Salvatore
Perri
Abstract
E’
un luogo comune piuttosto diffuso quello che vuole il Lavoro ed il Reddito in
contrapposizione fra loro. Senza lavoro non può esserci reddito, il reddito assegnato
senza una contropartita distrugge il lavoro. Nell’Italia del 2013, che ha un
passato ed ha un futuro, le tendenze macroeconomiche e socio-politiche
certificano l’esatto contrario. Senza reddito non ci sarà lavoro ed il declino
italiano sarà irreversibile.
Quale
lavoro. E’ impossibile ricostruire in poche righe la storia
industriale italiana. Tutti sanno che dalla fine degli anni 70 è cominciato un
sostanziale smantellamento della grande industria del nord-ovest, rimpiazzato
in parte dal “miracolo” dei distretti industriali del NEC (nord-est, centro).
Molti studiosi si sono soffermati sulla natura di questi distretti,
enfatizzandone gli aspetti peculiari. Ai nostri scopi è essenziale affermare
che tutte queste trasformazioni sono state “labour saving” ovvero, i progressi
tecnologici hanno consentito di risparmiare lavoro. Viene prodotto un maggior
volume di produzione con un minore impiego di lavoratori. Maggior reddito più
disoccupazione. Parallelamente la dimensione media dell’industria è diminuita
ed il peso dei lavoratori sindacalizzati si è contratto di conseguenza. Meno
lavoro, minore influenza dello stesso nella società. Il sud (alcune parti di
esso) in questa storia ha un destino a se stante, seppur funzionale allo
sviluppo del nord-est, esso è stato un mercato protetto per le merci
settentrionali finanziato in larga parte dai trasferimenti statali (sotto forma
di finanziamento di lavori non direttamente produttivi o pensioni).
Le
risposte politiche. Rispetto alla condizione che si
delineava la politica ha risposto con provvedimenti inadeguati. Maggiore
disoccupazione? Si cambiano i contratti rendendoli “flessibili”. Questo ha
fatto sì che da un lavoro a tempo indeterminato ne scaturissero un paio a tempo
determinato, ma con un minor monte salari complessivo, senza che ciò
comportasse un’inversione della tendenza. Rispetto alle imprese le politiche
sono state di 2 tipi: detassare gli straordinari e spingere ogni disoccupato a creare
una nuova impresa. Entrambe le politiche si sono rivelate fallimentari. Incentivare
gli straordinari determina un ulteriore risparmio di lavoro, mentre le nuove
imprese in un mercato asfittico non hanno margine di sviluppo, come è
dimostrato dalla notevole mortalità nel primo anno di attività delle stesse.
Le
Risposte Politiche 2. In termini di risposta a questa crisi, a
livello ideologico si è pensato di competere al ribasso sui salari, raggiungendo
l’equilibrio dei conti attraverso tagli al welfare, alla scuola ed università
(solo pubblica). A livello locale invece, la classe politica ha capito
perfettamente come sfruttare le debolezze del contesto normativo nazionale ed
europeo. In passato c’è stato un abuso di finanziamenti statali volti alla
creazione di “finti” lavori. Più o meno le buche Keynesiane per intenderci
(fondi agricoli, Forestazione, LSU, LPU). La logica è lavorista, non puoi
ricevere reddito se non fai nulla. In pratica questi lavori erano produttivi in
modo indiretto (come con il Reddito D’Esistenza) con la differenza che questo
meccanismo ha alimentato negli anni il mercato delle vacche politico-elettorali.
Il passato ritorna oggi in altre forme, stessi risultati. Il settore pubblico
non può assumere? Si creano società miste pubblico-privato che assumono, sempre
sotto dettatura politica, poi poco conta se i lavoratori non lavorano e le
società vengono chiuse con passivi da debito di guerra. L’importante è essere
fintamente lavoratori, almeno per un giorno, per poter iniziare la vertenza
sindacale ed usufruire della cassa integrazione. Stesso discorso per gli
incentivi alla nascita delle imprese, diceva un vecchio adagio “se tutti fanno
la pasta, ognuno mangia la sua”. Il mito delle imprese che creano sviluppo
(sempre) esiste dai tempi della legge degli sbocchi di Say, il problema è che
fù confutata da Keynes e sotterrata dalla grande depressione, ma evidentemente
esercita un certo fascino ancora oggi, soprattutto in chi non conosce la
storia. L’incentivo alla nascita di nuove imprese non è sempre sbagliato, lo è
quando i mercati sono saturi. Se manca la domanda aggregata le nuove entranti
devono dividersi la scarsa domanda con le imprese che già ci sono, le quali
hanno un vantaggio competitivo dall’essere già sul mercato (Microeconomia
livello “basic”). Di conseguenza le imprese create per produrre grazie
all’incentivo muoiono spesso nei primi mesi di vita. Le imprese create per
distrarre fondi pubblici (o comunitari) chiudono appena gli incentivi vengono
riscossi, a volte senza neanche aprire i capannoni. In questi casi avviene il
miracolo del lavoratore che deve iniziare la vertenza contrattuale avendo
prodotto per “zero ore”.
