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martedì 9 luglio 2013

Quali Riforme per l’Italia?



Salvatore Perri

La condizione Economico-Finanziaria dell’Italia è particolarmente seria. Migliorarla è estremamente difficile, per farlo ci sarebbe bisogno di interventi strutturali consistenti sui comparti reali del sistema economico (investimenti) e contestualmente di vere “riforme” normative che traccino le linee guida un percorso di sviluppo realistico per i prossimi decenni. La complessità della realtà richiede risposte complesse, non in termini formali, ma in termini di comprensione delle dinamiche che stanno determinando l’arretramento strutturale del “sistema Italia”. Questo livello di comprensione, ascoltando le priorità degli ultimi 3 governi, è piuttosto scarso.

Imprese. La crisi del settore industriale italiano viene da almeno due decenni. La mancanza di una politica industriale da parte di governi si è sommata all’inevitabile perdita di competitività delle imprese italiane sui mercati internazionali a seguito della globalizzazione economica. Ad una prima fase di difficoltà delle grandi imprese del nord-ovest, il mondo imprenditoriale ha reagito mutando la forma della produzione attraverso ristrutturazioni che permettessero produzioni innovative e di qualità su scala più piccola. Tuttavia l’avvento di nuovi competitori sui mercati, caratterizzati da bassi costi di produzione, ha provocato la crisi anche del “miracolo nord-est”. L’Italia, sostanzialmente, è un paese post-industriale, laddove il peso dei servizi e del terziario (sostenuto dalla domanda interna) è destinato ad essere predominante negli anni avvenire rispetto alla produzione di merci in senso stretto.
Negare questo elemento contribuisce a far perdere del tempo prezioso aspettando che “rinascano” nuove imprese come quelle che abbiamo conosciuto. Questo non accadrà.
E’ necessario sostenere le aziende competitive attraverso il supporto alla riqualificazione ed alla modernizzazione produttiva, ed attraverso il taglio degli oneri fiscali che incidono sul costo del prodotto, non attraverso ulteriori tagli al costo del lavoro (totalmente inutili e dannosi, come si spiegherà in seguito).
Inoltre, anziché insistere sul rifinanziamento della cassa integrazione di aziende che non possono tornare alla produzione, è necessario investire su piani di riqualificazione territoriale che permettano alle imprese di perseguire obiettivi pubblici con lavoro privato (sicurezza del territorio, adeguamento antisismico, mobilità sostenibile, bonifiche di discariche, solo per citarne alcuni).

Lavoro. E’ stata opinione diffusa, ribadita tra l’altro da eminenti studiosi, che la flessibilità del lavoro avrebbe costruito per l’Italia un paradiso di piena occupazione. Le imprese aspettavano solo un rilascio normativo degli inaccettabili vincoli ai licenziamenti o alle assunzioni temporanee. Ho già scritto di questo assunto e di come sia totalmente falso, ma è interessante sottolinearne un aspetto diverso. Se le aziende soffrono la crisi, licenziano, delocalizzano, chiudono per le ragioni sopra elencate, che effetto possono avere incentivi alle assunzioni o modifiche normative ai contratti? La risposta è elementare: nessun effetto positivo. Inoltre, come era stato ampliamente previsto, una flessibilità senza regole, senza continuità contributiva, ha generato ulteriori problemi contribuendo a comprimere la domanda interna ed aggravare la crisi. Lo stillicidio di dati sulla disoccupazione e sul crollo dei consumi (anche alimentari) dovrebbe contribuire a svegliare anche i più addormentati.
Alzare l’età pensionabile e ridurre le tutele contrattuali per i neo-assunti può comportare un piccolo beneficio nel breve periodo ed un disastro a medio termine, perché calano le entrate fiscali e quindi i conti dello stato tornano velocemente a peggiorare (nei periodi delle ultime “riforme” del mercato del lavoro il debito pubblico ha continuato la sua inarrestabile ascesa).
Le uniche riforme sensate riguardano la Redistribuzione del Lavoro nelle aziende produttive e l’introduzione di una forma di Reddito Minimo per tutti coloro che non potranno essere ricollocati nel mercato del lavoro (fenomeno che ho già discusso in altri pezzi).

