Oggi, su "Economia e Politica" le mie riflessioni sulle potenziali conseguenze della Brexit per il Regno Unito e per l'Europa.
Brexit per andare dove?
In un’intervista il capo economista della Bank of England[1] ha fatto pubblica ammenda per le previsioni “errate” rispetto ai possibili effetti della Brexit,
attribuendo questi errori al diverso comportamento degli operatori
rispetto alle ipotesi del modello. Cosa accadrà realmente con la Brexit
nessuno può dirlo, dipenderà dall’esito degli accordi che
necessariamente dovranno essere presi. Se gli accordi dovessero
modificare le libertà fondamentali, la libera circolazione di persone,
merci e capitali, le conseguenze non possono che essere negative, perché non ci sono ragioni economicamente sostenibili a supporto del contrario. Nel caso della “hard Brexit” ci sarà una perdita di benessere per tutti, ma i rischi maggiori li correrà proprio la Gran Bretagna.
Aspettative e Brexit
In primo luogo la Brexit vera e propria non c’è stata, questa
constatazione ovvia non è stata sufficientemente considerata nel
dibattito attuale, allora cosa avrebbero stimato gli esperti della Banca
d’Inghilterra? Essi hanno considerato i possibili effetti reali che
“l’annuncio” della Brexit avrebbe determinato. Tecnicamente, essi hanno
anticipato ad oggi i possibili effetti futuri dell’uscita vera e
propria. L’errore che hanno commesso è proprio in questo passaggio, essi
hanno assunta come data la Brexit, ma non solo, hanno presunto che
l’esito dei negoziati sia di tipo conflittuale (la c.d. hard Brexit). La
Brexit in realtà potrebbe anche non verificarsi del tutto, non a causa
delle prossime elezioni, quanto per il fatto che analizzando lucidamente
i pro ed i contro, il futuro premier del Regno Unito potrebbe
convincersi a concordare una Brexit talmente soft da somigliare all’ultimo accordo raggiunto fra Cameron e l’Unione Europea prima del voto.
Effetti positivi della Brexit?
L’economia Britannica, non avendo subito un tracollo immediato,
dimostrerebbe che uscire dall’unione possa essere addirittura positivo
per l’economia, almeno secondo i sostenitori dell’abbandono del progetto
europeo. E’ questo un argomento solido? In primo luogo, è riconosciuto
da tempi non sospetti che un certo livello d’incertezza nel valore del
cambio e del tasso d’interesse interno possano anche avere effetti
positivi per le imprese nel breve periodo[2],
pertanto il “mancato tracollo” non è sorprendente. Si può obiettare che
la Banca d’Inghilterra ha sempre avuto il controllo sui tassi
d’interesse, non avendo la Gran Bretagna adottato l’euro, ma concretamente i trattati vincolavano la gestione dei cambi all’interesse comune europeo[3].
E’ possibile allora sostenere che il calo del valore della Sterlina
nell’ultimo periodo stia esercitando effetti positivi, cosa che però
sarebbe stata altrettanto possibile se la Gran Bretagna fosse rimasta
nell’Unione[4]. Di fatto quindi nulla di nuovo è ancora accaduto. Le
previsioni pessimistiche sugli effetti del voto non si sono avverate
probabilmente perché gli operatori hanno semplicemente deciso di
attendere quantomeno l’inizio dei negoziati, ed il loro orientamento, per decidere il da farsi.
Le possibili conseguenze per il Regno Unito della “hard Brexit”
In campagna elettorale i sostenitori del “leave” non hanno segnalato i reali argomenti di criticità del rapporto fra Regno Unito ed Europa (e soprattutto Germania) come ad esempio il crescente squilibrio della bilancia commerciale Britannica[5], ed il conseguente scontento del mondo delle piccole e medie imprese nei confronti dell’Europa[6].
Gli argomenti cardine della campagna per la Brexit sono stati altri.
