sabato 14 luglio 2012

L’ora del Basic Income


di Salvatore Perri
La profonda crisi economica odierna viene combattuta con armi spuntate dal governo Monti e con scarsissima lungimiranza dalle istituzioni europee. Le alternative al disastro non si limitano, tuttavia, a proposte estemporanee di uscita dal sistema solare o di ritorno all’età della pietra. Esistono strumenti per la politica economica che sono in grado di ripristinare un sistema economico con un maggior livello di equità senza passare per l’abbandono degli attuali livelli di benessere collettivo. Uno di questi, largamente studiato ed applicato all’estero, è il “Basic Income” (letteralmente reddito di base o tradotto in italiano come Reddito d’Esistenza).
Il Basic Income, a cui farò riferimento, è una somma monetaria assegnata dalla fiscalità generale  o in modo universalistico o ad un gruppo di individui che rientrino in determinate categorie, ad esempio reddituali.
Dal mio punto di vista il modo più efficiente per discutere brevemente questo strumento è quello di rispondere alle più comuni obiezioni errate che emergono nel dibattito, successivamente elencherò alcuni dei possibili benefici per il “sistema Italia”, rinviando per una trattazione sistematica ed analitica del tema agli scritti di Andrea Fumagalli.
1.      L’attribuzione di una somma di denaro ad una tale platea di individui è impossibile dati i vincoli di bilancio. Falso, secondo alcune stime, portare il reddito delle persone residenti in Italia al di sopra della soglia di povertà costerebbe all’anno 11 Mld di Euro, circa 1/3 delle manovre estive di Tremontiana memoria. In politica economica c’è sempre una scelta, si tratta solo di investire in modo diverso soldi che vengono spesi comunque.
2.      Pagare i disoccupati li disincentiva a cercare lavoro. L’obiezione è corretta ed anche anglosassone, ma applicata all’Italia è priva di senso. I disoccupati italiani sono in larga parte giovani (nel sud) donne e di lunga durata (anche quando non lavorano nel settore sommerso). Attribuire un reddito, ad esempio di 600 euro mensili, non disincentiverebbe il disoccupato a lavorare per raggiungere soglie più alte, disincentiverebbe esclusivamente lo sfruttamento del lavoro, l’abuso di contratti precari, le simulazioni contrattuali. Il lavoratore avrebbe un’altra scelta, mentre alle imprese irregolari verrebbe a mancare lo strumento con il quale fare concorrenza sleale a quelle regolari.
3.      Una tale forma di retribuzione è improduttiva, le stesse somme potrebbero essere utilizzate per incentivare le imprese a creare lavoro vero. Per rispondere a questa obiezione bisogna discutere che cosa è produttivo e cosa non lo è, nell’esperienza italiana in particolare. Nella definizione di Fumagalli il Basic Income è una retribuzione per tre tipi di attività che gli individui già fanno, ma che non possono scambiare. La cura (di se stessi e degli altri non autosufficienti), il consumo e tutte quelle tipologie di lavoro intellettuale, artistico ed immateriale, che non determinano un ritorno economico (studenti, studiosi ed artisti tra gli altri). Il consumo è produttivo in modo indiretto, in quanto fornisce la giustificazione a produrre un determinato quantitativo di merci che altrimenti non verrebbe prodotto, non stiamo parlando di beni di lusso ma di “consumo autonomo” necessario per vivere nell’accezione Keynesiana. Senza la domanda l’offerta è priva di senso e cessa di essere, generando nuova disoccupazione. Il Basic Income frena questa dinamica molto più dell’incentivo alle imprese. Quando i mercati sono saturi e non ci sono prospettive di profitto le imprese non investono, forzarle a farlo non ha senso. L’Italia, ed il sud in particolare, ha sperimentato flussi di incentivazione all’impresa probabilmente senza eguali nella storia del mondo moderno, i risultati sono sotto gli occhi di tutti, ed in particolare della magistratura, sarebbe ora di cambiare approccio.
4.      Il Basic Income è incompatibile con il libero mercato. In un qualsiasi manuale di Economia, sin dagli albori dell’Economia Politica, nell’analisi dell’equilibrio di scambio, si sottolinea che l’equilibrio efficiente a volte può non essere equo. Per rendere equo l’equilibrio di mercato si può agire sulla dotazione dei fattori, appunto sul reddito di base degli individui, che è quello di cui stiamo parlando.
5.      Un tale esborso monetario farebbe aumentare il debito pubblico. Probabilmente lo farebbe diminuire. Una spesa pubblica finanziata con imposte (già versate) ha un effetto comunque positivo sul reddito. Questo tipo di aumento di spesa si concretizzerebbe in un aumento dei consumi (perché gli individui con un reddito basso consumano in proporzione di più di quelli con un reddito alto). L’aumento dei consumi fa aumentare le entrate fiscali. Il reddito complessivo finale sarà più alto, cosa che aiuta la sostenibilità del debito. Attualmente la caduta dei consumi, e del reddito, rende necessarie manovre sanguinose sul piano dei tagli che si rivelano inutili perché la caduta dei consumi fa diminuire le entrate e vanifica i risparmi di spesa. La ripresa dei consumi interromperebbe questo circolo vizioso.

