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mercoledì 13 maggio 2015

Il Reddito di Base in Italia. Intendimenti e fraintendimenti.

Oggi sul BIN Italia http://www.bin-italia.org/article.php?id=2012

di Salvatore Perri

Nel proseguo del dibattito su una qualsiasi forma di reddito di base da introdurre in Italia aumentano i contributi ma si moltiplica anche la confusione, pertanto è utile continuare a ragionare sui fraintendimenti piu' comuni, sia che arrivino dal mondo istituzionale sia che vengano da ambienti accademici e giornalistici.
Quale forma di reddito di base? Su questo punto c'è molta confusione.

Il punto fondamentale è distribuire diversamente il reddito dalla fiscalità generale, non redistribuire (quindi togliere a qualcuno per dare a qualcun altro). La questione non è semantica, nel bilancio dello stato ci sono mille rivoli, inclusi gli sgravi fiscali, gli ammortizzatori sociali (spesso in deroga) e trasferimenti piu' o meno giustificabili, si tratterebbe di prevedere il reddito di base o il reddito minimo venga scorporato "prima" di arrivare alle voci successive. Le varie forme di reddito di base vanno da quello universale rivolto a tutti (Basic Income) fino a forme di reddito minimo garantito (RMG) che tendono ad "integrare" altri redditi fino al raggiungimento della soglia di povertà relativa. E' chiaro che quello che si potrà fare dipenderà, anche, dalla situazione dei conti pubblici italiani.

Lavoro e reddito? Non torno negli stessi termini su questioni già affrontate, ma è evidente che, da qualunque punto di vista la si consideri, nelle società moderne e postmoderne non ci sarà lavoro per tutti, anche per via del progresso tecnologico e della globalizzazione economica, ma soprattutto perché è esistita da sempre una quota di "disoccupazione ineliminabile". Le ragioni sono contemplate in qualunque manuale macroeconomico. Alcuni disoccupati non sono compatibili con le attuali qualifiche richieste nel mondo del lavoro, e non parlo di metalmeccanici che dovrebbero imparare un particolare software, ma dell'analfabetismo di rientro che ormai colpisce un buon numero di giovani adulti che abbandonano la scuola o conseguono diplomi "una tantum" dallo scarso valore culturale. Altri disoccupati sono incompatibili territorialmente con i lavori offerti oppure fanno lavori che sono esclusivamente stagionali (agricoltura, turismo etc.). Inoltre esiste sempre un periodo di "vacanza" tra la vecchia e la nuova occupazione per chi perde un lavoro. Va da se che ogni economista degno di questo nome si sia cimentato a studiare il c.d. Tasso Naturale di disoccupazione, che è quello che si osserva durante i periodi di pieno impiego (vero o ipotetico). Questo valore varia nel tempo, ma esiste sempre, dal 6% al 7% al 12% (i piu' radicali sono i teorici del c.d. Real Business Cycle), è comunque una quantità enorme. Di questi disoccupati cosa si fa? Si assume che siano antropologicamente inferiori perché non hanno trovato lavoro? Oppure si creano miriadi di corsi di formazione inutili e costosi che non hanno creato un solo posto di lavoro? Offrire una forma di reddito a queste persone le rende nuovamente "produttive" seppur in modo indiretto, in quanto sarebbero in grado di "giustificare" una parte delle merci prodotte dal sistema economico (il che combatte la caduta della produzione), potrebbero dedicarsi alla cura di se stessi, anche perseguendo percorsi culturali, artistici, potrebbero dedicarsi alla cura delle persone vicine o potrebbero dedicarsi a forme di volontariato sociale, ma allo stesso tempo condurrebbero una vita dignitosa ed indipendente.

Lavoro o reddito? L'alternativa "lavorista" è quella che vuole necessariamente che chi riceve un reddito vada a fare un lavoro deciso centralisticamente, spesso inutile, ma che comunque (non si capisce bene secondo chi) darebbe maggiore dignità al reddito. Partendo dal presupposto che tali "lavori" andrebbero "organizzati" dando fiato ai peggiori istinti della burocrazia italiana, l'esperienza degli LSU ed LPU ha chiarito che in Italia queste cose non funzionano, perché burocrazia e politica si inseriscono nelle varie fasi di questo percorso rendendo questi lavori piu' virtuali del reddito di base. In piu' queste forme di lavoro sussudiato sono "selettive" ma spesso senza criterio, per cui sono proprio idonee a fomentare forme distorsive e clientelari che con il reddito di base ci si propone di combattere.