In primo luogo, si è parlato di “sovranità” in senso lato, soprattutto
con riferimento alla gestione dei flussi migratori, e del costo relativo
ai trasferimenti verso l’Unione di cui il Regno Unito era contributore
netto. Nello scenario di Brexit conflittuale il Regno Unito potrebbe
chiudere le frontiere all’immigrazione sia europea che
extraeuropea, ma sarebbe positivo? Tutti i modelli di crescita economica
di lungo periodo concordano sulla necessità che la popolazione cresca,
le economie mature stanno invece andando incontro ad un declino demografico
che appare irreversibile, almeno tendenzialmente, tanto è vero che i
paesi europei con un più alto tasso di natalità sono quelli con maggior
presenza di immigrati[7].
Un certo livello di immigrazione pertanto è funzionale al mantenimento
di tassi di crescita almeno al livello attuale. Inoltre, è evidente come
il Regno Unito attragga emigrazione “skilled” ovvero
con un alto livello d’istruzione e di dinamicità sociale, soprattutto
dagli altri paesi europei. Restringere i flussi migratori pertanto
potrebbe avere un impatto negativo sulla crescita sia quantitativamente
ma soprattutto qualitativamente.
L’altro argomento forte della campagna elettorale è quello relativo
al contributo economico che il Regno Unito versava all’UE in quanto “contributore netto”
(secondo la CGIA di Mestre per circa 5,5 MLD di Euro annui in media tra
il 2000 ed il 2014). In sostanza smettendo di contribuire all’unione,
la Gran Bretagna riacquisirebbe la propria sovranità nell’utilizzo dei
fondi pubblici addirittura guadagnandoci. Anche quest’argomento in se
non è convincente, in quanto implica che la Gran Bretagna sia una realtà
coesa ed omogenea anche dal punto di vista economico. La Gran Bretagna è contributore netto, ma Irlanda del Nord e Scozia sono prenditori netti,
non a caso la Scozia sta cercando di “rientrare nell’Unione” attraverso
un referendum per l’indipendenza dalla Gran Bretagna, utilizzando il
medesimo argomento. E’ presumibile che nel tentativo di convincere
queste regioni a rimanere, il governo Britannico debba sostituire i
fondi europei con risorse proprie, magari aumentandole. Questo è
esattamente l’opposto di quello che è stato promesso, in quanto il
governo Britannico si ritroverebbe ad utilizzare i criteri europei
(criteri di convergenza) per spendere dotazione finanziaria interna.
La bilancia commerciale
Dati 2015, l’Unione è di gran lunga il primo partner commerciale del Regno Unito,
verso cui esporta 229 Miliardi di Sterline importando da essa per 291
Miliardi. Queste cifre rendono evidente il legame economico fra Londra e
Bruxelles[8].
I sostenitori della Brexit ipotizzano che, essendo l’Unione Europea
esportatore netto nei confronti del Regno Unito, dovrebbe accettare di
buon grado qualsiasi tipo di politica commerciale “ostile” senza attuare
contromisure. Il ragionamento, di per sè valido, pecca in questo caso
nel considerare l’Unione come una realtà unitaria quando non è così. Se
ipotizziamo una guerra commerciale tra Unione Europea e Regno Unito,
l’Unione ne sarà svantaggiata nell’aggregato, ma l’impatto sarà negativo
in misura maggiore per alcuni e minore per altri, ad esempio
la Germania perderà più dell’Italia e via discorrendo, mentre le perdite
del Regno Unito saranno tutte per il Regno Unito. Inoltre c’è la
considerazione che non potendo “ipoteticamente” commerciare col Regno
Unito, l’Unione attuerebbe una ricomposizione interna dei propri flussi
commerciali attenuando così gli effetti negativi, per poi eventualmente
cercare ulteriori accordi commerciali con altre aree del pianeta in
funzione della propria forza commerciale (come ad esempio il recente
accordo col Canada). Questa strada non appare così semplicemente
percorribile per il Regno Unito. Dall’avvio del meccanismo di
integrazione europea i flussi commerciali britannici sono cambiati e
l’Europa geografica è uno sbocco irrinunciabile non solo per le
esportazioni ma soprattutto per l’Import. Se dovessero tornare le
frontiere, potrebbe accadere che questi flussi di importazioni
potrebbero rimanere costanti, perché sostituire le merci europee con
quelle di altri paesi determinerebbe maggiori costi di trasporto, tali
almeno da coprire gli eventuali dazi. Inoltre la comparsa di una
frontiera determina aggravi di costi, superiori alla distanza
geografica, come dimostrato da numerose ricerche empiriche[9].
