.php?id=2012
di Salvatore Perri
Nel proseguo del dibattito su una qualsiasi forma di reddito di base
da introdurre in Italia aumentano i contributi ma si moltiplica anche la
confusione, pertanto è utile continuare a ragionare sui fraintendimenti
piu' comuni, sia che arrivino dal mondo istituzionale sia che vengano
da ambienti accademici e giornalistici.
Quale forma di reddito di base? Su questo punto c'è molta confusione.
Il punto fondamentale è distribuire diversamente il reddito dalla
fiscalità generale, non redistribuire (quindi togliere a qualcuno per
dare a qualcun altro). La questione non è semantica, nel bilancio dello
stato ci sono mille rivoli, inclusi gli sgravi fiscali, gli
ammortizzatori sociali (spesso in deroga) e trasferimenti piu' o meno
giustificabili, si tratterebbe di prevedere il reddito di base o il
reddito minimo venga scorporato "prima" di arrivare alle voci
successive. Le varie forme di reddito di base vanno da quello universale
rivolto a tutti (Basic Income) fino a forme di reddito minimo garantito
(RMG) che tendono ad "integrare" altri redditi fino al raggiungimento
della soglia di povertà relativa. E' chiaro che quello che si potrà fare
dipenderà, anche, dalla situazione dei conti pubblici italiani.
Lavoro e reddito? Non torno negli stessi termini su questioni già affrontate,
ma è evidente che, da qualunque punto di vista la si consideri, nelle
società moderne e postmoderne non ci sarà lavoro per tutti, anche per
via del progresso tecnologico e della globalizzazione economica, ma
soprattutto perché è esistita da sempre una quota di "disoccupazione
ineliminabile". Le ragioni sono contemplate in qualunque manuale
macroeconomico. Alcuni disoccupati non sono compatibili con le attuali
qualifiche richieste nel mondo del lavoro, e non parlo di metalmeccanici
che dovrebbero imparare un particolare software, ma dell'analfabetismo
di rientro che ormai colpisce un buon numero di giovani adulti che
abbandonano la scuola o conseguono diplomi "una tantum" dallo scarso
valore culturale. Altri disoccupati sono incompatibili territorialmente
con i lavori offerti oppure fanno lavori che sono esclusivamente
stagionali (agricoltura, turismo etc.). Inoltre esiste sempre un periodo
di "vacanza" tra la vecchia e la nuova occupazione per chi perde un
lavoro. Va da se che ogni economista degno di questo nome si sia
cimentato a studiare il c.d. Tasso Naturale di disoccupazione, che è
quello che si osserva durante i periodi di pieno impiego (vero o
ipotetico). Questo valore varia nel tempo, ma esiste sempre, dal 6% al
7% al 12% (i piu' radicali sono i teorici del c.d. Real Business Cycle),
è comunque una quantità enorme. Di questi disoccupati cosa si fa? Si
assume che siano antropologicamente inferiori perché non hanno trovato
lavoro? Oppure si creano miriadi di corsi di formazione inutili e
costosi che non hanno creato un solo posto di lavoro? Offrire una forma
di reddito a queste persone le rende nuovamente "produttive" seppur in
modo indiretto, in quanto sarebbero in grado di "giustificare" una parte
delle merci prodotte dal sistema economico (il che combatte la caduta
della produzione), potrebbero dedicarsi alla cura di se stessi, anche
perseguendo percorsi culturali, artistici, potrebbero dedicarsi alla
cura delle persone vicine o potrebbero dedicarsi a forme di volontariato
sociale, ma allo stesso tempo condurrebbero una vita dignitosa ed
indipendente.