Come già detto, ed entrando nell’elenco dei possibili benefici, una tale politica garantirebbe una base di consumo e quindi di produzione, indipendente dalle variabili finanziarie e dallo spread, in quanto composta da esclusivamente da domanda interna.
Il peso della clientela, come forma di esercizio del potere politico-massonico-mafioso, sarebbe notevolmente ridimensionato, si passerebbe dal sistema di oggi basato sui privilegi ad un sistema basato sui diritti.
Il Basic Income sarebbe un potente disincentivo alla criminalità, in quanto il diritto a riceverlo potrebbe essere legato alla condotta, cioè esso potrebbe essere revocato come pena accessoria a causa di condanne penali.
Sarebbe garantito realmente il diritto allo studio universitario anche agli studenti svantaggiati, i quali potrebbero anche proseguire gli studi post-laurea, ipotesi oggi ascrivibile alla fantascienza, aiutando concretamente la competitività del sistema paese dato l’attuale livello medio di istruzione.
A medio termine le spese sanitarie dovrebbero ridursi, in quanto una maggiore cura personale garantita dal Basic Income, ridurrebbe i fattori di rischio per le fasce meno abbienti della popolazione che altrimenti si scaricherebbero sul servizio sanitario nazionale.
Si ridurrebbe l’emigrazione forzata e con essa il degrado demografico relativo allo spopolamento dei piccoli centri con benefici per la coesione sociale.
In conclusione, una tale forma di intervento caratterizzerebbe un paese come “avanzato” in termini di civiltà, non a caso ne la Grecia ne l’Italia hanno forme di sostegno al reddito di questo tipo. La Germania ce l’ha, probabilmente hanno fatto i conti meglio di noi.

