Salvatore
Perri
Abstract
Coloro
che si ostinano a chiedere la fine dell’austerità, rivelatasi inefficace,
vengono spesso accusati di assumere posizioni ideologiche irrazionali. In
realtà i basamenti teorici su cui si fondano le recenti politiche economiche
europee sono fragilissimi. Attendersi la crescita dall’austerità e dalla
depressione economica appare oggi irrealistico, almeno quanto lo è stato nel
passato.
Le ultime vicissitudini del governo Monti, i dati
terrificanti sulla produzione, sul livello di attività economica e soprattutto sulla
disoccupazione, mettono in discussione i fondamenti teorici (classici e
neoclassici) delle politiche economiche adottate, decretando il fallimento dell’austerità
come soluzione alla crisi.
Mi sono già soffermato nei miei precedenti articoli (in
tempi non sospetti) sull’inefficacia delle politiche di austerità, in
particolare, spiegando l’assenza di un qualsiasi legame (anche ipotetico) fra
riduzione della spesa ed aumento degli investimenti, sull’inefficacia dei tagli
alla spesa per ridurre il debito e sull’inefficacia delle azioni sul mercato
del lavoro per rilanciare l’occupazione.
Semplificando, in primo luogo, non è detto che una
riduzione del debito comporti un miglioramento della posizione relativa dell’Italia
in termini di attrattività degli investimenti privati (nazionali ed esteri).
Una parte consistente degli investimenti non dipende dal tasso di interesse
(investimenti autonomi), bensì dalle prospettive di profitto che in Italia sono
calate drasticamente dalla fine degli anni ’70.
Secondariamente, una riduzione della spesa pubblica
è immediatamente recessiva, sia nel primo periodo che, cumulativamente, in
quelli a seguire. Di conseguenza il Pil tende a ridursi in tutti i periodi e
paradossalmente il debito continua ad aumentare nonostante i tagli.
In ultimo, ma non per importanza, le c.d. “riforme” del mercato del lavoro hanno
aumentato la disoccupazione anziché ridurla per il semplice motivo che un
sistema economico afflitto dalla presenza del lavoro sommerso e dalle molteplici
forme flessibili di contratto, difficilmente può essere riequilibrato con
ulteriori flessibilizzazioni del mercato. Soprattutto in piena recessione
economica quando le imprese licenziano e non assumono.
In sostanza “l’austerità espansiva” ci ha regalato
conti “apparentemente” in ordine (appesi ad un filo) in cambio di meno consumi,
più disoccupazione e più debito.
Ma non è finita qui, il substrato teorico delle
politiche neoclassiche e monetariste che ha guidato la BCE ed il governo Monti
include anche un principio ancora più radicale, il c.d. “Effetto Pigou”.
Secondo questo classico pre-keynesiano la
disoccupazione e la deflazione avrebbero avuto un freno automatico in qualunque
sistema economico, che magicamente sarebbe ritornato a crescere per effetto di
due fattori.
In primis, la disoccupazione avrebbe generato una
riduzione dei salari che avrebbe reso il lavoro meno costoso spingendo le
imprese ad assumere.
In secondo luogo la caduta dei prezzi avrebbe
aumentato il potere d’acquisto della moneta spingendo i consumatori ad
acquistare più merci.
L’insieme di questi due effetti sarebbero in grado
di ripristinare la crescita.
Il primo ostacolo importante a queste mirabolanti
affermazioni si ritrova nella crisi del ’29, quando i prezzi calarono la
disoccupazione negli USA toccò i suoi massimi ed il sistema economico continuò
a precipitare. In pratica, gli imprenditori spaventati non investirono, a causa
dell’assenza di prospettive di profitto, le aziende continuarono a chiudere
licenziando, e le merci semplicemente scomparvero dai mercati, quindi nessuno
dei due effetti entrò mai in funzione.
Il capitalismo fù salvato dall’intervento statale e
dalle politiche espansive, ma questa è storia nota.
Oggi l’effetto Pigou potrebbe manifestarsi? I suoi
sostenitori osservano che la disoccupazione era determinata dalle “innaturali”
leggi sul salario minimo e dall’art. 18. Rimossi questi vincoli i miracoli sarebbero
possibili.
Purtroppo non è così, per le identiche ragioni che
decretarono la fine dell’economia classica dopo il ’29 statunitense.
Meno salari comportano meno consumi, meno reddito,
meno produzione. Le aziende chiudono e chi detiene ricchezza speculativa non
investe perché non ci sono prospettive di profitto. Nel frattempo che si
attendono i miracoli il capitale inutilizzato (capannoni, macchine, abilità dei
lavoratori) si deprezza rendendone ancora più complicato il ripristino.
Uno straordinario saggio di Keynes, ancora
attualissimo, parlava dell’assurdità dei sacrifici.
Speriamo di non dovere pagare ancora a lungo la
cieca obbedienza dei decisori delle politiche economiche alla speranza della
risurrezione di Pigou.
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