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giovedì 11 aprile 2019

Uscire dal sottosviluppo: nuove strategie per l’economia del Mezzogiorno

Oggi su OpenCalabria:

http://www.opencalabria.com/uscire-dal-sottosviluppo-nuove-strategie-per-leconomia-del-mezzogiorno/?fbclid=IwAR3aGqc99xGooIoY8My2KJQObfFroIOrIGNkGfzoKNzSoDwpGiaxsa7hQH0

L’odierno Mezzogiorno. La condizione economica del Mezzogiorno risulta essere preoccupante sotto diversi profili, sia nel rapporto con le altre aree del paese che nel confronto con analoghe realtà europee. Sostanzialmente le regioni del Sud Italia risultano avere un tessuto produttivo debole e frammentato, una forte dipendenza dai trasferimenti pubblici, un tasso di disoccupazione (specie giovanile) più elevato della media nazionale ed europea, una forte emigrazione intellettuale, un ampio settore sommerso, una burocrazia farraginosa ed inefficace ed una presenza pervasiva della criminalità organizzata[1].
La caratteristica di questa situazione non è tanto relativa all’ampiezza dei divari (elevata) quanto alla relativa stabilità nel tempo dei divari stessi, il che suggerisce che un siffatto sistema economico abbia trovato una sua forma di equilibrio, un equilibrio di sottodimensionamento. La debolezza del tessuto produttivo, fatto di piccole e piccolissime imprese che non si mettono in rete non raggiungendo quindi una sufficiente massa critica per diventare distretti industriali, influenza la domanda aggregata condizionandone l’ampiezza a causa del basso valore aggiunto prodotto. La ristrettezza dei margini di profitto, a sua volta, genera un costante ricorso a varie forme di sommerso produttivo, che “integrano” la produzione e consentono agli individui a basso reddito di rifornirsi di merci a basso costo. Inevitabilmente la prevalenza di imprese che escono dal circuito legale per produrre in “nero” determinano una domanda aggiuntiva di lavoratori scarsamente qualificati[2]. L’emigrazione costante di persone con una qualificazione culturale elevata produce un danno cumulativo nel tempo, in quanto impoverisce strutturalmente il sistema economico meridionale, anche in relazione di svantaggio competitivo con le aree in cui i giovani meridionali qualificati vanno a lavorare, contribuendo ad aggravare il divario ed a renderlo persistente.
I dati pubblicati nel “The Global Human Capital Report 2017” evidenziano come siano proprio i lavoratori italiani con un livello di istruzione medio-alto a dare un contributo maggiore in termini di crescita del PIL, paragonabile a quello dei paesi più avanzati, mentre quelli a basso livello di istruzione danno un contributo inferiore, in proporzione, se paragonati agli omologhi dei paesi OECD. Si genera, quindi, un doppio circolo vizioso, da un lato le imprese meridionali non attraggono a sufficienza lavoratori qualificati, l’emigrazione di lavoratori “skilled” riduce la produttività del lavoro e quindi la competitività dell’intero “sistema economico Mezzogiorno”. L’emigrazione complessiva (di lavoratori qualificati e non) unita alla diminuzione della popolazione che ne consegue, riduce strutturalmente la domanda aggregata, e aumenta paradossalmente la domanda di sommerso, di merce a basso valore aggiunto, di lavoratori con bassi salari, innescando una spirale che non si fermerà autonomamente. Nella Figura 1, si evidenzia la divaricazione del numero di occupati fra Sud e Centro, cominciato prima della recente crisi economica, si è accentuato e poi stabilizzato, certificando che l’occupazione che viene persa nel Sud in genere non viene assorbita, anche quando le condizioni macroeconomiche generali migliorano.