Pago adesso o pago dopo? Altra questione è che una forma di reddito di base è vista come "improduttiva" come premio all'ozio oppure addirittura come disincentivo al lavoro. A parte che i primi esperimenti condotti da Guy Standings in villaggi africani ed indiani dicono il contrario, e cioè che chi riceve il reddito lavora di piu', siamo sicuri che una tal misura deprimerebbe la produzione? In primo luogo non stiamo parlando di redditi enormi, le varie proposte vanno da 600 euro mensili a 720, di conseguenza il soggetto ricevente che ambisce a qualcosa di piu' continuerebbe a cercare lavoro per integrare. Ma supponiamo che il ricevente consideri sufficiente il reddito di base e non cerchi lavoro. Sicuramente il soggetto consumerebbe gran parte se non tutto il reddito ricevuto (il consumo è decrescente rispetto al reddito, una delle poche realtà incontrovertibili della teoria economica). Pertanto egli "rimetterebbe in circolo" quanto ricevuto in via istantanea, rianimando l'economia circostante. Ricordiamo che Italia e Grecia, che non avevano un reddito di base, sono gli stati che fanno piu' fatica ad uscire dalla crisi. Inoltre, avere o non avere reddito, influisce sulla qualità della vita di questi soggetti, stress e cattiva alimentazione possono contribuire all'insorgere di patologie, che scaricherebbero comunque sullo stato, a costi maggiori, visto che la sanità in Italia è pubblica. Tra gli altri effetti indiretti ci sarebbe quello di garantire un minimo di coesione sociale anche nei piccoli centri che continuano a spopolarsi, appunto per l'assenza di opportunità di lavoro.

Libertà e legalità. La disoccupazione è un bacino elettorale storicamente irrinunciabile, un reddito di base libererebbe molti elettori dal vincolo di cercare il referente politico (o sindacale) di turno. Inoltre collegando il reddito di base al godimento dei diritti civili e politici si darebbe un forte disincentivo alla criminalità, in quanto tra il vivere legalmente e non, il discriminante molto spesso è proprio il reddito. Altro fattore dirimente è lo sfruttamento del lavoro nero, chi possiede il reddito chiederebbe lavori tutelati dalla legge, non essendo piu' sottomesso allo sfruttamento di quella minoranza di imprenditori sconosciuti al fisco. Questo riequilibrerebbe anche i rapporti fra le imprese, in quanto quelle che fanno concorrenza sleale a basso costo sarebbero svantaggiate nel trovare manodopera.

Ci sono le risorse? Il dibattito sull'adeguamento delle pensioni all'inflazione e la recente sentenza della Consulta, chiarisce questo punto in maniera definitiva. Il blocco all'adeguamento delle pensioni per quelle superiori a 1400 euro mensili valeva 16 Miliardi, piu' o meno quanto servirebbe per una forma intermedia di reddito minimo. Pur supponendo che il governo debba restituire una parte di questi soldi, appare chiaro che rimodulando proprio le pensioni piu' alte (sfruttando il principio costituzionale della "progressività delle imposte"), e mettendo ordine nella giungla degli attuali ammortizzatori in deroga (spesso elargite verso aziende che mai hanno prodotto nulla, e che oggi vedono i lavoratori percepire la cassa integrazione in deroga e magari lavorando in nero) le risorse potrebbero essere reperite, senza che questo determini necessariamente lo sforamento dei vincoli di bilancio.

