Ho dato il beneficio del dubbio a Michel Martone, il messaggio "chi è iscritto all'Università e non si è laureato a 28 anni è uno sfigato", l'avevo preso per quello che era, una provocazione. D'altro canto, una persona della sua cultura, sapeva perfettamente che avrebbe generato un dibattito, nel quale avrebbe potuto esplicitare meglio le sue idee magari rendendole vincenti e digeribili all'opinione pubblica, anche studentesca.
Ma, dopo aver visto la prima mezz'ora della sua partecipazione ad "8 e mezzo" devo dire che mi sbagliavo.
Partiamo dal concetto in sè, essere iscritti a vita all'Università credo non possa essere considerato motivo di vanto, ma che senso ha stabilire un'età? Che calcolo ha fatto il buon Michel? Vediamo, se il corso di studi è quinquennale Michel regala 4 anni da fuori corso prima di entrare nella "sfiga area", ma questo vale per tutti? Dalle materie umanistiche a quelle economiche e sociali..... ma gli Ingegneri? I tempi medi di Laurea, ai nostri tempi, erano di 9 anni per un Ingegnere Civile (a Cosenza dove ho studiato), questo non perchè fossero particolarmente stupidi, ma perchè fare Scienze delle Costruzioni, Fisica Tecnica ed altre quisquiglie prendeva un certo tempo. Dargli anche degli sfigati mi sembra troppo, quelli che ho conosciuto io hanno già sofferto abbastanza. Per non parlare di Astrofisici, Fisici, Chimici, Matematici etc. Da uno scienziato ci si aspetterebbe maggiore cautela, dire "4 anni in più del tempo medio di laurea del settore scientifico..." sarebbe suonato un pò meglio.
Sfigato come termine poi, io non lo userei neanche al bar, fà molto supergiovane.
Successivamente c'è chi si iscrive a 30 o anche dopo, è sfigato in partenza? In molti paesi si parla di "formazione permanente" ma siamo su altri pianeti, più banalmente la cultura è uno dei pochi beni che generano un impatto socio-economico sempre positivo, basti pensare alla capacità di interpretare un documento qualsiasi, dinstinguere fra quali siano i comportamenti virtuosi e quali non, il senso civico etc.
Mettere al tempo di studio la scadenza tipo yogurt mi appare quanto mai fuori luogo.
La stessa argomentazione sui sedicenni che sono bravi se scelgono istituti tecnico-professionali e non l'università mi pare piuttosto debole. In primo luogo perchè raramente i diplomi tecnico professionali incontrano la domanda effettiva di lavoro (motivo pratico), secondariamente a 16 anni difficilmente si è in grado di sapere se si diventerà astronauti o racchettapalle a Wimbledon, ghettizzare in partenza alcuni come adatti solo a fare lavori manuali mi pare un po eugenetico (motivo teorico) e nel Sud Italia potrebbe regalare personale ad un altro tipo di imprese.
Meglio una scuola di qualità per tutti, che insegni le basi e poi ognuno si specializza come crede, anche in azienda, altrimenti i contratti di formazione e apprendistato a cosa servono?
A questo punto durante la trasmissione ci si aspetta che Michel spieghi, dopo essersi preso il sacrosanto cazziatone da Zucconi dagli States ed aver chiesto scusa (lodevole), una studentessa elenca i problemi "reali" che affrontano gli studenti, dalla mancanza di alloggi all'inadempienza degli Atenei con le borse di studio, che penalizzano tutti ma impattano ancor più brutalmente su quelli bravi con meno risorse che troppo spesso abbandonano (i veri sfigati).
Ma finalmente quando è il suo momento Martone dà il peggio di se, citando debito pubblico e spread, mancava l'umidità, che diavolo di senso ha sollevare un tema per poi sfuggirne?
Se i tempi di laurea si dilatano in Italia, ciò è dovuto ad una serie di problemi gravi che attanagliano l'Università da molti anni, ne cito solo alcuni che ho riscontrato personalmente: dalla qualità della selezione docente, alla qualità della didattica (che discende dalla precedente), dall'inadeguatezza delle strutture all'assenza di supporto per gli studenti, sia per quanto concerne la didattica sia per quanto riguarda la burocrazia. Per finire con le scuole secondarie superiori che stanno scadendo di livello, consegnando all'Università studenti a cui troppo spesso mancano le basi, e che quindi ci metteranno più tempo.
