Visualizzazione post con etichetta banche. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta banche. Mostra tutti i post

mercoledì 12 novembre 2014

Le concentrazioni bancarie hanno alimentato il dualismo Nord-Sud



Salvatore Perri


Prendendo in considerazione il periodo antecedente la crisi (1989-2007)[1] balza immediatamente agli occhi una sostanziale omogeneità territoriale del saggio di risparmio delle famiglie italiane: sostanzialmente da Nord a Sud non esiste una diversità “culturale” nella scelta fra risparmio e consumo. Inoltre, sorprendentemente, la regione che ha sviluppato il maggior tasso di crescita del numero di sportelli è la Campania. Se interpretassimo questi dati solamente sulla base della teoria economica standard, ci dovremmo aspettare una sostanziale omogeneità anche negli altri parametri finanziari, ma è proprio qui che i dati ci raccontano un’altra storia.

Sempre secondo la teoria standard, risparmio è la base dell'investimento, ma nel tragitto che porta la ricchezza a trasformarsi intercorrono relazioni fra molte variabili, non sempre controllabili, connesse alla “stabilità macroeconomica”[2]. In un contesto macroeconomicamente stabile, vi è un’orizzonte temporale relativamente certo in cui pianificare i propri progetti di investimento e richiedere agli intermediari finanziari le risorse a tassi “possibili”. Per contro, laddove il contesto è incerto, per l’azione di fattori socio-economici incontrollabili, l’investimento diventa un azzardo. Questo appare essere il caso del Sud in cui a fronte di saggi di risparmio omogenei le sofferenze raggiungono quasi il doppio rispetto alle regioni del centro-nord[3]. Criminalità, settore sommerso, pervasività della corruzione a tutti i livelli agiscono come elementi in grado di creare una distorsione dei flussi finanziari. Pertanto il risparmio ha più difficoltà ad essere “convertito” in investimento, almeno in loco.

Il periodo considerato è ricco di “riforme” che hanno riguardato il settore Bancario. Senza entrare nello specifico, la spinta a competere in un mercato aperto ha comportato l’aggregazione dei gruppi bancari, fusioni acquisizioni e partecipazioni incrociate. Inoltre, è finita sostanzialmente la spinta diretta dello Stato nell'indirizzare lo sviluppo industriale del Sud, sia per quanto riguarda gli investimenti diretti sia per quanto riguarda la via surrogata della Cassa per il Mezzogiorno. Il ridotto flusso finanziario pubblico e le difficoltà strutturali dell'economia reale si sono quindi trasmesse al settore finanziario comportando la sostanziale scomparsa di un sistema finanziario meridionale autonomo[4].

Ci si aspettava che la riorganizzazione del settore bancario, sotto la spinta delle normative europee, comportasse un miglioramento nell’efficienza del credito erogato, ma quando si analizzano realtà territoriali disomogenee il risparmio di costo può determinare una selezione territoriale deludente nella distribuzione del credito. Questo è quello che sembra essere avvenuto. Le banche si sono accorpate, i centri decisionali sono stati spostati pressoché interamente al Centro-Nord e le filiali distribuite capillarmente nel territorio del Sud rimangono quasi esclusivamente con la sola funzione di raccolta. Il credito viene erogato anche al Sud, ma solo a condizioni estreme rispetto al Centro-Nord. E ciò comporta che si privilegiano al Sud gli investimenti a più alto coefficiente di rischio, che di conseguenza, hanno una percentuale di riuscita minore.

Così si è alimentato ulteriormente il circolo vizioso che acuisce le distanze fra Nord e Sud. L'intervento pubblico termina, i consumi pubblici diminuiscono e questi ultimi sono significativi nello spiegare i divari territoriali. La convergenza in termini di crescita non c’è, i miglioramenti nell’efficienza di costo del settore bancario sono stati pagati da un’ulteriore stretta creditizia nei confronti dei residenti nelle regioni del Sud. Non si interviene sulle condizioni strutturali del divario: l’inadeguatezza dell’apparato produttivo, l’insufficienza delle infrastrutture materiali e immateriali, la criminalità, la corruzione. Così chi si ostina a fare impresa riceve una doppia penalizzazione, perché paga tasse in linea con la media nazionale ma quando si rivolge al mercato del credito ottiene una risposta discriminata territorialmente. In questo contesto, anche i fondi europei hanno dimostrato scarsa efficacia, seppure con lodevoli eccezioni[5].

Il settore finanziario “subisce” le ragioni reali del dualismo Nord-Sud, e il conseguente divario di rischiosità, riflettendole nelle condizioni di credito. E se i centri decisionali sono posizionati altrove risulta ancora più difficile che ci sia una spinta ad investire sul rischioso e sull'incerto. Le cause del divario Nord-Sud sono di carattere reale e il settore finanziario le asseconda: per queste ragioni le risposte politiche dovrebbero partire da questa consapevolezza.