In conclusione, una forma di reddito di base, oltre ad essere un segno di civiltà: è produttivo economicamente, è conveniente finanziariamente, favorisce la lotta alla criminalità organizzata ed al lavoro nero, combatte la corruzione, favorisce la "ricostruzione" del tessuto sociale attraverso la spinta all'inclusione di soggetti ad oggi emarginati.

venerdì 15 febbraio 2013

Quale Lavoro e quale Reddito: Italia 2013



Salvatore Perri

Abstract

E’ un luogo comune piuttosto diffuso quello che vuole il Lavoro ed il Reddito in contrapposizione fra loro. Senza lavoro non può esserci reddito, il reddito assegnato senza una contropartita distrugge il lavoro. Nell’Italia del 2013, che ha un passato ed ha un futuro, le tendenze macroeconomiche e socio-politiche certificano l’esatto contrario. Senza reddito non ci sarà lavoro ed il declino italiano sarà irreversibile.

Quale lavoro. E’ impossibile ricostruire in poche righe la storia industriale italiana. Tutti sanno che dalla fine degli anni 70 è cominciato un sostanziale smantellamento della grande industria del nord-ovest, rimpiazzato in parte dal “miracolo” dei distretti industriali del NEC (nord-est, centro). Molti studiosi si sono soffermati sulla natura di questi distretti, enfatizzandone gli aspetti peculiari. Ai nostri scopi è essenziale affermare che tutte queste trasformazioni sono state “labour saving” ovvero, i progressi tecnologici hanno consentito di risparmiare lavoro. Viene prodotto un maggior volume di produzione con un minore impiego di lavoratori. Maggior reddito più disoccupazione. Parallelamente la dimensione media dell’industria è diminuita ed il peso dei lavoratori sindacalizzati si è contratto di conseguenza. Meno lavoro, minore influenza dello stesso nella società. Il sud (alcune parti di esso) in questa storia ha un destino a se stante, seppur funzionale allo sviluppo del nord-est, esso è stato un mercato protetto per le merci settentrionali finanziato in larga parte dai trasferimenti statali (sotto forma di finanziamento di lavori non direttamente produttivi o pensioni). 

Le risposte politiche. Rispetto alla condizione che si delineava la politica ha risposto con provvedimenti inadeguati. Maggiore disoccupazione? Si cambiano i contratti rendendoli “flessibili”. Questo ha fatto sì che da un lavoro a tempo indeterminato ne scaturissero un paio a tempo determinato, ma con un minor monte salari complessivo, senza che ciò comportasse un’inversione della tendenza. Rispetto alle imprese le politiche sono state di 2 tipi: detassare gli straordinari e spingere ogni disoccupato a creare una nuova impresa. Entrambe le politiche si sono rivelate fallimentari. Incentivare gli straordinari determina un ulteriore risparmio di lavoro, mentre le nuove imprese in un mercato asfittico non hanno margine di sviluppo, come è dimostrato dalla notevole mortalità nel primo anno di attività delle stesse.

Le Risposte Politiche 2. In termini di risposta a questa crisi, a livello ideologico si è pensato di competere al ribasso sui salari, raggiungendo l’equilibrio dei conti attraverso tagli al welfare, alla scuola ed università (solo pubblica). A livello locale invece, la classe politica ha capito perfettamente come sfruttare le debolezze del contesto normativo nazionale ed europeo. In passato c’è stato un abuso di finanziamenti statali volti alla creazione di “finti” lavori. Più o meno le buche Keynesiane per intenderci (fondi agricoli, Forestazione, LSU, LPU). La logica è lavorista, non puoi ricevere reddito se non fai nulla. In pratica questi lavori erano produttivi in modo indiretto (come con il Reddito D’Esistenza) con la differenza che questo meccanismo ha alimentato negli anni il mercato delle vacche politico-elettorali. Il passato ritorna oggi in altre forme, stessi risultati. Il settore pubblico non può assumere? Si creano società miste pubblico-privato che assumono, sempre sotto dettatura politica, poi poco conta se i lavoratori non lavorano e le società vengono chiuse con passivi da debito di guerra. L’importante è essere fintamente lavoratori, almeno per un giorno, per poter iniziare la vertenza sindacale ed usufruire della cassa integrazione. Stesso discorso per gli incentivi alla nascita delle imprese, diceva un vecchio adagio “se tutti fanno la pasta, ognuno mangia la sua”. Il mito delle imprese che creano sviluppo (sempre) esiste dai tempi della legge degli sbocchi di Say, il problema è che fù confutata da Keynes e sotterrata dalla grande depressione, ma evidentemente esercita un certo fascino ancora oggi, soprattutto in chi non conosce la storia. L’incentivo alla nascita di nuove imprese non è sempre sbagliato, lo è quando i mercati sono saturi. Se manca la domanda aggregata le nuove entranti devono dividersi la scarsa domanda con le imprese che già ci sono, le quali hanno un vantaggio competitivo dall’essere già sul mercato (Microeconomia livello “basic”). Di conseguenza le imprese create per produrre grazie all’incentivo muoiono spesso nei primi mesi di vita. Le imprese create per distrarre fondi pubblici (o comunitari) chiudono appena gli incentivi vengono riscossi, a volte senza neanche aprire i capannoni. In questi casi avviene il miracolo del lavoratore che deve iniziare la vertenza contrattuale avendo prodotto per “zero ore”.