Lavoro o reddito? L'alternativa "lavorista" è quella che vuole
necessariamente che chi riceve un reddito vada a fare un lavoro deciso
centralisticamente, spesso inutile, ma che comunque (non si capisce bene
secondo chi) darebbe maggiore dignità al reddito. Partendo dal
presupposto che tali "lavori" andrebbero "organizzati" dando fiato ai
peggiori istinti della burocrazia italiana, l'esperienza degli LSU ed
LPU ha chiarito che in Italia queste cose non funzionano, perché
burocrazia e politica si inseriscono nelle varie fasi di questo percorso
rendendo questi lavori piu' virtuali del reddito di base. In piu'
queste forme di lavoro sussudiato sono "selettive" ma spesso senza
criterio, per cui sono proprio idonee a fomentare forme distorsive e
clientelari che con il reddito di base ci si propone di combattere.
Pago adesso o pago dopo? Altra questione è che una forma di reddito
di base è vista come "improduttiva" come premio all'ozio oppure
addirittura come disincentivo al lavoro. A parte che i primi esperimenti
condotti da Guy Standings in villaggi africani ed indiani dicono il
contrario, e cioè che chi riceve il reddito lavora di piu', siamo sicuri
che una tal misura deprimerebbe la produzione? In primo luogo non
stiamo parlando di redditi enormi, le varie proposte vanno da 600 euro
mensili a 720, di conseguenza il soggetto ricevente che ambisce a
qualcosa di piu' continuerebbe a cercare lavoro per integrare. Ma
supponiamo che il ricevente consideri sufficiente il reddito di base e
non cerchi lavoro. Sicuramente il soggetto consumerebbe gran parte se
non tutto il reddito ricevuto (il consumo è decrescente rispetto al
reddito, una delle poche realtà incontrovertibili della teoria
economica). Pertanto egli "rimetterebbe in circolo" quanto ricevuto in
via istantanea, rianimando l'economia circostante. Ricordiamo che Italia
e Grecia, che non avevano un reddito di base, sono gli stati che fanno
piu' fatica ad uscire dalla crisi. Inoltre, avere o non avere reddito,
influisce sulla qualità della vita di questi soggetti, stress e cattiva
alimentazione possono contribuire all'insorgere di patologie, che
scaricherebbero comunque sullo stato, a costi maggiori, visto che la
sanità in Italia è pubblica. Tra gli altri effetti indiretti ci sarebbe
quello di garantire un minimo di coesione sociale anche nei piccoli
centri che continuano a spopolarsi, appunto per l'assenza di opportunità
di lavoro.
Libertà e legalità. La disoccupazione è un bacino elettorale
storicamente irrinunciabile, un reddito di base libererebbe molti
elettori dal vincolo di cercare il referente politico (o sindacale) di
turno. Inoltre collegando il reddito di base al godimento dei diritti
civili e politici si darebbe un forte disincentivo alla criminalità, in
quanto tra il vivere legalmente e non, il discriminante molto spesso è
proprio il reddito. Altro fattore dirimente è lo sfruttamento del lavoro
nero, chi possiede il reddito chiederebbe lavori tutelati dalla legge,
non essendo piu' sottomesso allo sfruttamento di quella minoranza di
imprenditori sconosciuti al fisco. Questo riequilibrerebbe anche i
rapporti fra le imprese, in quanto quelle che fanno concorrenza sleale a
basso costo sarebbero svantaggiate nel trovare manodopera.
Ci sono le risorse? Il dibattito sull'adeguamento delle pensioni
all'inflazione e la recente sentenza della Consulta, chiarisce questo
punto in maniera definitiva. Il blocco all'adeguamento delle pensioni
per quelle superiori a 1400 euro mensili valeva 16 Miliardi, piu' o meno
quanto servirebbe per una forma intermedia di reddito minimo. Pur
supponendo che il governo debba restituire una parte di questi soldi,
appare chiaro che rimodulando proprio le pensioni piu' alte (sfruttando
il principio costituzionale della "progressività delle imposte"), e
mettendo ordine nella giungla degli attuali ammortizzatori in deroga
(spesso elargite verso aziende che mai hanno prodotto nulla, e che oggi
vedono i lavoratori percepire la cassa integrazione in deroga e magari
lavorando in nero) le risorse potrebbero essere reperite, senza che
questo determini necessariamente lo sforamento dei vincoli di bilancio.