Stato. Non necessariamente un elevato peso del settore pubblico è un male per un sistema economico (nelle condizioni sopra indicate di quello italiano nello specifico). Il peso dello stato diventa un problema se non fornisce servizi efficienti, se è costoso, permeato dalla corruzione e condizionato dalla politica nel senso deteriore del termine. In questo caso, contrariamente agli altri settori, si potrebbero ottenere grandi risultati con provvedimenti normativi. Una severa legge anticorruzione ad esempio potrebbe contribuire ad abbassare i costi delle opere pubbliche, che sono i veri costi della politica che nessuno riesce ad abbattere. Una legge che riesca ad impedire le assunzioni clientelari nell’insieme degli enti pubblici (ospedali e posizioni dirigenziali degli enti pubblici) con pene esemplari per i trasgressori, contribuirebbe in breve tempo ad aumentare l’efficienza della pubblica amministrazione, più della visita fiscale per chi ha 37 di febbre. La corruzione contribuisce ad aumentare il costo delle opera pubbliche e la gestione della burocrazia, inoltre genera un circolo vizioso che coinvolge il privato inefficiente selezionando le imprese peggiori per l’adempimento degli appalti. Aperta la porta alle corruttele è naturale che la criminalità organizzata ne approfitti entrando di fatto nel meccanismo di gestione degli enti pubblici.
La politica di gestione del settore pubblico fatta  esclusivamente di tagli, oltre a disincentivare i settori virtuosi, deprime l’economia. Quando i tagli colpiscono cultura e beni artistici si contribuisce al depauperamento dell’unico patrimonio non riproducibile che il paese possiede contribuendo ad accelerare le dinamiche depressive già in atto (a questo punto anche in termini di competenze).
Dismettere parti del patrimonio pubblico, senza aver definito con chiarezza un piano per valorizzarne la parte restante, potrebbe essere un palliativo utile solo a respirare per pochi mesi.

Conclusioni.  Le politiche economiche hanno effetti positivi o negativi su un sistema economico a seconda che riescano ad incidere su quelli che sono i problemi, analogamente alla risposta che un organismo umano ha rispetto all’assunzione di un farmaco. Nell’attuale momento storico e nell’attuale condizione economica italiana sono utili politiche che incrementino i consumi interni e gli investimenti. Non hanno senso ulteriori tagli della spesa, è possibile agire nello specifico di riduzioni mirate di spesa improduttiva a patto che il risparmio sia speso immediatamente e per intero in un altro settore. Non ha senso prorogare in eterno forme di cassa integrazione per aziende dismesse, si deve passare ad un sistema di redistribuzione del lavoro nelle aziende vitali e reddito minimo per i lavoratori espulsi dal mercato. Non ha senso dismettere il patrimonio pubblico a meno che il ricavato non venga investito, se il ricavato viene utilizzato per ridurre il debito le condizioni di solvibilità dell’Italia miglioreranno nel breve periodo e peggioreranno nel lungo. Bisogna sostenere il tessuto imprenditoriale attraverso riduzioni di oneri e burocrazia senza interferire nell’allocazione spaziale delle imprese. Bisogna intervenire con un piano straordinario di lotta alla corruzione sia nel pubblico che nel rapporto pubblico-privato. Piccoli interventi di spostamento di capitolati insignificanti, come quelli che si profilano oggi, non avranno alcun impatto sull’attuale dinamica economica italiana.


venerdì 14 giugno 2013

I Tassi d'Interesse e la confusione che regna sovrana

Salvatore Perri

Il differenziale fra tassi d'interesse sui titoli di stato italiani e tedeschi e' balzato negli ultimi mesi agli onori della cronaca additato come indicatore del potenziale disastro economico imminente. La divaricazione dei tassi ha sicuramente implicazioni problematiche ma esse riguardano principalmente il razionamento del credito verso le imprese e non, come erroneamente si crede, una ipotetica impossibilita' di rifinanziare il debito.