Errori del passato e strategie per il futuro. A problemi noti sono stati contrapposte varie risposte dal punto di vista delle “politiche” nell’arco del tempo. Si è passati dagli embrioni dei programmi di lavoro garantito[3] degli anni ‘60 (per evitare lo spopolamento) al tentativo di industrializzare il Mezzogiorno con localizzazioni mirate di industrie negli anni ’70 (finanziate dal pubblico), al tentativo di promuovere nel meridione forme di crescita “endogena” basata su incentivi alla nascita di nuove imprese ed alla formazione, con decontribuzione, dei nuovi assunti (politiche finanziate con progetti statali ed Europei nel solco delle Strategie di Lisbona). Queste fasi si sono ormai concluse, lasciando un Sud Italia privo di un tessuto industriale pesante, con una prevalenza di piccole e micro imprese con un altissimo livello di nata-mortalità delle stesse legata al ciclo degli incentivi[4]. Il Mezzogiorno d’Italia si può rappresentare come una realtà post industriale senza che essa sia stata pienamente industriale, prova di questo sono le realtà nelle quali sono presenti i frutti avvelenati dell’industria, quali inquinamento presente e persistente a distanza di molti anni dalla fine dei tentativi di imporre lo “stato imprenditore”.
Appare evidente, quindi, che lo sviluppo del Mezzogiorno debba passare per un totale cambio di strategia. In particolare, nonostante il dibattito ed i tentativi di investimento, nel Meridione esiste oggettivamente un gap infrastrutturale difficilmente colmabile nel breve periodo, di conseguenza ipotizzare una crescita endogena che adegui la struttura industriare a quella media europea appare decisamente utopico. Sono possibili altre strade, in particolare,  quelle relative al coordinamento di strategie d’investimento miste finalizzate al supporto della trasformazione delle imprese legate al modello dell’Industria 4.0 sinergicamente al concetto di Economia Sostenibile.
I dati sono impietosi, in proporzione esiste un numero maggiore di giovani meridionali con titolo di studio che emigrano in quanto non esistono (o sono limitate) le opportunità di lavoro sulla base delle loro qualificazioni professionali (Rapporto Svimez, 2018 e precedenti[5]). Incentivare la trasformazione (anziché la nascita, o la localizzazione) delle imprese verso il modello della Smart Manifacturing potrebbe frenare il depauperamento qualitativo della forza lavoro nel Meridione. La “Fabbrica del Futuro” si basa sui paradigmi dell’Internet of Things, dei Manufacturing Big Data, sulle Wearable Technologies, l’Additive Manufacturing e le New Automations & Robotics. Sotto questo aspetto vi è da sottolineare che il ritardo nello sviluppo delle ICT non denota componenti territoriali ma appare omogeneo da Nord a Sud[6]. I concetti produttivi dell’Industria 4.0 hanno in comune caratteristiche che potrebbero essere applicabili anche in “questo” Mezzogiorno. Si tratta di industrie “leggere” che non hanno bisogno di investimenti in sovrastrutture fisiche, di conseguenza potrebbero essere implementate rapidamente, si basano sugli interscambi virtuali di informazioni, sulla condivisione e l’accrescimento delle stesse, un modello che ben si collegherebbe ad una realtà che possiede capitale umano all’avanguardia che deve soltanto essere messo in condizioni di lavorare. Questo cambiamento appare necessario in quanto, come si evince dalla Tabella 1, le regioni Meridionali sono tra le peggiori d’Europa dal punto di vista della dotazione infrastrutturale, e pertanto attendere un adeguamento a standard europei potrebbe necessitare di decenni.

