giovedì 22 marzo 2012

La fine del lavoro salariato


C’è qualcosa di profondamente sbagliato nel modo in cui la coppia Fornero-Monti ha approcciato il tema della riforma del mercato del lavoro e dell’art.18, ma non dal punto di vista metodologico, ovvero dei rapporti sindacali o della comunicazione con le forze politiche, bensì proprio nel contenuto “economico” della riforma, che appare sottovalutare l’effetto che potrebbe avere sull’intera struttura economica italiana.

Chi si occupa di tendenze Macroeconomiche di lungo periodo, a rischio di essere tacciato di essere un teorico dei massimi sistemi, affronta da tempo il tema del peso del lavoro salariato all’interno dei sistemi economici moderni, e di come esso sia destinato a diminuire per via del mutamento delle forme e della composizione della struttura economica.

La riforma che si appresta a varare il governo tecnico và esattamente nella direzione di ridurre il lavoro salariato a qualcosa di inferiore dal punto di vista valoriale, qualcosa di cui ci si può liberare per interessi superiori, tra l’altro neanche ben definiti.
Consentire il licenziamento individuale per “motivi economici” apre la strada ad una drastica riduzione dei diritti sul luogo di lavoro, consentendo indirettamente il licenziamento discriminatorio.

Supponiamo che un lavoratore 55enne sia inviso alla proprietà dell’azienda non perché lavativo o peggio, ma solo perché attivista sindacalmente o politicamente.
L’azienda può licenziarlo per ragioni economiche ed assumere il giorno dopo un 20enne precario con mansioni solo lievemente differenti. E’ possibile questo? Non solo lo è ma sarà inevitabile.

Il lavoratore potrebbe ricorrere al giudice dicendo che il licenziamento non è per motivi economici bensì per motivi discriminatori, a questo punto si aprono i tempi biblici della giustizia italiana (vera emergenza per tutti tranne che per il governo tecnico), il lavoratore resta a casa ed il precario vive la sua illusione di essere un lavoratore.
Nel giudizio all’azienda servirà soltanto dimostrare che il nuovo lavoratore era funzionale ad un riassetto economicamente vantaggioso per l’azienda (è un motivo economico) ed il gioco è fatto, basterà mentire con giudizio (mi serviva un saldatore che conosce 3 lingue rispetto ad un saldatore normale).

L’Italia è il paese delle simulazioni contrattuali, delle false partita iva, dei veri docenti universitari travestiti da falsi co.co.co, quale sarebbe il freno inibitore che dovrebbe fermare le aziende dal licenziare a piacimento? La bontà non è una ragione economica sufficiente.

Senza contare che è il lavoratore che deve ricorrere al giudice, con i costi che questo implica, essendo il lavoratore la parte debole del rapporto di lavoro si può facilmente prevedere che acconsentirà a farsi ridurre i propri diritti pur di mantenere il posto, anche a costo di dimettersi per farsi riassumere in altra forma.

Questo passaggio è fondamentale, ed in un paese con alta disoccupazione avrà effetti devastanti sulle condizioni generali del lavoro, ci sarà una guerra fra poveri che non avrà vincitori, perché il lavoratore stressato lavora peggio e perché il turn-over selvaggio riduce anch’esso la produttività. 

Due Economisti avrebbero dovuto prevederlo.

A meno che non ci indichino la via luminosa, che noi moralisti del giorno dopo non siamo in grado di vedere, oppure che ci dicano ancora una volta (falsamente) che è l’Europa che ce lo chiede, la stessa Europa che ci chiede da tempo di ratificare le norme anticorruzione, una giustizia efficace, un sistema radiotelevisivo plurale.

Ma si sa, ci sono richieste e richieste.

Salvatore Perri

venerdì 24 febbraio 2012

Uscita dall’Euro all’italiana: Tragedia o Farsa?