In conclusione, una forma di reddito di base, oltre ad essere un
segno di civiltà: è produttivo economicamente, è conveniente
finanziariamente, favorisce la lotta alla criminalità organizzata ed al
lavoro nero, combatte la corruzione, favorisce la "ricostruzione" del
tessuto sociale attraverso la spinta all'inclusione di soggetti ad oggi
emarginati.
Visualizzazione post con etichetta Reddito. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Reddito. Mostra tutti i post
mercoledì 13 maggio 2015
giovedì 23 gennaio 2014
Il capitalismo dominato dalla finanza e la sua crisi
Salvatore
Perri
Sempre più spesso si
ascoltano ragionamenti secondo cui gli Economisti non servirebbero a nulla in
quanto, non hanno previsto la crisi, non la risolvono, nonché varie ed eventuali,
tanto varrebbe chiudere i corsi di Economia ed andare in collina. A poco vale
sottolineare un passaggio di Galbraith che, citando Marx, spiegava che il
capitalismo “avanza per crisi”, ma
queste cose in genere si leggono nei corsi di Economia.
La mia opinione è che
non ci si improvvisa Economisti dalla mattina al pomeriggio, come non ci si
improvvisa Medici, Astrofisici o Esperti di Storia dell’Arte. Ma anche all’interno
della stessa categoria degli Economisti ci sono una moltitudine di
specializzazioni come in Medicina. A puro scopo di esempio, ho scoperto di
avere il reflusso andando dal Gastroenterologo, fossi andato dell’Ortopedico
non credo che avrei mai iniziato una terapia.
Ovviamente chiunque può
dire cose intelligenti dal punto di vista economico, soprattutto se svolge
professioni per le quali questo è necessario, in particolare quando si và sul
piano tecnico specifico ci sono degli analisti nel privato che ne sanno più dei
docenti. E’ piu’ difficile, invece, che un profano assoluto della materia ci
offra soluzioni strutturate a livello “Macro”, perché le problematiche non sono
mai banali.
Il Macroeconomista (lo
studioso di Economia Politica) è assimilabile ad un Medico specializzato in “Medicina
Generale”, analizza il soggetto, osserva le sintomatologie, e sulla base della
propria cultura ed esperienza fornisce una diagnosi ed una prognosi. La
differenza è il soggetto, che non è un complesso organismo umano ma un
altrettanto complesso sistema economico. Anche le diagnosi mediche a volte non
è detto siano giuste, ma non per questo bisogna chiudere le facoltà di
Medicina. Cosa sia un Economista dal punto di vista formale lo ha spiegato
Fabio Sabatini in un articolo su Micromega e Repubblica. Ma anche all’interno
della categoria degli “Economisti” in senso stretto si può integrare la
classificazione di Sabatini con altre 3 categorie.
Ci sono gli “Illuminati”
cioè coloro che, in base ai loro studi e ricerche, analizzano correttamente i
fenomeni economici e sono in grado di anticipare le dinamiche future fornendo
spunti per la correzione delle politiche economiche. Ci sono i “Fulminati” che
si sono svegliati una mattina convinti di avere le risposte a tutte le domande,
oppure che una particolare teoria a cui sono affezionati sin da bambini salverà
l’universo-mondo e non và messa in discussione pena la scomunica. In ultimo,
sicuramente per importanza, ci sono i “Mistici”, che hanno avuto carriere così
miracolistiche da essere troppo impegnati a rendere omaggio ai loro Santi Patroni
per accorgersi che c’è un mondo là fuori, ma almeno questi ultimi non sono
dannosi per l’ambiente perché non li si vede e non li si sente.
Io non so se sono
Illuminato o Fulminato (o entrambe), lascio a chi legge i miei pezzi
stabilirlo, sicuramente non sono Mistico (visto l’andamento della mia
carriera).