Si è già detto che l’emigrazione dal Mezzogiorno d’Italia verso il centro nord e l’estero non stà più riguardando solo i lavoratori giovani e qualificati bensì anche fasce d’età più avanzate, si può porre rimedio collegando agli investimenti per la trasformazione produttiva anche al “recupero dell’esistente[7]”. Tra i vari effetti della desertificazione industriale in larghe zone del Meridione vi sono zone industriali semi abbandonate, frutto in larga parte di incentivazione pubblica. La cura del territorio, il recupero delle strutture esistenti da riutilizzare, sono attività ad alta intensità di lavoro che potrebbero effettivamente consentire di “reintegrare” almeno parzialmente il divario occupazionale che è sostanzialmente stabile tra nord e sud negli ultimi 20 anni[8].
Il rapporto dell’Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile (2018) non a caso segnala che i problemi che si stanno aggravando in Italia riguardano proprio la Povertà, l’Occupazione, la Condizione Economica, le Disuguaglianze e le condizioni delle Città. Investire nella lotta al degrado delle periferie cittadine, alle bonifiche post industriali attraverso il recupero infrastrutturale, consentirebbe in modo sinergico di ridurre strutturalmente il divario occupazionale e di porre le basi per uno sviluppo durevole basato anche sul recupero della domanda interna.
Conclusioni. In conclusione, una politica economica lungimirante per il Mezzogiorno dovrebbe basarsi su due direttive. La prima è quella di delineare un insieme di politiche economiche utili a consentire il passaggio dalla situazione attuale fatta di aziende piccole, che non fanno rete, con prevalenza di settori tradizionali, ad una caratterizzata da una prevalenza di aziende Smart. Il sud Italia è risultato essere periferico nel contesto europeo, per la distanza geografica con i grandi centri produttivi ed i grandi mercati, può invece ancora diventare centrale, in un contesto euro-mediterraneo, allorquando fosse in grado di rappresentare un modello di sviluppo ad alto contenuto tecnologico in cui la produzione materiale ed immateriale non dipenda dai limiti fisici e dimensionali di cui ha sofferto sin’ora. Questo passaggio deve essere necessariamente mediato da una modifica delle politiche economiche adottate e dal volume e qualità degli investimenti. In secondo luogo c’è ancora spazio per assorbire la disoccupazione generata dallo scarso peso dimensionale delle aziende nel Mezzogiorno, ovvero l’applicazione dei principi dello sviluppo economico sostenibile, che nel sud si devono declinare come interventi di recupero infrastrutturale e territoriale. Questi interventi devono essere necessariamente coordinati ed organizzati dal settore pubblico, ma avrebbero un ritorno immediato nel recupero della domanda aggregata derivante dai consumi di coloro che sarebbero altrimenti emigrati. Mentre a lungo termine si avrebbe un miglioramento strutturale nelle condizioni di vita nel Mezzogiorno, rendendolo vivibile e attrattivo, non solo per il turismo, ma anche per gli investimenti ad altro contenuto culturale e tecnologico.

[1] Si veda un mio precedente commento pubblicato da “La Voce.info” nel 2015 a proposito dei divari di produttività tra nord e sud https://www.lavoce.info/archives/37879/perche-il-sud-e-meno-efficiente/
[2] Si potrebbe dire con un basso “salario di riserva”.
[3] Ad esempio nel campo della forestazione, il massiccio impiego di lavoratori nel settore, sproporzionato in termini territoriali, è stato oggetto di dibattito politico fino alla fine degli anni ’80.
[4] Nel corso del I Trimestre 2018, in Calabria, il saldo annuale tra iscrizioni e cessazioni di imprese è stato di negativo per 421unità, dati Movimprese-Unioncamere.
[5] Si stima che negli ultimi 10 anni siano emigrati dal Meridione 500.000 persone, sul peso anche qualitativo dell’emigrazione intellettuale si veda Vecchione (2017).
[6]  Si veda la Nota diffusa dal Centro Studi di Confindustria sull’industria italiana 4.0, su dati del 2017.
[7] Secondo i dati Istat al 2017 erano più di 300.000 le abitazioni vuote nel Mezzogiorno, il recupero anche di abitazioni, oltre che di edifici industriali da riconvertire, potrebbe rappresentare una opportunità di sviluppo per le piccole imprese, prevalenti nel Sud.
[8] La persistenza della disoccupazione meridionale rispetto a quella del centro nord è da me discussa, su dati Istat, nell’articolo “Mezzogiorno senza reddito e senza cittadinanza” pubblicato da Economia e Politica nel 2018.