venerdì 22 giugno 2012

La risposta che serve. Da "La Voce.info" di oggi

http://www.lavoce.info/lettere/

  • La risposta che serve
    Nome: Salvatore Perri  Data: 22.06.2012
    Il dibattito fra Krugman e Zingales sulla strategia efficiente per uscire dalla crisi dell’Eurozona per certi aspetti può essere rappresentato come la scelta del male minore da sacrificare affinché si ritorni su un sentiero di crescita accettabile.
    Un guadagno in cambio di un sacrificio. Per Krugman si può sacrificare la politica monetaria allentandone i vincoli, introducendo elementi discrezionali che consentano di usarla come stimolo alla crescita, concordandola magari a politiche fiscali meno austere, anche a costo di generare inflazione.
    Secondo Zingales invece, l’indipendenza della BCE è un bene irrinunciabile, perché se la politica monetaria dovesse generare inflazione, ci sarebbe una redistribuzione del reddito non decisa in modo democratico. Si potrebbe invece sacrificare la funzione di stimolo della politica fiscale, riducendo le spese in alcuni settori ad esempio.
    Tuttavia, quello che sta accadendo adesso è proprio quello che Zingales considera il male peggiore. La scelta della Bce di aumentare le linee di credito per le banche private, consente alle stesse di avere moneta al costo dell’1% ed investirla nei titoli degli stati indebitati ricavando tra il 5 ed il 7%. Per pagare questi interessi gli stati nazionali dovranno aumentare le imposte o ridurre le spese, in ogni caso devono redistribuire reddito, a meno che non si ipotizzi una crescita dell’economia reale del 7%. Questo accade perché le banche non vedono prospettive di profitto, e di conseguenza investono sul certo, stato indebitato con garanzie reali e possibilità di tassare, rispetto all’incerto profitto delle imprese. Questo meccanismo è accentuato dall’assicurazione statale concessa alle banche, che quindi in ogni caso non falliranno, mentre il debito pubblico aumenterà con certezza.
    Un eventuale intervento temporaneo della Bce, e delle banche centrali, affinché ci sia un coordinamento con nuovi programmi di sviluppo, finanziabili anche con emissione di nuova moneta (alla Krugman) avrebbe due effetti positivi certi: la riduzione del debito (in termini reali) e l’allentamento della pressione speculativa sui tassi di interesse. Il potenziale effetto negativo, ovvero l’aumento dell’inflazione, è invece incerto in quanto il prodotto nella zona Euro è in caduta, ed in Italia è fermo da molto tempo. Diviene difficile ipotizzare un’ondata inflazionistica forte in un momento di crisi così violenta, inflazione che sarebbe invece sicura ed a 2 cifre per i paesi che dovessero fallire ed uscire dall’Euro.
    Pertanto la risposta che serve è europea, deve coinvolgere la politica fiscale e quella monetaria per allentare i vincoli del debito.
    Continuare ad insistere su un piano di rigore, congiuntamente al vincolo di bilancio in costituzione e senza intervento della Bce, contribuirebbe soltanto ad una caduta cumulativa dei consumi ed alla distruzione permanente di capacità produttiva, senza che questo generi né un miglioramento della situazione del debito né la ripresa economica.