Per certo Eckhard Hein
è uno studioso serio e razionale. Ho letto il suo ultimo libro “The Macroeconomics of Finance-dominated
Capitalism – and its Crisis” edito da Edgar Elgar (2012), e credo che
possa rappresentare un ottimo esempio di che cosa vuol dire fare i
Macroeconomisti.
Hein analizza le
trasformazioni economiche provocate da un capitalismo dominato dalla finanza,
individuando i canali attraverso i quali esso opera e propone soluzioni di
politica economica per uscire dalla crisi. Fa tutto questo attraverso l’analisi
dei dati di un gruppo di paesi c.d. “avanzati” e con l’ausilio del modello di crescita
endogena proposto originariamente da Kalecki.
In primo luogo, l’autore
dimostra che nel capitalismo dominato dalla finanza il reddito da lavoro si
riduce a vantaggio dei profitti da capitale, delle rendite finanziarie e dei
salari dei managers. Questo meccanismo non sarebbe di per sé dannoso, se i
profitti così ottenuti fossero reinvestiti nell’economia reale. Invece Hein
nota che la finanziarizzazione dell’economia produce un regime economico nel
quale l’orizzonte temporale degli investimenti “si accorcia”. In pratica gli
operatori guardano al brevissimo periodo, cercando di massimizzare i profitti
finanziari in poco tempo, di conseguenza, si ottiene come risultato un sistema
in cui ci sono “profitti senza investimenti”. Per esemplificare, anziché in una
azienda si investe nel fondo speculativo.
Sostanzialmente a
livello macro, ciò che avviene è un’estrazione di rendita finanziaria
sovranazionale, laddove i capitali sono liberi, mentre il reddito dei
lavoratori e le risorse a disposizione delle imprese si riducono.
Hein nota anche che i
regimi economici che emergono dal capitalismo finanziario sono estremamente
instabili dal punto di vista macroeconomico. In una mia ricerca, (che spero sia
pubblicata a breve), dimostro empiricamente che l’instabilità macroeconomica impedisce
una corretta trasformazione dei risparmi in investimenti, accentuando il
fenomeno sottolineato da Hein. Pertanto unendo questi due argomenti si ottiene
un circolo vizioso potenzialmente devastante e senza limiti.
Un altro aspetto
interessante riguarda il cambiamento di risultati considerati come acquisiti
dalla letteratura classica. Si sosteneva che un aumento del potere degli
azionisti all’interno della società comportasse un incremento del tasso di
accumulazione del capitale e di conseguenza della crescita di lungo periodo.
Secondo Hein, le dinamiche descritte in precedenza ci raccontano un’altra
storia, gli azionisti utilizzano i dividendi per il profitto di breve periodo,
e per le ragioni di cui sopra, sottraggono denaro alla circolazione “produttiva”
privilegiando quella speculativa. Di conseguenza l’aumento del potere degli
azionisti anziché agire come stimolo alla crescita finisce per deprimerla.
Quando Hein introduce
esplicitamente nel modello il debito privato, i risultati che ne scaturiscono
sono tutt’altro che incoraggianti. Come abbiamo detto il reddito dei lavoratori
si stà riducendo, gli stessi per mantenere un livello congruo di consumi si
indebitano. Ma se il tasso di interesse è più alto del tasso di crescita dell’economia
il debito aggregato tende a crescere senza limiti, in assenza di regolazione
esterna (fenomeno che avevo analizzato in
un altro pezzo).
Successivamente l’autore
mette in evidenza che l’esplosione del debito in alcuni paesi europei ha
colpito anche gli altri, perché la riduzione della domanda aggregata
complessiva ha danneggiato le loro esportazioni.