Riferimenti Bibliografici
ALLEANZA ITALIANA PER LO SVILUPPO SOSTENIBILE (2018). L’Italia e gli obiettivi di sviluppo sostenibile. http://asvis.it/rapporto-asvis-2018/#.
Bolto, A. (2013). Il Mezzogiorno italiano: forze di mercato o politiche economiche? Moneta e Credito, 43(172).
Martin, S., & Scott, J. T. (2000). The nature of innovation market failure and the design of public support for private innovation. Research policy, 29(4-5), 437-447.
Ortega-Argilés, R., & McCann, P. (2018). Smart Specialization, Regional Growth and Applications to European Union Cohesion Policy. In Place-based Economic Development and the New EU Cohesion Policy (pp. 51-62). Routledge.
Perri, S., & Lampa, R. (2018). When small-sized and non-innovating firms meet a crisis: Evidence from the Italian labour market. PSL Quarterly Review, 71(284), 61-83.
SVIMEZ (2018). L’economia e la società del Mezzogiorno. Il Mulino.
World Economic Forum. “The Global Human Capital Report” (2017). https://www.weforum.org/reports/the-global-human-capital-report-2017
Vecchione, G. (2017). Migrazioni intellettuali ed effetti economici sul Mezzogiorno d’Italia. Rivista Economia del Mezzogiorno, SVIMEZ 3-2017, Il Mulino, Bologna.


Salvatore Perri

Salvatore Perri

Economista Indipendente, esperto di Analisi delle Politiche Economiche Internazionali, attualmente Professore a Contratto di Politica Economica presso l'Università della Magna Graecia di Catanzaro. Ha pubblicato ricerche su riviste nazionali ed estere. Alcuni suoi contributi sono stati pubblicati dal blog della London School of Economics, La Voce.info ed Economia&Politica. E' membro dell'International Institute of Global Economy e del Board of Experts della BBC. Tra i suoi temi di ricerca: Il rapporto Finanza-Crescita, le Teorie Macroeconomiche, il Mezzogiorno, l'Euro e le Politiche Europee.

venerdì 4 dicembre 2015

Produttività a Sud: intervista a Salvatore Perri. Corriere del Mezzogiorno Economia 9 Novembre 2015