mercoledì 13 giugno 2012

Krugman, Zingales e la politica monetaria dell'Eurozona


Con la crisi che avanza, la ricchezza che diminuisce e l’euroscetticismo che raggiunge livelli preoccupanti, ritorna anche il dibattito storico fra “interventisti” e “rigoristi” nella gestione della politica monetaria, della BCE in questo caso.
Rispondo, a mia volta, alla replica che Luigi Zingales offre alle analisi di Paul Krugman, nell’articolo “L’indipendenza da preservare”, pubblicato da “Il sole 24 ore” il 27 Aprile 2012, all’indomani della vittoria di Hollande in Francia.
Krugman stà proponendo quale ricetta per uscire dalla crisi, un intervento delle autorità monetarie che, allentando i vincoli sull’emissione di nuova moneta, potrebbero contribuire a ridare ossigeno alle economie europee (ma anche a quella americana) strette da una crisi che stà minando alla base i fondamentali produttivi.
Zingales contesta questa soluzione sulla base di due convincimenti: il primo, di ordine economico, è che l’aumento della base monetaria con funzioni di stimolo al sistema economico ci riporterebbe ad un’inflazione stile anni ’70, il secondo, di ordine tecnico-morale, è che essendo il banchiere centrale non eletto, non spetterebbe ad esso il potere di riallocare risorse economiche, potere che spetterebbe solo ad organismi eletti quali i governi.
Zingales di conseguenza, obbedendo alla più ortodossa tradizione liberista, si oppone ad espansioni monetarie e propone forme “mirate di rinegoziazione del debito”, che messe in pratica dal governo, scontenterebbero qualcuno, ma sarebbero gestibili con più equità rispetto ad un’ondata inflazionistica.
A mio avviso la lettura di Zingales, pur avendo elementi interessanti, è criticabile in più di un punto .
In primo luogo, non abbiamo certezza che un’espansione monetaria della BCE provochi necessariamente inflazione, o livelli elevati della stessa. Da quando esiste l’Euro non è mai stato così, anche quando la BCE è intervenuta rilasciando il tasso di interesse all’indomani dell’avvento di Draghi.
In secondo luogo perché la BCE stà già espandendo l’offerta di moneta, ma con un meccanismo abominevole che si stringerà come un cappio attorno al collo dei paesi indebitati.
La BCE ha prestato all’1% enormi quantità di moneta alle banche private, le quali comprano titoli di Stato che renderanno nel tempo dal 5% al 7%  circa. Di conseguenza queste somme di denaro arrivano agli stati (espansione monetaria) ma il debito aumenta, il surplus che le banche riceveranno sarà pagato dai cittadini italiani sotto forma di tasse o riduzioni di spesa.
Questo meccanismo, ingiusto, immorale, antidemocratico, è posto in essere proprio da un organo non eletto.
C’è di più, il governo Monti, non eletto, quindi non in grado secondo Zingales di riallocare risorse, ha assicurato, attraverso lo Stato, le banche private dal fallimento. Ergo, se il surplus pagato dallo Stato non basta, interverrà ancora lo Stato, quindi i cittadini.
Rimuovere temporaneamente il vincolo che ha la BCE di non prestare all’1% agli stati membri in modo diretto, durante una crisi come quella odierna, non è detto che debba necessariamente provocare inflazione visto che il prodotto è in caduta. Avrebbe invece un immediato effetto deterrente sulla speculazione, in termini di spread.
Al contrario, aspettare ancora, potrebbe voler dire far deteriorare capitale infrastrutturale (impianti industriali) ed umano (lavoratori) facendo si che a crisi finita (se e quando), la capacità produttiva potrebbe essere di molto inferiore a quella odierna, cosa che potrebbe ridurre le prospettive di sviluppo europeo per decenni.
In definitiva, mettere da parte l’integralismo economico, intervenire con un mix di politiche fiscali e monetarie concordate a livello europeo, incluse forme di rinegoziazione del debito (almeno quello nuovo con le banche che ho descritto prima), potrebbe essere la strategia a cui Krugman fa riferimento nei suoi appelli contro l’austerità a tutti i costi.
Non sempre è necessario essere bianchi o neri, ci sono molte gradazioni di grigio oggi in Italia ed in Europa, come dimostrano i governi tecnici che riallocano la ricchezza, pur non essendo eletti.

