Salvatore
Perri
Sempre più spesso si
ascoltano ragionamenti secondo cui gli Economisti non servirebbero a nulla in
quanto, non hanno previsto la crisi, non la risolvono, nonché varie ed eventuali,
tanto varrebbe chiudere i corsi di Economia ed andare in collina. A poco vale
sottolineare un passaggio di Galbraith che, citando Marx, spiegava che il
capitalismo “avanza per crisi”, ma
queste cose in genere si leggono nei corsi di Economia.
La mia opinione è che
non ci si improvvisa Economisti dalla mattina al pomeriggio, come non ci si
improvvisa Medici, Astrofisici o Esperti di Storia dell’Arte. Ma anche all’interno
della stessa categoria degli Economisti ci sono una moltitudine di
specializzazioni come in Medicina. A puro scopo di esempio, ho scoperto di
avere il reflusso andando dal Gastroenterologo, fossi andato dell’Ortopedico
non credo che avrei mai iniziato una terapia.
Ovviamente chiunque può
dire cose intelligenti dal punto di vista economico, soprattutto se svolge
professioni per le quali questo è necessario, in particolare quando si và sul
piano tecnico specifico ci sono degli analisti nel privato che ne sanno più dei
docenti. E’ piu’ difficile, invece, che un profano assoluto della materia ci
offra soluzioni strutturate a livello “Macro”, perché le problematiche non sono
mai banali.
Il Macroeconomista (lo
studioso di Economia Politica) è assimilabile ad un Medico specializzato in “Medicina
Generale”, analizza il soggetto, osserva le sintomatologie, e sulla base della
propria cultura ed esperienza fornisce una diagnosi ed una prognosi. La
differenza è il soggetto, che non è un complesso organismo umano ma un
altrettanto complesso sistema economico. Anche le diagnosi mediche a volte non
è detto siano giuste, ma non per questo bisogna chiudere le facoltà di
Medicina. Cosa sia un Economista dal punto di vista formale lo ha spiegato
Fabio Sabatini in un articolo su Micromega e Repubblica. Ma anche all’interno
della categoria degli “Economisti” in senso stretto si può integrare la
classificazione di Sabatini con altre 3 categorie.
Ci sono gli “Illuminati”
cioè coloro che, in base ai loro studi e ricerche, analizzano correttamente i
fenomeni economici e sono in grado di anticipare le dinamiche future fornendo
spunti per la correzione delle politiche economiche. Ci sono i “Fulminati” che
si sono svegliati una mattina convinti di avere le risposte a tutte le domande,
oppure che una particolare teoria a cui sono affezionati sin da bambini salverà
l’universo-mondo e non và messa in discussione pena la scomunica. In ultimo,
sicuramente per importanza, ci sono i “Mistici”, che hanno avuto carriere così
miracolistiche da essere troppo impegnati a rendere omaggio ai loro Santi Patroni
per accorgersi che c’è un mondo là fuori, ma almeno questi ultimi non sono
dannosi per l’ambiente perché non li si vede e non li si sente.
Io non so se sono
Illuminato o Fulminato (o entrambe), lascio a chi legge i miei pezzi
stabilirlo, sicuramente non sono Mistico (visto l’andamento della mia
carriera).
Per certo Eckhard Hein
è uno studioso serio e razionale. Ho letto il suo ultimo libro “The Macroeconomics of Finance-dominated
Capitalism – and its Crisis” edito da Edgar Elgar (2012), e credo che
possa rappresentare un ottimo esempio di che cosa vuol dire fare i
Macroeconomisti.
Hein analizza le
trasformazioni economiche provocate da un capitalismo dominato dalla finanza,
individuando i canali attraverso i quali esso opera e propone soluzioni di
politica economica per uscire dalla crisi. Fa tutto questo attraverso l’analisi
dei dati di un gruppo di paesi c.d. “avanzati” e con l’ausilio del modello di crescita
endogena proposto originariamente da Kalecki.