“Diamogli la canna da pesca.” Un altro dramma tutto locale, si compie quando vengono applicate le “best practices” europee al mercato italiano. La strategia di Lisbona, tra le altre cose, proponeva di riqualificare i lavoratori attraverso la formazione permanente, si finanziano quindi corsi di formazione “purchessia” nelle regioni svantaggiate. Concetto giusto applicazione sbagliata. In primo luogo è paradossale che si finanzino corsi anche all’esterno degli enti di formazione preposti (scuole ed università) mentre gli stessi vengono deprivati di risorse. Ma a parte l’illogicità di un tale approccio, questi corsi passano per la mediazione politica che indirizza le risorse, non effettua controlli, non effettua indagini di mercato per sapere di quali figure c’è bisogno. In buona sostanza i corsi di formazione servono a stipendiare passivamente gli enti formatori, i loro dipendenti e gli studenti che ricevono l’incentivo orario. Esiti di questi finanziamenti? Risibili, se non altro perché al termine del periodo di fruizione dei fondi comunitari per la formazione (2008-2013) la disoccupazione stà toccando i suoi picchi proprio nelle regioni svantaggiate. Per sfatare la metafora si può dire che è inutile che mi insegni a pescare e mi dai la canna da pesca se poi mi mandi in un lago senz’acqua in cui quelli prima di me hanno pescato con l’esplosivo. Anche qui c’è un paragone storico da non sottovalutare, la logica della canna da pesca è stata utilizzata nei magici anni ’80 per giustificare gli aiuti allo sviluppo in Africa, aiuti che spesso si concretizzavano in megatangenti ai politici e traffici di scorie radioattive.

La (quasi) fine del lavoro salariato. Ci troviamo di fronte ad una condizione nella quale il lavoro subordinato come concetto è dequalificato sul piano valoriale. Deve essere retribuito meno, ma chi guadagna meno vale anche meno (nella società moderna siamo ciò che abbiamo). Il lavoro salariato è contemporaneamente uguale e diverso, in termini di trattamento economico e di mansione svolta, il precario svolge la stessa mansione del collega a tempo indeterminato ma non ha gli stessi diritti. Il finto lavoratore, cooptato con logiche politiche, ha gli stessi diritti degli altri pur non essendo un lavoratore. Il lavoro è un semi-diritto, in quanto non c’è e non ci sarà per tutti, ma coloro che non lo hanno meritano il discredito sociale per questo (sono portatori individuali di colpe sociali), anche perché non sono stati in grado di costruire relazioni per averlo (o non hanno voluto pagarne il prezzo). In sostanza anche la libertà del lavoratore-individuo diventa un valore negativo.

Conclusioni. Riassumendo, il mercato del lavoro si comprime dal punto di vista dimensionale perché c’è una tendenza alla riduzione del lavoro impiegato. Il lavoro che rimane viene ripartito in modo arbitrario in una tripartizione fra lavoratori salariati veri, lavoratori sussidiati e precari (veri o sussidiati anch’essi). In ogni caso le politiche adottate comportano una riduzione complessiva dei salari erogati. Viene così meno una parte della domanda interna ed una parte della produzione cessa di essere “giustificata”. Si determina una ulteriore diminuzione del lavoro necessario e la spirale ricomincia, potenzialmente senza limiti. Si può interrompere questa spirale in due modi complementari fra di loro: redistribuendo il lavoro delle aziende ancora produttive in modo da aumentare il numero dei lavoratori attivi, riconoscere i finti lavori per quello che sono, riconducendo le miriadi di forme di sussidio ad una unica forma di Reddito d’Esistenza da attribuire a tutti coloro che non godono di un contratto “dignitoso”. Si interromperebbe la caduta della produzione, dell’occupazione, ma anche la perdita di competitività dovuta alla presenza del lavoro sussidiato e delle corruttele che lo determinano.