venerdì 4 maggio 2012

La Trota, le finte lauree e i ladri veri


Mano a mano che si riempie di dettagli, la storia dei finti titoli di studio che riguarda i vertici politici della Lega Nord assume sempre più un significato allarmante ed offensivo. Allarmante sul piano etico, se si pensa alla gestione dei fondi pubblici da parte di questi ex-moralizzatori, offensivo, se si pensa al ruolo che questi ex-governanti attribuivano al merito nella sfera pubblica.
Non mi iscrivo al gruppo di quelli che continuano a prendersela con la trota (che è femminile nella lingua italiana), anche perché il semplice fatto che si sia dimesso rende Renzo Bossi stesso inadeguato alla politica attuale (Rosy Mauro ha risposto a gesti alla richiesta di dimissioni, questo la rende congrua al livello dei politici contemporanei).
Quello che non và banalizzato è il ruolo che la società moderna, e chi ci governa, assegna al titolo di studio.
Questi leghisti hanno preso i voti della gente, parlando di territori, di istanze locali, nei loro comizi hanno sdoganato parolacce, insulti, gestacci, pernacchie, insomma non proprio un ambiente Oxfordiano.
Non mi sarei mai aspettato questa ossessione per le lauree, una, due, mille, per fare cosa? La realtà è più prosa che poesia, e per capirlo bisogna riflettere su Francesco Belsito, uno che a vederlo così ad occhio nudo tanto celtico non sembra.
La laurea a lui sarebbe servita eccome, non è che si può arrivare ai vertici di Finmeccanica con un diploma, tra l’altro dubbio, preso a Frattamaggiore.
Quindi? Piace, compro! Meno male che in Italia fortunatamente riesce difficile comprarsi la laurea, a parte qualche caso che però finisce nei tribunali, e questo perché la Gelmini non è riuscita a completare l’opera demolitrice dell’Università Pubblica su cui si stava applicando.
Di conseguenza si andava in posti più o meno sconosciuti per prendere lauree improbabili, da convalidare e spendere nei vertici delle partecipate statali. Oggi Belsito, domani Mauro, Pier Mosca, ed i figli minori del patriarca a seguire. Perché lavorare? A fine carriera politica presidenti di società miste. Perché studiare? Cacci la “paccata” di rimborsi pubblici e ti fai la laurea Albanese tarocca (perché gli studenti Albanesi li conosco e sono molto meglio della trota), così risparmi tempo e tutto quell’armamentario di sani pugni e testate al muro, che ogni studente colleziona durante le giornate di studio più amare.
Peccato veramente, fossero stati fermi arrivava l’indulto anche qui, si azzera il valore legale del titolo di studio, ed ecco che la trota può fare il presidente dell’Eni. Questo caso esplica perfettamente perché il valore legale del titolo deve rimanere, altrimenti tanto vale legalizzare corruzione e raccomandazioni.
La parte triste della vicenda, riguarda l’invidia di questi poveracci nei confronti di quell’esercito di terroni precari che invade il nord con lauree vere, facendosi centinaia di chilometri per un’ora di lezione, senza mai un rimborso (perché mica sono parlamentari), ma con dignità.
Possibile che sia vero? Come fanno a crederci, sicuramente saranno lauree stampate dalla ndrangheta, dottorati della papuasia, scuole di specializzazione ubicate in qualche sottoscala.
La verità è più dura, per questo voglio chiudere con una nota di speranza, se hanno tutta questa voglia di laurearsi un modo c’è, non è difficile. Al limite qualche meridionale precario che dà ripetizioni private di Economia si trova.
L’importante è che emetta fattura.
Salvatore Perri