Esistono divari di produttività tra Centro Nord e Sud? In che percentuale e in quali settori economici? Secondo Svimez, nell'industria e in agricoltura. E’ d’accordo?
“Che esista un divario di produttività fra aziende del Nord e del Sud è innegabile, ma attribuirne le cause a un fattore specifico e quantificarlo è molto difficile - spiega Salvatore Perri, giovane economista calabrese che ha studiato il tema. PhD in Economia Applicata ed MSc in Economics all’Università inglese di Southampton, autore del blog “Impunito”, esperto di analisi delle politiche e teorie macroeconomiche, collabora con vari centri di ricerca, in Italia e all’estero, tra cui Basic Income Network e Idea - Nel Sud è prevalente la piccola impresa che raramente fa rete con le altre, questo secondo l’Istat spiega i divari di produttività. Se poi consideriamo che la dotazione di infrastrutture è costantemente inferiore a quella settentrionale da 30 anni si capisce che può essere fuorviante confrontare la produttività aziendale. Ci sono settori in cui la crisi colpisce in maniera differenziata perché più esposti alla domanda esterna, per questo l’industria al Sud e l’agricoltura pagano un prezzo più alto”.
 Quanto incide nel Mezzogiorno il lavoro nero e l'economia sommersa sui divari di produttività e sul costo del lavoro differenziato per aree?
“La presenza del sommerso agisce negativamente sull’intero apparato produttivo sia dal lato delle imprese che dei lavoratori. Le aziende regolari subiscono la concorrenza sleale di quelle sommerse, per farlo abbassano i salari. I bassi salari, insieme alla difficoltà di effettuare investimenti, peggiorano la qualità del lavoro nel Sud. E’ un circolo vizioso che estende i suoi effetti anche ai consumi, perché bassi salari accompagnano un basso livello di domanda aggregata”.
Il tema dei divari di produttività può essere affrontato agendo sul costo del lavoro ma anche intervenendo sulle imposte. Al Sud addizionali e Irap sono più elevate. Non servirebbe una Fiscalità di vantaggio per attrarre investimenti esterni nel Sud?
“Perché gli investimenti esteri arrivino è necessario agire sulle infrastrutture, sulla cornice giuridica e sul contesto socioeconomico. La lentezza dei processi civili scoraggia le imprese estere più di un punto di Irap. Fare concorrenza su questo terreno non ha senso, perché i costi sarebbero comunque superiori a quelli dei paesi dell’Est Europa o di quelli asiatici. Bisogna fornire servizi di supporto, certezza del diritto, fruibilità infrastrutturale, allora arriveranno investimenti esteri e non solo”.
 Le politiche di contesto, soprattutto il costo del denaro, quanto incidono sui livelli di produttività?
“La burocrazia pubblica è vista come nemica dell’impresa, non dovrebbe esserlo, bisogna attuare riforme che la rendano un attore attivo nel sostegno alle imprese, costante e non legato al controllo sanzionatorio. Il Sud non ha più da tempo un sistema bancario autonomo, le aziende pagano tassi d’interesse alti, dovuti ai crediti in sofferenza. Bisogna mettere in comunicazione la burocrazia, con le organizzazioni di categoria ed i sindacati, creare così una forma di supporto e monitoraggio che aiuti il sistema bancario a dividere i buoni dai cattivi e sostenere la crescita delle aziende sane che è il vero problema specifico del Mezzogiorno”.
Il costo del lavoro nel Sud si può abbassare con sgravi contributivi maggiori rispetto al resto del Paese. Se nel corso del dibattito parlamentare si cambiasse la legge di Stabilità per lasciarli interi solo al Sud come nel 2015?
“Sono contrario agli sgravi contributivi in generale, soprattutto per quanto riguarda i giovani. Si possono creare buchi di bilancio e si eliminano quei contributi che sarebbero più pesanti al momento del pensionamento. Allungare i tempi degli sgravi vuol dire rimandare il momento in cui l’azienda deciderà se è il caso di tenere il nuovo lavoratore a costo pieno o se mandarlo via, ma questa decisione dipende dalle condizioni economiche dell’azienda, non dalla volontà dell’imprenditore. Se l’Italia torna a crescere allora le imprese faranno profitti e possono tenere i neo assunti, altrimenti ci ritroveremo nella stessa situazione di prima, Nord o Sud non fa differenza in questo caso. Sarebbe molto meglio agire per ridurre strutturalmente il cuneo fiscale, ma credo ci siano problemi di risorse per poterlo fare”.

EMA.IMPE.
©RIPRODUZIONE RISERVATA

mercoledì 12 novembre 2014

Le concentrazioni bancarie hanno alimentato il dualismo Nord-Sud



Salvatore Perri


Prendendo in considerazione il periodo antecedente la crisi (1989-2007)[1] balza immediatamente agli occhi una sostanziale omogeneità territoriale del saggio di risparmio delle famiglie italiane: sostanzialmente da Nord a Sud non esiste una diversità “culturale” nella scelta fra risparmio e consumo. Inoltre, sorprendentemente, la regione che ha sviluppato il maggior tasso di crescita del numero di sportelli è la Campania. Se interpretassimo questi dati solamente sulla base della teoria economica standard, ci dovremmo aspettare una sostanziale omogeneità anche negli altri parametri finanziari, ma è proprio qui che i dati ci raccontano un’altra storia.