Il ruolo del famigerato "spread" fra i tassi d'interesse sul debito e' diventato nell'opinione pubblica mutevole non meno delle personali sensazioni climatiche. Lo stesso e' passato dall'essere una variabile in grado di determinare la fine di un governo, all'essere un'invenzione della stampa. E' indiscutibile che un aumento dei tassi d'interessi sul debito pubblico (enorme come quello italiano) abbia implicazioni importanti sui conti dello stato, ignorarlo o far finta che non esista, come fosse l'incubo in cui si viene inseguiti dai fantasmi, non ne aiuta certamente la comprensione.

Tuttavia, alcuni degli effetti di un aumento dei tassi sono quotidianamente male interpretati, creando allarmismo immotivato verso il rifinanziamento del debito ed oscurando completamente i veri effetti negativi che riguardano fondamentalmente il settore privato e le proprie possibilita' di accedere finanziamento bancario.

Se i tassi di interesse sul debito aumentano quali sono le reali conseguenze?

In primo luogo, contrariamente a quello che quotidianamente si dice, aumentano le possibilita' che lo stato ha di piazzare i suoi titoli sul mercato. La ragione e' palese, un piu' alto rendimento e' piu' appetibile di uno basso. Si dice che il rischio aumenta, ma quale rischio? E' possibile ipotizzare che lo stato non onori i suoi debiti? L'Italia possiede un patrimonio inestimabile, puo' imporre le tasse e se cio' non bastasse potrebbe consolidare il debito spostando le scadenze (come avvenne in periodi oscuri della nostra storia). Come i finlandesi che volevano il Partenone in garanzia a copertura del debito greco, l'Italia potrebbe offrire il Colosseo piuttosto che vendere la Sardegna (come in un celebre pezzo di Corrado Guzzanti in veste di Tremonti).

Aldila' delle esagerazioni, i titoli del debito italiano rappresentano un "asset" relativamente certo, pertanto se ne aumenta il rendimento e' naturale che i titoli si vendano sempre, i giornalisti si stupiscono che cio' accada con la stessa forza con cui io mi stupisco che loro si stupiscano.

Il problema nasce dopo, se gli interessi sui titoli del debito pubblico aumentano essi "spiazzano" una quota degli investimenti privati. Supponiamo un tasso sui titoli annuo al 5%, gli imprenditori privati dovranno offrire agli investitori un tasso superiore per convincerli ad investire sull'impresa anziche' in titoli di stato. Qualunque garanzia l'impresa offra sara' sempre inferiore a quella offerta dallo stato.

Di conseguenza le imprese dovrebbero poter conseguire profitti enormi per ripagare i prestiti, in tempi di crisi questo diventa complicato, ma abbiamo ancora un altro problema, questo si peculiare alla condizione italiana:   le banche.

Nel momento esatto in cui le banche ricevono liquidita' dalla BCE esse si trovano di fronte alla scelta su come investire questo denaro al fine di massimizzare i profitti, quindi effettuano la stessa scelta che effettuerebbe un investitore privato, ovvero, comprare titoli di stato anziche' finanziare le imprese.

Anche in questo caso stupirsi non serve a niente, le banche non sono enti mutualistici caritatevoli, inseguono profitti, quindi meglio il certo dell'incerto, male che vada lo stato aumenterebbe le tasse oppure dismetterebbe investimenti pur di rimborsare i titoli a scadenza.

In conclusione, lo "spread" da osservare e' quello tra i rendimenti dei titoli di stato ed i rendimenti medi delle aziende italiane. Un aumento dei tassi sul debito facilita la collocazione dei titoli, ma riduce le possibilita' delle imprese di essere finanziate. Inoltre il fatto che siano le banche a finanziare il debito comporta un trasferimento di risorse dai cittadini al settore finanziario amplificando gli effetti recessivi della crisi.


lunedì 29 aprile 2013

L’austerità espansiva e la buonanima di Pigou.