lunedì 23 aprile 2012

La follia del pareggio di bilancio costituzionale


L’introduzione nella Costituzione di un vincolo così rigido per la politica economica potrebbe rivelarsi estremamente dannoso, le conseguenze di una tale forzatura potrebbero essere a breve destabilizzanti per un sistema economico fortemente condizionato dal debito come quello Italiano, generando recessione ed instabilità socio-economica.
La ragione di un tale provvedimento, per altro manifestamente etero diretto (o etero imposto), corrisponderebbe all’esigenza di ridurre la possibilità dei futuri governi a guida prettamente politica, di far ricorso alla spesa pubblica per fini di consenso. Problema certamente esistente in Italia.
Tuttavia, esiste una fondamentale ed insanabile discrasia fra ciò che questo provvedimento mira ad ottenere e quelli che potrebbero essere i reali effetti della dinamica innescata da tale vincolo, stando alle attuale condizioni Economico-Finanziare del nostro paese.
Questa erronea valutazione attiene fondamentalmente alle condizioni congiunturali e strutturali dell’economia Italiana, al rapporto fra Stato ed enti locali ma anche fra Stato e Stato in termini di “timing” delle politiche economiche, nonché all’introduzione di un conflitto implicito all’interno della Costituzione stessa.
In primo luogo, l’Italia soffre di una stagnazione del reddito (mancata crescita) che è molto più lunga di quella registrata negli altri paesi europei. Ormai si può dire che la stagnazione dell’economia italiana sia almeno ventennale. Le cause di un tale rallentamento sono note ed attengono fondamentalmente alla crisi del modello industriale italiano ed alla sua difficoltà di trasformarsi.
La crisi in Italia è di lungo periodo, cause diverse da quelle degli altri paesi europei, e necessiterebbe di risposte diverse, risposte di lungo periodo.
Riconversioni produttive ed investimenti infrastrutturali di rilievo, necessiterebbero nel breve periodo, della possibilità di ricorrere al debito. Altre prospettive di rilancio, basate su una diversa allocazione del reddito disponibile tra le fasce sociali, (Basic Income) necessiterebbero anch’esse nella fase transitoria di un esposizione dello stato per cifre superiori alle entrate correnti.
Di conseguenza alcuni strumenti di politica economica essenziali per il rilancio, smettono semplicemente di essere nella disponibilità dei decisori, in quanto nessuna di queste può essere classificata come “catastrofe” e rientrare nella riserva di legge.
Il debito pubblico finirà per avere un peso maggiore, condizionando, o per meglio dire, paralizzando ogni intervento economico.
Partiamo dal Documento Economico Finanziario appena varato, le stime governative sono sempre ottimistiche, storicamente, sottostimano i parametri negativi (inflazione programmata, disoccupazione) e sovrastimano quelli positivi (minore riduzione del PIL rispetto a tutte le altre previsioni).
Una sottovalutazione della caduta del PIL avrà inevitabilmente effetti a catena sulla conduzione della politica economica. Se la previsione è sbagliata il rapporto debito/PIL aumenta in misura maggiore del previsto, aumenta l’incidenza degli interessi, ma il saldo deve comunque rimanere invariato e quindi, ad ogni previsione sbagliata deve corrispondere una manovra correttiva fatta di tasse o di nuovi tagli.
Entrambe le soluzioni portano ad una ulteriore caduta del PIL, ad una ulteriore manovra correttiva e via proseguendo, con effetti recessivi potenzialmente illimitati.
Lo stesso effetto a catena potrebbe essere generato da variazioni nello spread dei nostri titoli, grandezza che è fuori dal nostro controllo.
Per queste ragioni un nutrito gruppo di Premi Nobel (tra cui Solow) hanno di fatto impedito con un appello che Obama introducesse il pareggio di bilancio nella Costituzione degli Stati Uniti.
Ulteriori problemi nasceranno, in particolare, nel combinato disposto con le norme già in vigore, specialmente per ciò che riguarda il Patto di Stabilità interno. Il dissesto di bilancio di un piccolo, o grande, comune italiano non può più essere sanato dallo stato.
Ma questo anziché generare un circolo virtuoso genererà ulteriori rigidità di bilancio, con gli amministratori locali chiamati ad accantonare risorse per le emergenze, verosimilmente, tagliando i servizi e generando tensioni sociali (anch’esse costose).
La stessa alternanza dei governi creerà instabilità, una eventuale caduta di un governo, regione o provincia, che sia anticipata rispetto alle scadenze diventa catastrofe? Non lo è ma potrebbe esserlo se i saldi di bilancio sono chiusi.
Sul piano costituzionale si rischierà di avere un conflitto fra norme, l’art. 3 assegna alla Repubblica il compito di rimuovere gli ostacoli economici e sociali che limitano lo sviluppo delle persone e l’uguaglianza delle stesse. Cosa accadrebbe nel caso in cui lo stato, per via del vincolo di bilancio, dovesse intervenire ulteriormente sulla scuola o sulla sanità intaccando i livelli percepiti come “essenziali” dalla popolazione?
Oltre certi limiti il vincolo di bilancio potrebbe diventare ostativo delle funzioni che la Costituzione stessa assegna allo Stato.
In conclusione, l’approvazione forzata, quasi senza discussione da parte dell’opinione pubblica, di un provvedimento dalle conseguenze potenzialmente devastanti come l’obbligo del pareggio di bilancio, rappresenta a mio avviso, la peggiore delle scelte politiche che si potevano compiere da parte del governo tecnico.