Ci aspetteremmo, da un uomo della caratura di Michel Martone, soluzioni, dato che ora è al governo, dopo essere stato solo consulente. Pazienza se non è all'Istruzione e Ricerca, non è un problema, una visita con chiacchierata al ministro Profumo è meglio di una provocazione a mezzo stampa, o no?
venerdì 27 gennaio 2012
giovedì 12 gennaio 2012
Cos’è la Decrescita? Può essere Felice?
Il dibattito aperto dai teorici della Decrescita mi appare assolutamente surreale.
Non perché da spocchioso Economista di provincia non possa accettare che i miei 11 anni di studi post laurea possano valere meno delle intuizioni di Pallante, o che il mio master nel Regno Unito sia stato solo un modo per abituarmi all’umidità, quanto perché molte delle cose teorizzate esistono già o attengono al comune buonsenso.
Partiamo dal PIL, ultimamente aumenta il numero di coloro che ne sono allergici, l’allergia al PIL è incurabile, specie se chi ne parla non ha idea di cosa sia.
Il PIL può essere decomposto in vari modi, almeno 3. Se noi parliamo di produzione e di consumo, tutte le obiezioni dei Decrescenzialisti sono pertinenti, possiamo consumare meno ed essere più felici, possiamo produrre meno ed essere più felici.
Ma se scomponiamo il PIL dal punto di vista distributivo, ovvero come la somma fra Salari (tutto quello che i lavoratori guadagnano) Profitti (tutto ciò che gli imprenditori guadagnano) e Rendite (tutto ciò che i proprietari di mezzi a vario titolo produttivi guadagnano), dimostrare che la riduzione del PIL possa far felice una di queste tre categorie mi pare arduo.
Prendiamo la Rendita, affitti, interessi su soldi prestati etc. Se si riduce spostando somme verso i salari e i profitti, saranno più felici alcuni e meno i renditieri, la rendita non è direttamente produttiva, ma queste si chiamano Politiche Redistributive, esistono da quando esiste l’Economia Politica, non c’era bisogno di una nuova teoria. Per non dire che la lotta alla rendita era già ben presente negli scritti di Carl Marx.
Il dibattito è sul modo di misurare la nostra “felicità”, il PIL non sarebbe adatto, bella osservazione, si scontra con le difficoltà tecniche di trovare misure alternative. Chi si occupa del tema sa che ci sono misure utilizzate a livello locale per stabilire la “vivibilità” delle città ad esempio.
Anni fa lavorai sulla “dotazione infrastrutturale delle province italiane”, in riferimento non solo a strade, aeroporti, acquedotti, ma anche scuole, teatri, impianti sportivi etc. Di cose che fanno felici insomma. Scoperta delle scoperte, le province meridionali in genere, ed a più basso reddito (PIL provinciale), ma soprattutto con una minore dotazione di infrastrutture civili, sono sempre quelle che vengono messe agli ultimi posti delle graduatorie sulla “qualità della vita” che sarebbe la felicità nel senso Pallantiano del termine.
E’ possibile costruire scuole ed infrastrutture civili con i metodi della Decrescita? No.
Altra obiezione sul cavallo di battaglia dei teorici della Decrescita, il risparmio energetico, la Decrescita crea posti di lavoro perché potremmo adeguare le case agli standard energetici. In futuro consumeremo meno ed il PIL diminuirà, giustissimo, ma si chiama logica non decrescita.
Nel frattempo fare un cappotto termico ad una casa degli anni ’70 costa un’ira di Dio e fa aumentare il PIL (anche per coloro che ne sono allergici).
Bisogna trasferire risorse verso queste best practies, si dice “entro il 2040 tutte le case andranno ad emissioni zero”, e via incentivi all’adeguamento e monitoraggio degli interventi, ma si chiama Programmazione Economica, esiste da un po’, e dal 1984 che non viene più fatta in Italia.