In conclusione e
riassumendo, il capitalismo dominato dalla finanza (insieme alle politiche
economiche neo-liberiste) è alla base della crisi che stiamo vivendo. Per
uscire da questa situazione è necessario, secondo Hein, muoversi su diversi
profili. A livello intranazionale devono essere varate politiche fiscali che restituiscano
potere d’acquisto ai redditi da lavoro, anche in termini di aumenti salariari.
Questo ridurrebbe gli effetti derivanti dall’incremento del debito privato. Per
quanto riguarda il contesto europeo, Hein sostiene che sia necessario un
maggior coordinamento delle politiche economiche tra i diversi stati, al fine
di muovere risorse dai paesi in surplus commerciale verso quelli in deficit per
ridurre gli squilibri (che durante la crisi sono aumentati).
Un aspetto decisivo in
questo senso è la considerazione che l’ampiezza dei fenomeni evidenziati ha
dimensione sovranazionale, di conseguenza anche una buona politica, varata dal
singolo stato potrebbe rivelarsi inefficace, se gli altri paesi fanno l’opposto.
Inoltre è necessario, secondo l’autore, reintrodurre la separazione fra banche
commerciali e banche d’investimento, oltre ad una efficiente regolazione del
settore finanziario a livello sovranazionale.
Ovviamente nel libro c’è
molto di più ed ho sottolineato solo gli aspetti che hanno colpito la mia
curiosità, pertanto ne consiglio la lettura ai più “appassionati di Economia”.
Economisti e non.
lunedì 29 aprile 2013
L’austerità espansiva e la buonanima di Pigou.
Salvatore
Perri
Abstract
Coloro
che si ostinano a chiedere la fine dell’austerità, rivelatasi inefficace,
vengono spesso accusati di assumere posizioni ideologiche irrazionali. In
realtà i basamenti teorici su cui si fondano le recenti politiche economiche
europee sono fragilissimi. Attendersi la crescita dall’austerità e dalla
depressione economica appare oggi irrealistico, almeno quanto lo è stato nel
passato.
Le ultime vicissitudini del governo Monti, i dati
terrificanti sulla produzione, sul livello di attività economica e soprattutto sulla
disoccupazione, mettono in discussione i fondamenti teorici (classici e
neoclassici) delle politiche economiche adottate, decretando il fallimento dell’austerità
come soluzione alla crisi.
Mi sono già soffermato nei miei precedenti articoli (in
tempi non sospetti) sull’inefficacia delle politiche di austerità, in
particolare, spiegando l’assenza di un qualsiasi legame (anche ipotetico) fra
riduzione della spesa ed aumento degli investimenti, sull’inefficacia dei tagli
alla spesa per ridurre il debito e sull’inefficacia delle azioni sul mercato
del lavoro per rilanciare l’occupazione.
Semplificando, in primo luogo, non è detto che una
riduzione del debito comporti un miglioramento della posizione relativa dell’Italia
in termini di attrattività degli investimenti privati (nazionali ed esteri).
Una parte consistente degli investimenti non dipende dal tasso di interesse
(investimenti autonomi), bensì dalle prospettive di profitto che in Italia sono
calate drasticamente dalla fine degli anni ’70.
Secondariamente, una riduzione della spesa pubblica
è immediatamente recessiva, sia nel primo periodo che, cumulativamente, in
quelli a seguire. Di conseguenza il Pil tende a ridursi in tutti i periodi e
paradossalmente il debito continua ad aumentare nonostante i tagli.
In ultimo, ma non per importanza, le c.d. “riforme” del mercato del lavoro hanno
aumentato la disoccupazione anziché ridurla per il semplice motivo che un
sistema economico afflitto dalla presenza del lavoro sommerso e dalle molteplici
forme flessibili di contratto, difficilmente può essere riequilibrato con
ulteriori flessibilizzazioni del mercato. Soprattutto in piena recessione
economica quando le imprese licenziano e non assumono.
In sostanza “l’austerità espansiva” ci ha regalato
conti “apparentemente” in ordine (appesi ad un filo) in cambio di meno consumi,
più disoccupazione e più debito.