Sempre secondo la teoria standard, risparmio è la base dell'investimento, ma nel tragitto che porta la ricchezza a trasformarsi intercorrono relazioni fra molte variabili, non sempre controllabili, connesse alla “stabilità macroeconomica”[2]. In un contesto macroeconomicamente stabile, vi è un’orizzonte temporale relativamente certo in cui pianificare i propri progetti di investimento e richiedere agli intermediari finanziari le risorse a tassi “possibili”. Per contro, laddove il contesto è incerto, per l’azione di fattori socio-economici incontrollabili, l’investimento diventa un azzardo. Questo appare essere il caso del Sud in cui a fronte di saggi di risparmio omogenei le sofferenze raggiungono quasi il doppio rispetto alle regioni del centro-nord[3]. Criminalità, settore sommerso, pervasività della corruzione a tutti i livelli agiscono come elementi in grado di creare una distorsione dei flussi finanziari. Pertanto il risparmio ha più difficoltà ad essere “convertito” in investimento, almeno in loco.

Il periodo considerato è ricco di “riforme” che hanno riguardato il settore Bancario. Senza entrare nello specifico, la spinta a competere in un mercato aperto ha comportato l’aggregazione dei gruppi bancari, fusioni acquisizioni e partecipazioni incrociate. Inoltre, è finita sostanzialmente la spinta diretta dello Stato nell'indirizzare lo sviluppo industriale del Sud, sia per quanto riguarda gli investimenti diretti sia per quanto riguarda la via surrogata della Cassa per il Mezzogiorno. Il ridotto flusso finanziario pubblico e le difficoltà strutturali dell'economia reale si sono quindi trasmesse al settore finanziario comportando la sostanziale scomparsa di un sistema finanziario meridionale autonomo[4].

Ci si aspettava che la riorganizzazione del settore bancario, sotto la spinta delle normative europee, comportasse un miglioramento nell’efficienza del credito erogato, ma quando si analizzano realtà territoriali disomogenee il risparmio di costo può determinare una selezione territoriale deludente nella distribuzione del credito. Questo è quello che sembra essere avvenuto. Le banche si sono accorpate, i centri decisionali sono stati spostati pressoché interamente al Centro-Nord e le filiali distribuite capillarmente nel territorio del Sud rimangono quasi esclusivamente con la sola funzione di raccolta. Il credito viene erogato anche al Sud, ma solo a condizioni estreme rispetto al Centro-Nord. E ciò comporta che si privilegiano al Sud gli investimenti a più alto coefficiente di rischio, che di conseguenza, hanno una percentuale di riuscita minore.

Così si è alimentato ulteriormente il circolo vizioso che acuisce le distanze fra Nord e Sud. L'intervento pubblico termina, i consumi pubblici diminuiscono e questi ultimi sono significativi nello spiegare i divari territoriali. La convergenza in termini di crescita non c’è, i miglioramenti nell’efficienza di costo del settore bancario sono stati pagati da un’ulteriore stretta creditizia nei confronti dei residenti nelle regioni del Sud. Non si interviene sulle condizioni strutturali del divario: l’inadeguatezza dell’apparato produttivo, l’insufficienza delle infrastrutture materiali e immateriali, la criminalità, la corruzione. Così chi si ostina a fare impresa riceve una doppia penalizzazione, perché paga tasse in linea con la media nazionale ma quando si rivolge al mercato del credito ottiene una risposta discriminata territorialmente. In questo contesto, anche i fondi europei hanno dimostrato scarsa efficacia, seppure con lodevoli eccezioni[5].

Il settore finanziario “subisce” le ragioni reali del dualismo Nord-Sud, e il conseguente divario di rischiosità, riflettendole nelle condizioni di credito. E se i centri decisionali sono posizionati altrove risulta ancora più difficile che ci sia una spinta ad investire sul rischioso e sull'incerto. Le cause del divario Nord-Sud sono di carattere reale e il settore finanziario le asseconda: per queste ragioni le risposte politiche dovrebbero partire da questa consapevolezza.







[1] S. Perri, Gli effetti delle trasformazioni del sistema bancario sulla crescita economica delle regioni italiane, in "Rivista economica del Mezzogiorno" 1-2/2014, pp. 155-186, doi: 10.1432/77791
[2] Rousseau e Wachtel (2002).
[3] Elaborazioni su dati Banca D'Italia, base informativa pubblica on-line.
[4] Zazzaro (2006).
[5] Come segnalato, tra gli altri, da Viesti.