[1] S. Perri, Gli effetti delle trasformazioni del sistema bancario sulla crescita economica delle regioni italiane, in "Rivista economica del Mezzogiorno" 1-2/2014, pp. 155-186, doi: 10.1432/77791
[2] Rousseau e Wachtel (2002).
[3] Elaborazioni su dati Banca D'Italia, base informativa pubblica on-line.
[4] Zazzaro (2006).
[5] Come segnalato, tra gli altri, da Viesti.

venerdì 14 giugno 2013

I Tassi d'Interesse e la confusione che regna sovrana

Salvatore Perri

Il differenziale fra tassi d'interesse sui titoli di stato italiani e tedeschi e' balzato negli ultimi mesi agli onori della cronaca additato come indicatore del potenziale disastro economico imminente. La divaricazione dei tassi ha sicuramente implicazioni problematiche ma esse riguardano principalmente il razionamento del credito verso le imprese e non, come erroneamente si crede, una ipotetica impossibilita' di rifinanziare il debito.

Il ruolo del famigerato "spread" fra i tassi d'interesse sul debito e' diventato nell'opinione pubblica mutevole non meno delle personali sensazioni climatiche. Lo stesso e' passato dall'essere una variabile in grado di determinare la fine di un governo, all'essere un'invenzione della stampa. E' indiscutibile che un aumento dei tassi d'interessi sul debito pubblico (enorme come quello italiano) abbia implicazioni importanti sui conti dello stato, ignorarlo o far finta che non esista, come fosse l'incubo in cui si viene inseguiti dai fantasmi, non ne aiuta certamente la comprensione.

Tuttavia, alcuni degli effetti di un aumento dei tassi sono quotidianamente male interpretati, creando allarmismo immotivato verso il rifinanziamento del debito ed oscurando completamente i veri effetti negativi che riguardano fondamentalmente il settore privato e le proprie possibilita' di accedere finanziamento bancario.

Se i tassi di interesse sul debito aumentano quali sono le reali conseguenze?

In primo luogo, contrariamente a quello che quotidianamente si dice, aumentano le possibilita' che lo stato ha di piazzare i suoi titoli sul mercato. La ragione e' palese, un piu' alto rendimento e' piu' appetibile di uno basso. Si dice che il rischio aumenta, ma quale rischio? E' possibile ipotizzare che lo stato non onori i suoi debiti? L'Italia possiede un patrimonio inestimabile, puo' imporre le tasse e se cio' non bastasse potrebbe consolidare il debito spostando le scadenze (come avvenne in periodi oscuri della nostra storia). Come i finlandesi che volevano il Partenone in garanzia a copertura del debito greco, l'Italia potrebbe offrire il Colosseo piuttosto che vendere la Sardegna (come in un celebre pezzo di Corrado Guzzanti in veste di Tremonti).

Aldila' delle esagerazioni, i titoli del debito italiano rappresentano un "asset" relativamente certo, pertanto se ne aumenta il rendimento e' naturale che i titoli si vendano sempre, i giornalisti si stupiscono che cio' accada con la stessa forza con cui io mi stupisco che loro si stupiscano.

Il problema nasce dopo, se gli interessi sui titoli del debito pubblico aumentano essi "spiazzano" una quota degli investimenti privati. Supponiamo un tasso sui titoli annuo al 5%, gli imprenditori privati dovranno offrire agli investitori un tasso superiore per convincerli ad investire sull'impresa anziche' in titoli di stato. Qualunque garanzia l'impresa offra sara' sempre inferiore a quella offerta dallo stato.

Di conseguenza le imprese dovrebbero poter conseguire profitti enormi per ripagare i prestiti, in tempi di crisi questo diventa complicato, ma abbiamo ancora un altro problema, questo si peculiare alla condizione italiana:   le banche.

Nel momento esatto in cui le banche ricevono liquidita' dalla BCE esse si trovano di fronte alla scelta su come investire questo denaro al fine di massimizzare i profitti, quindi effettuano la stessa scelta che effettuerebbe un investitore privato, ovvero, comprare titoli di stato anziche' finanziare le imprese.

Anche in questo caso stupirsi non serve a niente, le banche non sono enti mutualistici caritatevoli, inseguono profitti, quindi meglio il certo dell'incerto, male che vada lo stato aumenterebbe le tasse oppure dismetterebbe investimenti pur di rimborsare i titoli a scadenza.

In conclusione, lo "spread" da osservare e' quello tra i rendimenti dei titoli di stato ed i rendimenti medi delle aziende italiane. Un aumento dei tassi sul debito facilita la collocazione dei titoli, ma riduce le possibilita' delle imprese di essere finanziate. Inoltre il fatto che siano le banche a finanziare il debito comporta un trasferimento di risorse dai cittadini al settore finanziario amplificando gli effetti recessivi della crisi.