Ma non è finita qui, il substrato teorico delle
politiche neoclassiche e monetariste che ha guidato la BCE ed il governo Monti
include anche un principio ancora più radicale, il c.d. “Effetto Pigou”.
Secondo questo classico pre-keynesiano la
disoccupazione e la deflazione avrebbero avuto un freno automatico in qualunque
sistema economico, che magicamente sarebbe ritornato a crescere per effetto di
due fattori.
In primis, la disoccupazione avrebbe generato una
riduzione dei salari che avrebbe reso il lavoro meno costoso spingendo le
imprese ad assumere.
In secondo luogo la caduta dei prezzi avrebbe
aumentato il potere d’acquisto della moneta spingendo i consumatori ad
acquistare più merci.
L’insieme di questi due effetti sarebbero in grado
di ripristinare la crescita.
Il primo ostacolo importante a queste mirabolanti
affermazioni si ritrova nella crisi del ’29, quando i prezzi calarono la
disoccupazione negli USA toccò i suoi massimi ed il sistema economico continuò
a precipitare. In pratica, gli imprenditori spaventati non investirono, a causa
dell’assenza di prospettive di profitto, le aziende continuarono a chiudere
licenziando, e le merci semplicemente scomparvero dai mercati, quindi nessuno
dei due effetti entrò mai in funzione.
Il capitalismo fù salvato dall’intervento statale e
dalle politiche espansive, ma questa è storia nota.
Oggi l’effetto Pigou potrebbe manifestarsi? I suoi
sostenitori osservano che la disoccupazione era determinata dalle “innaturali”
leggi sul salario minimo e dall’art. 18. Rimossi questi vincoli i miracoli sarebbero
possibili.
Purtroppo non è così, per le identiche ragioni che
decretarono la fine dell’economia classica dopo il ’29 statunitense.
Meno salari comportano meno consumi, meno reddito,
meno produzione. Le aziende chiudono e chi detiene ricchezza speculativa non
investe perché non ci sono prospettive di profitto. Nel frattempo che si
attendono i miracoli il capitale inutilizzato (capannoni, macchine, abilità dei
lavoratori) si deprezza rendendone ancora più complicato il ripristino.
Uno straordinario saggio di Keynes, ancora
attualissimo, parlava dell’assurdità dei sacrifici.
Speriamo di non dovere pagare ancora a lungo la
cieca obbedienza dei decisori delle politiche economiche alla speranza della
risurrezione di Pigou.
venerdì 15 febbraio 2013
Quale Lavoro e quale Reddito: Italia 2013
Salvatore
Perri
Abstract
E’
un luogo comune piuttosto diffuso quello che vuole il Lavoro ed il Reddito in
contrapposizione fra loro. Senza lavoro non può esserci reddito, il reddito assegnato
senza una contropartita distrugge il lavoro. Nell’Italia del 2013, che ha un
passato ed ha un futuro, le tendenze macroeconomiche e socio-politiche
certificano l’esatto contrario. Senza reddito non ci sarà lavoro ed il declino
italiano sarà irreversibile.
Quale
lavoro. E’ impossibile ricostruire in poche righe la storia
industriale italiana. Tutti sanno che dalla fine degli anni 70 è cominciato un
sostanziale smantellamento della grande industria del nord-ovest, rimpiazzato
in parte dal “miracolo” dei distretti industriali del NEC (nord-est, centro).
Molti studiosi si sono soffermati sulla natura di questi distretti,
enfatizzandone gli aspetti peculiari. Ai nostri scopi è essenziale affermare
che tutte queste trasformazioni sono state “labour saving” ovvero, i progressi
tecnologici hanno consentito di risparmiare lavoro. Viene prodotto un maggior
volume di produzione con un minore impiego di lavoratori. Maggior reddito più
disoccupazione. Parallelamente la dimensione media dell’industria è diminuita
ed il peso dei lavoratori sindacalizzati si è contratto di conseguenza. Meno
lavoro, minore influenza dello stesso nella società. Il sud (alcune parti di
esso) in questa storia ha un destino a se stante, seppur funzionale allo
sviluppo del nord-est, esso è stato un mercato protetto per le merci
settentrionali finanziato in larga parte dai trasferimenti statali (sotto forma
di finanziamento di lavori non direttamente produttivi o pensioni).