Salvatore Perri

Abstract

Coloro che si ostinano a chiedere la fine dell’austerità, rivelatasi inefficace, vengono spesso accusati di assumere posizioni ideologiche irrazionali. In realtà i basamenti teorici su cui si fondano le recenti politiche economiche europee sono fragilissimi. Attendersi la crescita dall’austerità e dalla depressione economica appare oggi irrealistico, almeno quanto lo è stato nel passato.

Le ultime vicissitudini del governo Monti, i dati terrificanti sulla produzione, sul livello di attività economica e soprattutto sulla disoccupazione, mettono in discussione i fondamenti teorici (classici e neoclassici) delle politiche economiche adottate, decretando il fallimento dell’austerità come soluzione alla crisi.

Mi sono già soffermato nei miei precedenti articoli (in tempi non sospetti) sull’inefficacia delle politiche di austerità, in particolare, spiegando l’assenza di un qualsiasi legame (anche ipotetico) fra riduzione della spesa ed aumento degli investimenti, sull’inefficacia dei tagli alla spesa per ridurre il debito e sull’inefficacia delle azioni sul mercato del lavoro per rilanciare l’occupazione. 

Semplificando, in primo luogo, non è detto che una riduzione del debito comporti un miglioramento della posizione relativa dell’Italia in termini di attrattività degli investimenti privati (nazionali ed esteri). Una parte consistente degli investimenti non dipende dal tasso di interesse (investimenti autonomi), bensì dalle prospettive di profitto che in Italia sono calate drasticamente dalla fine degli anni ’70.
Secondariamente, una riduzione della spesa pubblica è immediatamente recessiva, sia nel primo periodo che, cumulativamente, in quelli a seguire. Di conseguenza il Pil tende a ridursi in tutti i periodi e paradossalmente il debito continua ad aumentare nonostante i tagli.
In ultimo, ma non per importanza, le  c.d. “riforme” del mercato del lavoro hanno aumentato la disoccupazione anziché ridurla per il semplice motivo che un sistema economico afflitto dalla presenza del lavoro sommerso e dalle molteplici forme flessibili di contratto, difficilmente può essere riequilibrato con ulteriori flessibilizzazioni del mercato. Soprattutto in piena recessione economica quando le imprese licenziano e non assumono.

In sostanza “l’austerità espansiva” ci ha regalato conti “apparentemente” in ordine (appesi ad un filo) in cambio di meno consumi, più disoccupazione e più debito.
Ma non è finita qui, il substrato teorico delle politiche neoclassiche e monetariste che ha guidato la BCE ed il governo Monti include anche un principio ancora più radicale, il c.d. “Effetto Pigou”. 

Secondo questo classico pre-keynesiano la disoccupazione e la deflazione avrebbero avuto un freno automatico in qualunque sistema economico, che magicamente sarebbe ritornato a crescere per effetto di due fattori.
In primis, la disoccupazione avrebbe generato una riduzione dei salari che avrebbe reso il lavoro meno costoso spingendo le imprese ad assumere.
In secondo luogo la caduta dei prezzi avrebbe aumentato il potere d’acquisto della moneta spingendo i consumatori ad acquistare più merci.
L’insieme di questi due effetti sarebbero in grado di ripristinare la crescita.
 
Il primo ostacolo importante a queste mirabolanti affermazioni si ritrova nella crisi del ’29, quando i prezzi calarono la disoccupazione negli USA toccò i suoi massimi ed il sistema economico continuò a precipitare. In pratica, gli imprenditori spaventati non investirono, a causa dell’assenza di prospettive di profitto, le aziende continuarono a chiudere licenziando, e le merci semplicemente scomparvero dai mercati, quindi nessuno dei due effetti entrò mai in funzione.