“Diamogli
la canna da pesca.” Un altro dramma tutto locale, si compie
quando vengono applicate le “best practices” europee al mercato italiano. La
strategia di Lisbona, tra le altre cose, proponeva di riqualificare i
lavoratori attraverso la formazione permanente, si finanziano quindi corsi di
formazione “purchessia” nelle regioni svantaggiate. Concetto giusto
applicazione sbagliata. In primo luogo è paradossale che si finanzino corsi
anche all’esterno degli enti di formazione preposti (scuole ed università)
mentre gli stessi vengono deprivati di risorse. Ma a parte l’illogicità di un
tale approccio, questi corsi passano per la mediazione politica che indirizza
le risorse, non effettua controlli, non effettua indagini di mercato per sapere
di quali figure c’è bisogno. In buona sostanza i corsi di formazione servono a
stipendiare passivamente gli enti formatori, i loro dipendenti e gli studenti
che ricevono l’incentivo orario. Esiti di questi finanziamenti? Risibili, se
non altro perché al termine del periodo di fruizione dei fondi comunitari per
la formazione (2008-2013) la disoccupazione stà toccando i suoi picchi proprio
nelle regioni svantaggiate. Per sfatare la metafora si può dire che è inutile
che mi insegni a pescare e mi dai la canna da pesca se poi mi mandi in un lago
senz’acqua in cui quelli prima di me hanno pescato con l’esplosivo. Anche qui
c’è un paragone storico da non sottovalutare, la logica della canna da pesca è
stata utilizzata nei magici anni ’80 per giustificare gli aiuti allo sviluppo
in Africa, aiuti che spesso si concretizzavano in megatangenti ai politici e
traffici di scorie radioattive.
La
(quasi) fine del lavoro salariato. Ci troviamo di fronte
ad una condizione nella quale il lavoro subordinato come concetto è
dequalificato sul piano valoriale. Deve essere retribuito meno, ma chi guadagna
meno vale anche meno (nella società moderna siamo ciò che abbiamo). Il lavoro
salariato è contemporaneamente uguale e diverso, in termini di trattamento
economico e di mansione svolta, il precario svolge la stessa mansione del
collega a tempo indeterminato ma non ha gli stessi diritti. Il finto
lavoratore, cooptato con logiche politiche, ha gli stessi diritti degli altri
pur non essendo un lavoratore. Il lavoro è un semi-diritto, in quanto non c’è e
non ci sarà per tutti, ma coloro che non lo hanno meritano il discredito
sociale per questo (sono portatori individuali di colpe sociali), anche perché
non sono stati in grado di costruire relazioni per averlo (o non hanno voluto
pagarne il prezzo). In sostanza anche la libertà del lavoratore-individuo
diventa un valore negativo.
Conclusioni.
Riassumendo,
il mercato del lavoro si comprime dal punto di vista dimensionale perché c’è
una tendenza alla riduzione del lavoro impiegato. Il lavoro che rimane viene ripartito
in modo arbitrario in una tripartizione fra lavoratori salariati veri,
lavoratori sussidiati e precari (veri o sussidiati anch’essi). In ogni caso le
politiche adottate comportano una riduzione complessiva dei salari erogati.
Viene così meno una parte della domanda interna ed una parte della produzione
cessa di essere “giustificata”. Si determina una ulteriore diminuzione del
lavoro necessario e la spirale ricomincia, potenzialmente senza limiti. Si può
interrompere questa spirale in due modi complementari fra di loro:
redistribuendo il lavoro delle aziende ancora produttive in modo da aumentare
il numero dei lavoratori attivi, riconoscere i finti lavori per quello che
sono, riconducendo le miriadi di forme di sussidio ad una unica forma di
Reddito d’Esistenza da attribuire a tutti coloro che non godono di un contratto
“dignitoso”. Si interromperebbe la caduta della produzione, dell’occupazione,
ma anche la perdita di competitività dovuta alla presenza del lavoro sussidiato
e delle corruttele che lo determinano.