Le
risposte politiche. Rispetto alla condizione che si
delineava la politica ha risposto con provvedimenti inadeguati. Maggiore
disoccupazione? Si cambiano i contratti rendendoli “flessibili”. Questo ha
fatto sì che da un lavoro a tempo indeterminato ne scaturissero un paio a tempo
determinato, ma con un minor monte salari complessivo, senza che ciò
comportasse un’inversione della tendenza. Rispetto alle imprese le politiche
sono state di 2 tipi: detassare gli straordinari e spingere ogni disoccupato a creare
una nuova impresa. Entrambe le politiche si sono rivelate fallimentari. Incentivare
gli straordinari determina un ulteriore risparmio di lavoro, mentre le nuove
imprese in un mercato asfittico non hanno margine di sviluppo, come è
dimostrato dalla notevole mortalità nel primo anno di attività delle stesse.
Le
Risposte Politiche 2. In termini di risposta a questa crisi, a
livello ideologico si è pensato di competere al ribasso sui salari, raggiungendo
l’equilibrio dei conti attraverso tagli al welfare, alla scuola ed università
(solo pubblica). A livello locale invece, la classe politica ha capito
perfettamente come sfruttare le debolezze del contesto normativo nazionale ed
europeo. In passato c’è stato un abuso di finanziamenti statali volti alla
creazione di “finti” lavori. Più o meno le buche Keynesiane per intenderci
(fondi agricoli, Forestazione, LSU, LPU). La logica è lavorista, non puoi
ricevere reddito se non fai nulla. In pratica questi lavori erano produttivi in
modo indiretto (come con il Reddito D’Esistenza) con la differenza che questo
meccanismo ha alimentato negli anni il mercato delle vacche politico-elettorali.
Il passato ritorna oggi in altre forme, stessi risultati. Il settore pubblico
non può assumere? Si creano società miste pubblico-privato che assumono, sempre
sotto dettatura politica, poi poco conta se i lavoratori non lavorano e le
società vengono chiuse con passivi da debito di guerra. L’importante è essere
fintamente lavoratori, almeno per un giorno, per poter iniziare la vertenza
sindacale ed usufruire della cassa integrazione. Stesso discorso per gli
incentivi alla nascita delle imprese, diceva un vecchio adagio “se tutti fanno
la pasta, ognuno mangia la sua”. Il mito delle imprese che creano sviluppo
(sempre) esiste dai tempi della legge degli sbocchi di Say, il problema è che
fù confutata da Keynes e sotterrata dalla grande depressione, ma evidentemente
esercita un certo fascino ancora oggi, soprattutto in chi non conosce la
storia. L’incentivo alla nascita di nuove imprese non è sempre sbagliato, lo è
quando i mercati sono saturi. Se manca la domanda aggregata le nuove entranti
devono dividersi la scarsa domanda con le imprese che già ci sono, le quali
hanno un vantaggio competitivo dall’essere già sul mercato (Microeconomia
livello “basic”). Di conseguenza le imprese create per produrre grazie
all’incentivo muoiono spesso nei primi mesi di vita. Le imprese create per
distrarre fondi pubblici (o comunitari) chiudono appena gli incentivi vengono
riscossi, a volte senza neanche aprire i capannoni. In questi casi avviene il
miracolo del lavoratore che deve iniziare la vertenza contrattuale avendo
prodotto per “zero ore”.