Il capitalismo fù salvato dall’intervento statale e dalle politiche espansive, ma questa è storia nota.

Oggi l’effetto Pigou potrebbe manifestarsi? I suoi sostenitori osservano che la disoccupazione era determinata dalle “innaturali” leggi sul salario minimo e dall’art. 18. Rimossi questi vincoli i miracoli sarebbero possibili.
Purtroppo non è così, per le identiche ragioni che decretarono la fine dell’economia classica dopo il ’29 statunitense. 

Meno salari comportano meno consumi, meno reddito, meno produzione. Le aziende chiudono e chi detiene ricchezza speculativa non investe perché non ci sono prospettive di profitto. Nel frattempo che si attendono i miracoli il capitale inutilizzato (capannoni, macchine, abilità dei lavoratori) si deprezza rendendone ancora più complicato il ripristino.

Uno straordinario saggio di Keynes, ancora attualissimo, parlava dell’assurdità dei sacrifici.

Speriamo di non dovere pagare ancora a lungo la cieca obbedienza dei decisori delle politiche economiche alla speranza della risurrezione di Pigou.


giovedì 29 novembre 2012

La logica della BCE



Salvatore Perri

Il crescente dissenso dell’opinione pubblica europea nei confronti della politica monetaria della BCE è essenzialmente dovuto alla percezione (corretta) che la stessa BCE si preoccupi molto del sistema bancario e finanziario e per nulla dei problemi dell’economia reale. Tuttavia, quello che non è sufficientemente chiaro all’opinione pubblica è che un tale comportamento della BCE è dovuto ai vincoli stabiliti da accordi fra gli stati membri (per gli strumenti utilizzabili) determinati da vincoli ideologici che legano la politica della BCE alle teorie neoclassiche e monetariste. Il senso di questo mio contributo è che entrambi i vincoli sono superabili rendendo la BCE uno strumento che contribuisca a risolvere la crisi, anziché ad acuirne gli effetti.

Quando ho detto ad una mia amica che avrei voluto spiegare perché la BCE si comporta in questo modo lei mi ha risposto: “lo so io, perché sono una massa di str….”. Questo la dice lunga sull’opinione che attualmente si ha nei confronti di questa istituzione, ma lo strumento BCE non coincide con le Politiche della BCE, è come un coltello, si può utilizzare per tagliare il pane o per uccidere. Ma la colpa non è dello strumento ma è di chi lo usa, male.

La BCE ha, tra gli altri, il compito di garantire la stabilità monetaria attraverso la gestione dell’offerta di moneta. Ciò avviene attraverso l’acquisto e la vendita di titoli (operazioni di mercato aperto) ed attraverso la gestione dei tassi d’interesse. L’assunto di base è che la BCE deve essere indipendente dagli stati membri e deve occuparsi solo del controllo della stabilità dei prezzi, oltre al corretto funzionamento del sistema finanziario. Perché accade questo?

La teoria economica neoclassica, nelle sue componenti più estremistiche, suggerisce che la politica fiscale e quella monetaria siano, nel lungo periodo, totalmente inutili nel loro tentativo di aumentare il reddito e ridurre la disoccupazione. Politiche fiscali espansive (spesa pubblica) e monetarie espansive (aumento dell’offerta di moneta) si rivelerebbero nel lungo periodo inflazionistiche, senza alterare le variabili reali (reddito, occupazione).

Siamo di fronte alla perfetta applicazione della teoria quantitativa della moneta, secondo cui ogni aumento della quantità di moneta in circolazione si riflette proporzionalmente sul livello dei prezzi. Che cosa fa quindi la BCE? Mantiene stabili i prezzi in Europa agendo sull’offerta di moneta.
Perché non si occupa di stabilizzare anche i livelli occupazionali ed il reddito? Perché sempre le teorie neoclassiche suggeriscono che varare politiche monetarie “discrezionali”, altererebbe la credibilità della BCE che non riuscirebbe più ad ottenere la stabilità dei prezzi, in quanto l’espansione monetaria sarebbe con essa incompatibile.