Le alternative all’Europa sarebbero tutte più costose, anche
nell’eventualità di “accordi bilaterali” perché le possibilità di
ottenere condizioni vantaggiose con altri partner (USA e Russia ad
esempio) dipenderebbe dal rapporto di forza economica fra i due
contraenti[10], e la Gran Bretagna da sola rischia di dover accettare ciò che viene imposto da altri.
Protezionismo e Svalutazione
Sempre nello scenario “hard” Brexit potrebbe accadere che la liberale
Gran Bretagna diventi un paese chiuso, protezionista ed aggressivo sul
lato dei cambi, ma è mai avvenuto questo nella storia? La risposta è no.
L’Inghilterra da sempre è la patria del libero scambio,
teorizzato e praticato, riconosciuto come benefico per la crescita
economica, sin dagli albori dell’economia politica. L’Inghilterra
conobbe un periodo di dazi esclusivamente come “reazione” a politiche
commerciali aggressive da parte della Germania, che includevano la
pratica del dumping, nei primi decenni del ‘900. Si può validamente
argomentare che un numero sempre crescente di stati stia riconvertendo
le proprie politiche economiche verso un “nuovo protezionismo”, tuttavia è ancora grande la consapevolezza[11]
che questa non sia la soluzione, in quanto l’innalzare di nuove
barriere ridurrebbe la ricchezza in termini aggregati, ed in un contesto
del genere un singolo paese corre maggiori rischi rispetto ad un’area
di libero scambio. Non diversa è la storia sul lato dei cambi, il
prestigio internazionale della Sterlina ha rappresentato storicamente un
punto irrinunciabile della politica monetaria Britannica, infatti, la
difesa strenua del cambio della Sterlina tra le due guerre mondiali, è
considerata la causa del deflusso d’oro verso gli Stati Uniti che
determinò l’avvento di New York come maggiore centro finanziario
internazionale[12].
Inoltre, la rigidezza con la quale i governi Britannici hanno
contrastato l’inflazione negli anni ’80 rende veramente difficile
immaginare un contesto di svalutazioni e inflazione a soli fini
commerciali.
La terza delle libertà fondamentali
Dal punto di vista strategico la posizione del Regno Unito era
invidiabile nel momento in cui pur nel mercato unico, poteva decidere
(almeno parzialmente) la propria politica monetaria
e poteva porre il veto a decisioni europee che potessero danneggiare
gli interessi Britannici, quali ad esempio maggiori imposte sui flussi
internazionali di capitali (e sulle “trust limited”) o sulla politica estera dell’unione. Ora che “out is out” l’unione in sede di trattativa ha uno strumento di pressione importante che riguarda la finanza. La Gran Bretagna è il primo centro finanziario in Europa,
la libera circolazione dei capitali fa sì che i profitti finanziari
pesino per l’8% del PIL del Regno Unito. Inoltre 80 su 358 banche che
operano nel Regno Unito hanno la loro sede centrale in altri paesi
Europei rendendo il sistema bancario e finanziario estremamente
interconnesso. In pratica il ruolo finanziario della Gran Bretagna non è
dovuto (solo) alla sua forza economica, ma al fatto che molte imprese e
società europee ed extraeuropee lo utilizzano come centro finanziario[13].
La semplice minaccia da parte europea di limitare i flussi finanziari
da e per il Regno Unito, o di modificare la tassazione degli utili da
questi prodotti, potrebbe portare alla fuga di tutte quelle società che
operano prioritariamente verso l’Europa, che sposterebbero la loro sede
giuridica dal Regno Unito ad uno qualunque dei paesi europei con la
tassazione più simile. E’ inutile sottolineare che gli effetti per
l’economia britannica potrebbero essere catastrofici.