venerdì 18 gennaio 2013

E Beppe Grillo scoprì il Basic Income (Reddito D'Esistenza)

di Salvatore Perri

Mi ha molto impressionato sentire Beppe Grillo parlare di Reddito D'Esistenza, dopo che per mesi i suoi cavalli di battaglia in campo economico erano l'uscita dall'Euro o la Decrescita.

Ma in questa battaglia di civiltà, combattuta fino ad oggi in Italia solo dagli studiosi del Basic Income Network e da alcuni movimenti della c.d. "sinistra estrema", più siamo e meglio è. Pertanto approfitto della nuova popolarità di un argomento relegato solitamente al margine del dibattito, per riproporre il mio contributo del Luglio 2012 che serve a sfatare alcuni dei luoghi comuni sul Basic Income.

L'ora del Basic Income

di Salvatore Perri 

La profonda crisi economica odierna viene combattuta con armi spuntate dal governo Monti e con scarsissima lungimiranza dalle istituzioni europee. Le alternative al disastro non si limitano, tuttavia, a proposte estemporanee di uscita dal sistema solare o di ritorno all'età della pietra. Esistono strumenti per la politica economica che sono in grado di ripristinare un sistema economico con un maggior livello di equità senza passare per l'abbandono degli attuali livelli di benessere collettivo. Uno di questi, largamente studiato ed applicato all'estero, è il "Basic Income" (letteralmente reddito di base o tradotto in italiano come Reddito d'Esistenza).

Il Basic Income, a cui farò riferimento, è una somma monetaria assegnata dalla fiscalità generale  o in modo universalistico o ad un gruppo di individui che rientrino in determinate categorie, ad esempio reddituali.
Dal mio punto di vista il modo più efficiente per discutere brevemente questo strumento è quello di rispondere alle più comuni obiezioni errate che emergono nel dibattito, successivamente elencherò alcuni dei possibili benefici per il "sistema Italia", rinviando per una trattazione sistematica ed analitica del tema agli scritti di Andrea Fumagalli.

1.     L'attribuzione di una somma di denaro ad una tale platea di individui è impossibile dati i vincoli di bilancio. Falso, secondo alcune stime, portare il reddito delle persone residenti in Italia al di sopra della soglia di povertà costerebbe all'anno 11 Mld di Euro, circa 1/3 delle manovre estive di Tremontiana memoria. In politica economica c'è sempre una scelta, si tratta solo di investire in modo diverso soldi che vengono spesi comunque.


2.     Pagare i disoccupati li disincentiva a cercare lavoro. L'obiezione è corretta ed anche anglosassone, ma applicata all'Italia è priva di senso. I disoccupati italiani sono in larga parte giovani (nel sud) donne e di lunga durata (anche quando non lavorano nel settore sommerso). Attribuire un reddito, ad esempio di 600 euro mensili, non disincentiverebbe il disoccupato a lavorare per raggiungere soglie più alte, disincentiverebbe esclusivamente lo sfruttamento del lavoro, l'abuso di contratti precari, le simulazioni contrattuali. Il lavoratore avrebbe un'altra scelta, mentre alle imprese irregolari verrebbe a mancare lo strumento con il quale fare concorrenza sleale a quelle regolari.