Pertanto la soluzione trovata negli accordi istitutivi è stata la seguente, la BCE si occupa “solo” dei prezzi, mentre i singoli governi europei devono occuparsi della politica fiscale e quindi di reddito ed occupazione.
Si arriva a questo punto per demeriti politici, dell’Italia in primo luogo, poiché all’approssimarsi delle elezioni, i governi tendono ad espandere la spesa pubblica a fini di consenso, una storia che noi conosciamo bene, e che ha creato da noi un “trade off” fra inflazione e debito pubblico.

Detto questo, la politica monetaria odierna è funzionale all’uscita dalla crisi? Ovviamente no, e non bisogna essere scienziati per dirlo, anche se la prova a rovescio è dimostrabile scientificamente. Secondo la teoria quantitativa della moneta, se aumenta l’offerta di moneta aumenta anche il livello d’inflazione, ok, ma se si riduce il PIL? A questo punto la BCE dovrebbe ridurre l’offerta di moneta perché quello precedente non è più compatibile con l’attuale ricchezza prodotta. Questa manovra sarebbe altamente recessiva e quindi si potrebbe aumentare l’offerta di moneta per contrastare la recessione e riportare il PIL al suo livello ante-crisi?

La risposta all’ultima domanda è si, ma questa sarebbe una politica monetaria anticiclica, una di quelle strategie vietate dai trattati, che si basano sulle suddette teorie economiche neoclassiche.
Qual è la soluzione a questa trappola? Modificare i trattati, introducendo la possibilità di deroghe in caso di crisi, che consentano alla BCE di acquistare titoli dei paesi membri, titoli finalizzati a garantire la ripresa economica attraverso investimenti infrastrutturali, tecnologici e sociali. Non le auto di Batman per intenderci.
La BCE potrebbe vigilare, assieme alla Commissione Europea sul “come” si debbano spendere questi soldi. Ed evitare quindi gli abusi che noi conosciamo.

Questa politica economica non sarebbe necessariamente inflazionistica, in quanto le economie Europee sono ben lontane dal “pieno impiego”, sia di lavoratori che industriale, e sono proprio i neoclassici che ci dicono che l’espansione monetaria è inflazionistica se si parte da un livello del PIL prossimo a quello di pieno impiego. Inoltre, l’espansione monetaria attuata dalla BCE sarebbe meno inflazionistica e meno distorsiva di una qualunque politica attuata da un singolo stato.

In conclusione, la BCE non è un totem ma è uno strumento imprescindibile per l’ordinato funzionamento degli scambi in Europa. Un’altra cosa è criticarne le politiche, che non sono discrezionali, ma per scelta, questa si sbagliata. La soluzione è aprire una ridefinizione dei compiti e delle opportunità a disposizione del banchiere centrale, affinché egli possa intervenire tempestivamente in caso di episodi recessivi acuti. Il tutto coordinato efficientemente con le politiche fiscali degli stati membri. Questo sarà possibile quando maturerà nei soci dell’Eurozona la consapevolezza che i tempi sono ormai maturi per riformare i trattati ed avvicinare le istituzioni comunitarie alle esigenze dei cittadini europei.


mercoledì 14 novembre 2012

La riforma Fornero delle pensioni è equa?



Salvatore Perri

Una riforma, che possa essere definita tale, di uno qualsiasi dei presidi sociali fondamentali dello stato, ha il compito di rimuovere le distorsioni attuali e garantire la stabilità del contesto socio-economico a lungo termine.

Questa definizione, evidentemente troppo complessa, sfuggiva alla comprensione della Gelmini in tema di scuola almeno quanto sfugge oggi a Michel Martone in tema di pensioni, dato che ieri si è prodotto nell’ennesimo spot televisivo volto a screditare ulteriormente (se ce ne fosse bisogno), sia il valore dei ministri e sottosegretari “tecnici”, sia quello del mondo accademico in generale.