“Diamogli
la canna da pesca.” Un altro dramma tutto locale, si compie
quando vengono applicate le “best practices” europee al mercato italiano. La
strategia di Lisbona, tra le altre cose, proponeva di riqualificare i
lavoratori attraverso la formazione permanente, si finanziano quindi corsi di
formazione “purchessia” nelle regioni svantaggiate. Concetto giusto
applicazione sbagliata. In primo luogo è paradossale che si finanzino corsi
anche all’esterno degli enti di formazione preposti (scuole ed università)
mentre gli stessi vengono deprivati di risorse. Ma a parte l’illogicità di un
tale approccio, questi corsi passano per la mediazione politica che indirizza
le risorse, non effettua controlli, non effettua indagini di mercato per sapere
di quali figure c’è bisogno. In buona sostanza i corsi di formazione servono a
stipendiare passivamente gli enti formatori, i loro dipendenti e gli studenti
che ricevono l’incentivo orario. Esiti di questi finanziamenti? Risibili, se
non altro perché al termine del periodo di fruizione dei fondi comunitari per
la formazione (2008-2013) la disoccupazione stà toccando i suoi picchi proprio
nelle regioni svantaggiate. Per sfatare la metafora si può dire che è inutile
che mi insegni a pescare e mi dai la canna da pesca se poi mi mandi in un lago
senz’acqua in cui quelli prima di me hanno pescato con l’esplosivo. Anche qui
c’è un paragone storico da non sottovalutare, la logica della canna da pesca è
stata utilizzata nei magici anni ’80 per giustificare gli aiuti allo sviluppo
in Africa, aiuti che spesso si concretizzavano in megatangenti ai politici e
traffici di scorie radioattive.
La
(quasi) fine del lavoro salariato. Ci troviamo di fronte
ad una condizione nella quale il lavoro subordinato come concetto è
dequalificato sul piano valoriale. Deve essere retribuito meno, ma chi guadagna
meno vale anche meno (nella società moderna siamo ciò che abbiamo). Il lavoro
salariato è contemporaneamente uguale e diverso, in termini di trattamento
economico e di mansione svolta, il precario svolge la stessa mansione del
collega a tempo indeterminato ma non ha gli stessi diritti. Il finto
lavoratore, cooptato con logiche politiche, ha gli stessi diritti degli altri
pur non essendo un lavoratore. Il lavoro è un semi-diritto, in quanto non c’è e
non ci sarà per tutti, ma coloro che non lo hanno meritano il discredito
sociale per questo (sono portatori individuali di colpe sociali), anche perché
non sono stati in grado di costruire relazioni per averlo (o non hanno voluto
pagarne il prezzo). In sostanza anche la libertà del lavoratore-individuo
diventa un valore negativo.
Conclusioni.
Riassumendo,
il mercato del lavoro si comprime dal punto di vista dimensionale perché c’è
una tendenza alla riduzione del lavoro impiegato. Il lavoro che rimane viene ripartito
in modo arbitrario in una tripartizione fra lavoratori salariati veri,
lavoratori sussidiati e precari (veri o sussidiati anch’essi). In ogni caso le
politiche adottate comportano una riduzione complessiva dei salari erogati.
Viene così meno una parte della domanda interna ed una parte della produzione
cessa di essere “giustificata”. Si determina una ulteriore diminuzione del
lavoro necessario e la spirale ricomincia, potenzialmente senza limiti. Si può
interrompere questa spirale in due modi complementari fra di loro:
redistribuendo il lavoro delle aziende ancora produttive in modo da aumentare
il numero dei lavoratori attivi, riconoscere i finti lavori per quello che
sono, riconducendo le miriadi di forme di sussidio ad una unica forma di
Reddito d’Esistenza da attribuire a tutti coloro che non godono di un contratto
“dignitoso”. Si interromperebbe la caduta della produzione, dell’occupazione,
ma anche la perdita di competitività dovuta alla presenza del lavoro sussidiato
e delle corruttele che lo determinano.
Iscriviti a:
Post (Atom)