In primo luogo, l’autore
dimostra che nel capitalismo dominato dalla finanza il reddito da lavoro si
riduce a vantaggio dei profitti da capitale, delle rendite finanziarie e dei
salari dei managers. Questo meccanismo non sarebbe di per sé dannoso, se i
profitti così ottenuti fossero reinvestiti nell’economia reale. Invece Hein
nota che la finanziarizzazione dell’economia produce un regime economico nel
quale l’orizzonte temporale degli investimenti “si accorcia”. In pratica gli
operatori guardano al brevissimo periodo, cercando di massimizzare i profitti
finanziari in poco tempo, di conseguenza, si ottiene come risultato un sistema
in cui ci sono “profitti senza investimenti”. Per esemplificare, anziché in una
azienda si investe nel fondo speculativo.
Sostanzialmente a
livello macro, ciò che avviene è un’estrazione di rendita finanziaria
sovranazionale, laddove i capitali sono liberi, mentre il reddito dei
lavoratori e le risorse a disposizione delle imprese si riducono.
Hein nota anche che i
regimi economici che emergono dal capitalismo finanziario sono estremamente
instabili dal punto di vista macroeconomico. In una mia ricerca, (che spero sia
pubblicata a breve), dimostro empiricamente che l’instabilità macroeconomica impedisce
una corretta trasformazione dei risparmi in investimenti, accentuando il
fenomeno sottolineato da Hein. Pertanto unendo questi due argomenti si ottiene
un circolo vizioso potenzialmente devastante e senza limiti.
Un altro aspetto
interessante riguarda il cambiamento di risultati considerati come acquisiti
dalla letteratura classica. Si sosteneva che un aumento del potere degli
azionisti all’interno della società comportasse un incremento del tasso di
accumulazione del capitale e di conseguenza della crescita di lungo periodo.
Secondo Hein, le dinamiche descritte in precedenza ci raccontano un’altra
storia, gli azionisti utilizzano i dividendi per il profitto di breve periodo,
e per le ragioni di cui sopra, sottraggono denaro alla circolazione “produttiva”
privilegiando quella speculativa. Di conseguenza l’aumento del potere degli
azionisti anziché agire come stimolo alla crescita finisce per deprimerla.
Quando Hein introduce
esplicitamente nel modello il debito privato, i risultati che ne scaturiscono
sono tutt’altro che incoraggianti. Come abbiamo detto il reddito dei lavoratori
si stà riducendo, gli stessi per mantenere un livello congruo di consumi si
indebitano. Ma se il tasso di interesse è più alto del tasso di crescita dell’economia
il debito aggregato tende a crescere senza limiti, in assenza di regolazione
esterna (fenomeno che avevo analizzato in
un altro pezzo).
Successivamente l’autore
mette in evidenza che l’esplosione del debito in alcuni paesi europei ha
colpito anche gli altri, perché la riduzione della domanda aggregata
complessiva ha danneggiato le loro esportazioni.
In conclusione e
riassumendo, il capitalismo dominato dalla finanza (insieme alle politiche
economiche neo-liberiste) è alla base della crisi che stiamo vivendo. Per
uscire da questa situazione è necessario, secondo Hein, muoversi su diversi
profili. A livello intranazionale devono essere varate politiche fiscali che restituiscano
potere d’acquisto ai redditi da lavoro, anche in termini di aumenti salariari.
Questo ridurrebbe gli effetti derivanti dall’incremento del debito privato. Per
quanto riguarda il contesto europeo, Hein sostiene che sia necessario un
maggior coordinamento delle politiche economiche tra i diversi stati, al fine
di muovere risorse dai paesi in surplus commerciale verso quelli in deficit per
ridurre gli squilibri (che durante la crisi sono aumentati).
Un aspetto decisivo in
questo senso è la considerazione che l’ampiezza dei fenomeni evidenziati ha
dimensione sovranazionale, di conseguenza anche una buona politica, varata dal
singolo stato potrebbe rivelarsi inefficace, se gli altri paesi fanno l’opposto.
Inoltre è necessario, secondo l’autore, reintrodurre la separazione fra banche
commerciali e banche d’investimento, oltre ad una efficiente regolazione del
settore finanziario a livello sovranazionale.
Ovviamente nel libro c’è
molto di più ed ho sottolineato solo gli aspetti che hanno colpito la mia
curiosità, pertanto ne consiglio la lettura ai più “appassionati di Economia”.
Economisti e non.