Il tema è l’equità della riforma Fornero delle pensioni. Secondo Michel Martone è equa perché ristabilisce un corretto legame tra le generazioni che posso facilmente riassumere nella frase “ognuno per se e Dio per tutti”. Infatti bisogna essere fortemente credenti nell’esistenza di un paradiso fantastico per credere che i provvedimenti in tema di pensioni assicurano la “stabilità sociale” nel lungo periodo.
Secondo Fornero-Martone, la distorsione era rappresentata dal fatto che il sistema retributivo assegnava ai pensionati di oggi più risorse di quelle che avranno in futuro i giovani.

Bisogna subito tranquillizzarli, il problema della pensione della “generazione X” a cui io appartengo, non si pone, in quanto in nessun caso, un lavoratore precario che ha cominciato a lavorare ad esempio nel 2002, potrà aspirare ad una pensione superiore a quella sociale. Sono calcoli semplici, Martone può farli come compito a casa.
I contributi versati dai precari, pochi e super tassati con aliquota paranormale, sono stati utilizzati per pagare le pensioni anche ai Vescovi (come ha dimostrato uno studio del Sole 24 ore), in quanto la cassa dei contributi a tempo determinato era in avanzo, essendoci oggi moltissimi precari al lavoro e quasi nessun precario pensionato.
Fra 30 anni ci sarà una massa di precari che busseranno all’Inps e casse vuote, compito 2: trovare l’equità. 

Per essere equi fino in fondo, i tecnici hanno spedito a casa senza lavoro ne pensione gli ormai famosi “esodati”, l’equità si trova facilmente, mica possono soffrire solo i precari, quindi un’equità nella sofferenza. La logica è che l’età pensionabile deve aumentare, così si pagano meno pensioni, la gente prima o poi è destinata a morire. Questo permette di abbassare drasticamente il monte pensioni complessivo per oggi ed anche per domani, dato che il precario che andrà in pensione potrà aspirare ad un massimo di 500 euro mensili, pur avendo svolto nella vita lo stesso lavoro di un lavoratore a tempo indeterminato, possiamo chiamarla equità nelle mansioni?

Per completare il concetto di equità che hanno in testa i tecnici, c’è da ricordare che non si è impostato un tetto massimo ai pensionati del settore pubblico, che non si è revocata la possibilità di cumulo per 2 o più pensioni del settore pubblico e che si è ben lontani da porre un tetto “decente” agli stipendi ed alle buonuscite dei managers e dirigenti del settore pubblico.
In questo caso l’ostacolo è il “diritto acquisito”, chi ha pagato contributi enormi perché intascava stipendi enormi, pagati dai contribuenti, ha diritto a ricevere pensioni enormi. Tale ostacolo si aggira facilmente per gli “esodati” e non si può applicare ai precari ed ai disoccupati perché uno stipendio vero non lo vedranno mai.

L’equità in salsa Fornero-Martone è equità “contabile” non “economica”, aggiusta i conti per oggi, non garantisce la stabilità a lungo termine, perché eventuali rivolte sociali sono un fattore “economico” di cui si deve tenere conto.

C’è un altro problema, senza necessariamente essere prosaici, la riduzione delle erogazioni pensionistiche presenti e future garantisce, come tutte le misure recessive, una caduta dei consumi e quindi del PIL tanto più accentuata quanto colpisce gli individui a basso reddito. 

Martone non lo sa e tutti i giorni dà la colpa al debito pubblico, qualcuno gli spieghi per favore che riducendo il PIL è impossibile ridurre il peso del debito, che è infatti aumentato nel periodo delle riforme recessive della coppia Fornero-Monti, come avevo ampliamente previsto molti mesi fa in alcuni articoli tra cui questo http://www.informarexresistere.fr/2012/04/24/la-follia-del-pareggio-di-bilancio-costituzionale/#axzz1siIA1fkW