3.     Una tale forma di retribuzione è improduttiva, le stesse somme potrebbero essere utilizzate per incentivare le imprese a creare lavoro vero. Per rispondere a questa obiezione bisogna discutere che cosa è produttivo e cosa non lo è, nell'esperienza italiana in particolare. Nella definizione di Fumagalli il Basic Income è una retribuzione per tre tipi di attività che gli individui già fanno, ma che non possono scambiare. La cura (di se stessi e degli altri non autosufficienti), il consumo e tutte quelle tipologie di lavoro intellettuale, artistico ed immateriale, che non determinano un ritorno economico (studenti, studiosi ed artisti tra gli altri). Il consumo è produttivo in modo indiretto, in quanto fornisce la giustificazione a produrre un determinato quantitativo di merci che altrimenti non verrebbe prodotto, non stiamo parlando di beni di lusso ma di "consumo autonomo" necessario per vivere nell'accezione Keynesiana. Senza la domanda l'offerta è priva di senso e cessa di essere, generando nuova disoccupazione. Il Basic Income frena questa dinamica molto più dell'incentivo alle imprese. Quando i mercati sono saturi e non ci sono prospettive di profitto le imprese non investono, forzarle a farlo non ha senso. L'Italia, ed il sud in particolare, ha sperimentato flussi di incentivazione all'impresa probabilmente senza eguali nella storia del mondo moderno, i risultati sono sotto gli occhi di tutti, ed in particolare della magistratura, sarebbe ora di cambiare approccio.

4.     Il Basic Income è incompatibile con il libero mercato. In un qualsiasi manuale di Economia, sin dagli albori dell'Economia Politica, nell'analisi dell'equilibrio di scambio, si sottolinea che l'equilibrio efficiente a volte può non essere equo. Per rendere equo l'equilibrio di mercato si può agire sulla dotazione dei fattori, appunto sul reddito di base degli individui, che è quello di cui stiamo parlando.

5.     Un tale esborso monetario farebbe aumentare il debito pubblico. Probabilmente lo farebbe diminuire. Una spesa pubblica finanziata con imposte (già versate) ha un effetto comunque positivo sul reddito. Questo tipo di aumento di spesa si concretizzerebbe in un aumento dei consumi (perché gli individui con un reddito basso consumano in proporzione di più di quelli con un reddito alto). L'aumento dei consumi fa aumentare le entrate fiscali. Il reddito complessivo finale sarà più alto, cosa che aiuta la sostenibilità del debito. Attualmente la caduta dei consumi, e del reddito, rende necessarie manovre sanguinose sul piano dei tagli che si rivelano inutili perché la caduta dei consumi fa diminuire le entrate e vanifica i risparmi di spesa. La ripresa dei consumi interromperebbe questo circolo vizioso.

Come già detto, ed entrando nell'elenco dei possibili benefici, una tale politica garantirebbe una base di consumo e quindi di produzione, indipendente dalle variabili finanziarie e dallo spread, in quanto composta da esclusivamente da domanda interna.
Il peso della clientela, come forma di esercizio del potere politico-massonico-mafioso, sarebbe notevolmente ridimensionato, si passerebbe dal sistema di oggi basato sui privilegi ad un sistema basato sui diritti.
Il Basic Income sarebbe un potente disincentivo alla criminalità, in quanto il diritto a riceverlo potrebbe essere legato alla condotta, cioè esso potrebbe essere revocato come pena accessoria a causa di condanne penali.
Sarebbe garantito realmente il diritto allo studio universitario anche agli studenti svantaggiati, i quali potrebbero anche proseguire gli studi post-laurea, ipotesi oggi ascrivibile alla fantascienza, aiutando concretamente la competitività del sistema paese dato l'attuale livello medio di istruzione.
A medio termine le spese sanitarie dovrebbero ridursi, in quanto una maggiore cura personale garantita dal Basic Income, ridurrebbe i fattori di rischio per le fasce meno abbienti della popolazione che altrimenti si scaricherebbero sul servizio sanitario nazionale.
Si ridurrebbe l'emigrazione forzata e con essa il degrado demografico relativo allo spopolamento dei piccoli centri con benefici per la coesione sociale.
In conclusione, una tale forma di intervento caratterizzerebbe un paese come "avanzato" in termini di civiltà, non a caso ne la Grecia ne l'Italia hanno forme di sostegno al reddito di questo tipo. La Germania ce l'ha, probabilmente hanno fatto i conti meglio di noi.

http://www.bin-italia.org/article.php?id=1741