Conclusioni
Riassumendo, in cambio della possibilità di attuare una politica
migratoria restrittiva e di un risparmio di circa 5,5 MLD di euro annui,
la Gran Bretagna ha accettato di correre il rischio di
disgregarsi, di perdere il proprio ruolo di centro finanziario
internazionale, di impoverirsi culturalmente, di diventare irrilevante
in termini di politica estera e di dover deformare i propri flussi
commerciali in maniera permanente. Accadrà questo?
Probabilmente no, la “Hard Brexit” penalizzerebbe tutti inclusi gli
europei, questa considerazione dovrebbe portare le trattative verso una
qualche forma di “partenariato stretto” che salvi la sovranità del voto
popolare ma anche gli interessi economici del Regno Unito che si
concretizzano nelle libertà fondamentali. Gli operatori si sono mostrati
prudenti, o semplicemente scommettono su un accordo che somigli molto
all’ultima bozza negoziale ottenuta da Cameron prima del voto (accordo
vantaggioso per i Britannici). Se così non dovesse essere ed al tavolo
delle trattative dovessero prevalere interessi particolari, schermaglie
politiche a fini interni e sottovalutazione dei rischi, le conseguenze
negative potrebbero essere anche più pesanti di quelle stimate dagli
uffici studi della Bank of England e dalla Brexit usciranno tutti
sconfitti.
[1]
“The Guardian” interpreta il discorso di Haldane:
https://www.theguardian.com/business/2017/jan/05/chief-economist-of-bank-of-england-admits-errors.
[2] Si veda a tal proposito De Grauwe, Paul ”Economia dell’unione monetaria”, Il mulino, 2013, nona edizione: Pag. 78.
[3]
La questione è disciplinata dall’art. 109 M del trattato di Maastricht
che impone ai paesi esterni all’UEM, ma interni all’Unione di trattare
il proprio tasso di cambio come “.. un problema d’interesse comune..”.
Si afferma implicitamente che il cambio Euro/Sterlina è stato quindi
soggetto ad una forma di fluttuazione amministrata.
[4]
Sempre De Grauwe sottolineava che l’ingresso della Gran Bretagna
nell’Euro, con una sterlina in calo, avrebbe rappresentato un rischio
per gli altri paesi Europei (ibid. Pag. 180)
[5] Si veda a tal proposito Realfonzo R., Viscione A. “Brexit o remain? Ovvero la guerra commerciale anglo-tedesca” Economiaepolitica.it 2016 anno 8 n. 11 sem. 1. In questo articolo vengono evidenziati anche alcuni rischi potenziali della Brexit per l’economia britannica.
[6] L’argomento è riportato in Moro, D. “Brexit come crisi dell’Uem e della globalizzazione” Economiaepolitica.it 2016 anno 8 n. 12 sem. 2.
[7]
Si vedano a tal proposito le interpretazioni del Demografo Livi Bacci
con riferimento al World Population Prospects del 2015 delle Nazioni
Unite.
[8]
Dati della Banca D’Inghilterra disponibili nel report:
http://www.bankofengland.co.uk/publications/Documents/speeches/2015/euboe211015.pdf
[9] Si può vedere a tal proposito C. Engels, http://www.ssc.wisc.edu/~cengel/PublishedPapers/HowWideIsBorder.pdf.
[10]
Nello specifico dall’ampiezza del proprio mercato in termini di
popolazione, e dalla quantità e varietà di merci che si propongono nello
scambio.
[11]
Al recente vertice G7 di Taormina è stato preso un impegno di massima a
contrastare il protezionismo al quale hanno aderito anche gli Stati
Uniti.
[12] Per i riferimenti storici si veda Giura, A. Dell’Orefice V. “Lezioni di Storia Economica” (1987).
[13] A riconoscimento del ruolo di “leader” finanziario, l’Autorità Bancaria Europea era stata dislocata proprio a Londra.