Alcuni lo sapevano da prima e sostenevano che andasse fatta, ma venivano tacciati di Stalinismo. E’ stato anche cambiato nome al Ministero preposto, che una volta si chiamava “Bilancio e Programmazione Economica”.
Ultimo tema, non è possibile la crescita infinita, vero, credo nessuno abbia mai sostenuto pubblicamente il contrario. Ma anche questo è un dibattito noto, fra crescita e sviluppo. Siamo cresciuti troppo, dobbiamo smetterla, dovremo smetterla quando tutti saremo “felici” ovvero quando il nostro livello di reddito ci consenta una vita dignitosa nel senso della nostra Costituzione.
Siamo a quel punto? No, se pensiamo a molte regioni Italiane, fottutamente no se pensiamo ai paesi poveri.
Si chiama Crescita Sostenibile o Sviluppo Sostenibile, e si fa anche in presenza di una produzione stagnante. Portare l’acqua in un remoto villaggio Africano fa sviluppo economico, crescita e felicità, anche se per finanziarla bisogna rinunciare a qualche caccia-bombardiere (per fare un esempio di modifica a saldo zero), “dobbiamo spendere in opere di pace quello che spendiamo in opere di guerra” diceva Keynes negli anni ’30.
La crescita economica e lo sviluppo non sono obblighi, ma sono delle conseguenze anche delle politiche suggerite dai teorici della Decrescita, termine che economicamente non vuol dire nulla, se vogliamo essere precisi.
Se poi il discorso è che la produttività non può crescere indefinitamente, e che la produzione non può crescere indefinitamente, d’accordissimo, ma appunto per porre rimedio a questi problemi esistono da anni scuole economiche che propongono (inascoltate) la Redistribuzione del Lavoro ed il Reddito d’Esistenza. Queste cose unite ad un nuovo modo di intendere il rapporto fra uomini e merci (che è la parte interessate del contributo della Decrescita) può contribuire a migliorare il mondo in cui viviamo.
In conclusione, la teoria sulla Decrescita Felice ha un indubbio valore positivo, perché riporta all’attenzione dell’opinione pubblica problemi importanti spesso relegati ai margini del dibattito, fa discutere di Economia anche persone che hanno vissuto intere esistenze delegando le scelte sulle loro vite ad altri. Pone un accento importante sulla tutela dell’ambiente e su uno stile di vita sostenibile per il pianeta.
Altro sono le proposte, bisogna sempre diffidare di chi propone soluzioni semplici a problemi che sono enormemente complessi, è la tecnica dello sciamano-guaritore.
Non perché da spocchioso Economista di provincia non possa accettare che i miei 11 anni di studi post laurea possano valere meno delle intuizioni di Pallante, o che il mio master nel Regno Unito sia stato solo un modo per abituarmi all’umidità, quanto perché molte delle cose teorizzate esistono già o attengono al comune buonsenso.
Partiamo dal PIL, ultimamente aumenta il numero di coloro che ne sono allergici, l’allergia al PIL è incurabile, specie se chi ne parla non ha idea di cosa sia.
Il PIL può essere decomposto in vari modi, almeno 3. Se noi parliamo di produzione e di consumo, tutte le obiezioni dei Decrescenzialisti sono pertinenti, possiamo consumare meno ed essere più felici, possiamo produrre meno ed essere più felici.
Ma se scomponiamo il PIL dal punto di vista distributivo, ovvero come la somma fra Salari (tutto quello che i lavoratori guadagnano) Profitti (tutto ciò che gli imprenditori guadagnano) e Rendite (tutto ciò che i proprietari di mezzi a vario titolo produttivi guadagnano), dimostrare che la riduzione del PIL possa far felice una di queste tre categorie mi pare arduo.
Prendiamo la Rendita, affitti, interessi su soldi prestati etc. Se si riduce spostando somme verso i salari e i profitti, saranno più felici alcuni e meno i renditieri, la rendita non è direttamente produttiva, ma queste si chiamano Politiche Redistributive, esistono da quando esiste l’Economia Politica, non c’era bisogno di una nuova teoria. Per non dire che la lotta alla rendita era già ben presente negli scritti di Carl Marx.
Il dibattito è sul modo di misurare la nostra “felicità”, il PIL non sarebbe adatto, bella osservazione, si scontra con le difficoltà tecniche di trovare misure alternative. Chi si occupa del tema sa che ci sono misure utilizzate a livello locale per stabilire la “vivibilità” delle città ad esempio.
Anni fa lavorai sulla “dotazione infrastrutturale delle province italiane”, in riferimento non solo a strade, aeroporti, acquedotti, ma anche scuole, teatri, impianti sportivi etc. Di cose che fanno felici insomma. Scoperta delle scoperte, le province meridionali in genere, ed a più basso reddito (PIL provinciale), ma soprattutto con una minore dotazione di infrastrutture civili, sono sempre quelle che vengono messe agli ultimi posti delle graduatorie sulla “qualità della vita” che sarebbe la felicità nel senso Pallantiano del termine.
E’ possibile costruire scuole ed infrastrutture civili con i metodi della Decrescita? No.
Altra obiezione sul cavallo di battaglia dei teorici della Decrescita, il risparmio energetico, la Decrescita crea posti di lavoro perché potremmo adeguare le case agli standard energetici. In futuro consumeremo meno ed il PIL diminuirà, giustissimo, ma si chiama logica non decrescita.
Nel frattempo fare un cappotto termico ad una casa degli anni ’70 costa un’ira di Dio e fa aumentare il PIL (anche per coloro che ne sono allergici).
Bisogna trasferire risorse verso queste best practies, si dice “entro il 2040 tutte le case andranno ad emissioni zero”, e via incentivi all’adeguamento e monitoraggio degli interventi, ma si chiama Programmazione Economica, esiste da un po’, e dal 1984 che non viene più fatta in Italia.
Alcuni lo sapevano da prima e sostenevano che andasse fatta, ma venivano tacciati di Stalinismo. E’ stato anche cambiato nome al Ministero preposto, che una volta si chiamava “Bilancio e Programmazione Economica”.
Ultimo tema, non è possibile la crescita infinita, vero, credo nessuno abbia mai sostenuto pubblicamente il contrario. Ma anche questo è un dibattito noto, fra crescita e sviluppo. Siamo cresciuti troppo, dobbiamo smetterla, dovremo smetterla quando tutti saremo “felici” ovvero quando il nostro livello di reddito ci consenta una vita dignitosa nel senso della nostra Costituzione.
Siamo a quel punto? No, se pensiamo a molte regioni Italiane, fottutamente no se pensiamo ai paesi poveri.
Si chiama Crescita Sostenibile o Sviluppo Sostenibile, e si fa anche in presenza di una produzione stagnante. Portare l’acqua in un remoto villaggio Africano fa sviluppo economico, crescita e felicità, anche se per finanziarla bisogna rinunciare a qualche caccia-bombardiere (per fare un esempio di modifica a saldo zero), “dobbiamo spendere in opere di pace quello che spendiamo in opere di guerra” diceva Keynes negli anni ’30.
La crescita economica e lo sviluppo non sono obblighi, ma sono delle conseguenze anche delle politiche suggerite dai teorici della Decrescita, termine che economicamente non vuol dire nulla, se vogliamo essere precisi.
Se poi il discorso è che la produttività non può crescere indefinitamente, e che la produzione non può crescere indefinitamente, d’accordissimo, ma appunto per porre rimedio a questi problemi esistono da anni scuole economiche che propongono (inascoltate) la Redistribuzione del Lavoro ed il Reddito d’Esistenza. Queste cose unite ad un nuovo modo di intendere il rapporto fra uomini e merci (che è la parte interessate del contributo della Decrescita) può contribuire a migliorare il mondo in cui viviamo.
In conclusione, la teoria sulla Decrescita Felice ha un indubbio valore positivo, perché riporta all’attenzione dell’opinione pubblica problemi importanti spesso relegati ai margini del dibattito, fa discutere di Economia anche persone che hanno vissuto intere esistenze delegando le scelte sulle loro vite ad altri. Pone un accento importante sulla tutela dell’ambiente e su uno stile di vita sostenibile per il pianeta.
Altro sono le proposte, bisogna sempre diffidare di chi propone soluzioni semplici a problemi che sono enormemente complessi, è la tecnica dello sciamano-guaritore.
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