Prolifera in rete, e non solo, il dibattito sulla crisi, sulle sue cause, sulle sue possibili conseguenze, sugli strumenti per combatterla efficacemente e sulle prospettive future (se ancora ne avremo).
Tra le proposte “impossibili” che ho letto recentemente, e che mi sembra particolarmente assurda, c’è quella di un ritorno ad una moneta interna diversa dall’Euro, gestita da una banca nazionale, così come avveniva fino all’ingresso dell’Euro nelle nostre vite.
In un paese del genere ci siamo già stati, pertanto non mi resta altro che riproporre “per fatti stilizzati” una delle mie lezioni più apprezzate, che tenevo (come esercitatore) presso l’Università della Calabria, allo scopo di spiegare perché l’Italia entrò nell’Euro.
Lascio al lettore stabilire se è praticabile oggi una fuoriuscita e spiegarne i benefici.
Durante ed a seguito della crisi petrolifera del ’75, si scatenò un’ondata inflazionistica senza precedenti che portò il tasso d’inflazione fino al 26% annuo, la causa scatenante non fù interna ma innescò una spirale prezzi-salari-prezzi che mise in discussione il meccanismo della scala mobile e di conseguenza le politiche economiche di stampo Keynesiano.
Ma l’effetto più grave fù l’innescarsi di un meccanismo irreversibile che portò ad una accelerazione della crescita del debito pubblico.
La ragione è semplice, un investitore acquista titoli di debito se i tassi di rendimento attesi garantiscono un guadagno al netto del tasso di inflazione corrente.
Va da sé che negli anni seguenti il Governo (i Governi che si succedevano a velocità supersonica) avrebbero dovuto ridurre l’emissione di nuovo debito magari sostituendolo con la tassazione degli ingenti profitti che le imprese esportatrici realizzavano grazie alla costante svalutazione della Lira (dovuta anch’essa all’inflazione).
Ciò non avvenne e l’Italia continuò ad emettere nuovo debito confidando nell’obbligo che aveva la Banca Centrale di acquistare tutti i Bot invenduti al termine delle aste. Di fatto il Governo gestiva sia la politica fiscale che quella monetaria. Il sistema politico dell’allora Pentapartito (i cui eredi diretti oggi ci richiamano alla sobrietà) non ridussero la spesa pubblica, anzi, moltiplicarono gli enti intermedi, le poltrone, consulenze, incrementando gli stipendi di tutti i funzionari, e gestendo fondamentalmente la spesa pubblica a fini di gestione del consenso politico.
Si arriva così al fatidico ’92 anno in cui si diffonde l’aspettativa concreta di un fallimento dell’Italia per debito eccessivo (ha raggiunto grazie agli interessi la dimensione del 120% del PIL). Gli investitori internazionali cominciano a vendere Lire, in un sistema a cambi fissi (semi-fisso come era lo SME) la Banca Centrale è obbligata ad acquistare qualsiasi ammontare di Lire cedendo in cambio Titoli, valute estere oppure oro.
Siccome le ricchezze detenute dagli speculatori sono sempre superiori a quelle di un singolo stato, la Banca Centrale dopo aver chiesto l’aiuto di Francia e Germania è costretta a sospendere la convertibilità della Lira. Per alcuni mesi il cambio è incerto 1 Lira vale something con danni incalcolabili ai nostri scambi internazionali. La lira perde il 40% del proprio valore, e l’inflazione che era rientrata in termini accettabili grazie allo SME (ma sempre attorno al 10%), cominciò a ripartire.
Per tamponare una situazione ormai al collasso Amato vara la famosa finanziaria da 100.000 Miliardi e la Banca Centrale cessa di essere obbligata a comprare titoli pubblici (il c.d. divorzio).
Questo al fine di impedire ai partiti di finanziare il loro consenso ai danni della collettività.
Nel frattempo in Europa, dopo aver “fatto fuori” la Lira, la speculazione internazionale attaccò Franco e Marco, a quel punto si decise che c’era un solo modo per fermare la speculazione internazionale sulle valute, la moneta unica ed il mercato unico. Il resto è contemporaneità.
Riassumendo i possibili effetti (già vissuti) della moneta sovrana sono:
  • svalutazione, in caso di crisi, con vantaggi per pochi esportatori e svantaggi per tutti, per via dell’aumento dei prezzi e della riduzione del potere d’acquisto della moneta, ricordando che l’Italia importa tutte le materie prime ad una svalutazione segue sempre un’ondata inflazionistica (siamo stati al 26%, poi al 10%, adesso siamo al 2%),
  •  riduzione delle riserve auree per pagare i maggiori costi delle importazioni,
  •  assenza di controllo del sistema politico, che può sempre espandere la spesa finanziandola con moneta, con le conseguenze in termini di debito pubblico che abbiamo già visto.
In conclusione, un eventuale fallimento dell’Euro ed il ritorno alle scaramucce tra paesi vicini (guerre commerciali, dumping, dazi) porterebbe solo ad un impoverimento collettivo che andrebbe ben oltre quello odierno, con conseguenze incalcolabili. Aggiungo che si riconsegnerebbe il comando complessivo alla stessa classe politica che ci ha portato sin qui, siamo sicuri che sia un vantaggio?
Piuttosto che tornare indietro si dovrebbe andare avanti, con la sovranità del Parlamento Europeo (che oggi vara solo direttive), il coordinamento di Politiche Fiscali e Monetarie orientate al welfare ed ai diritti. Grazie all’Euro abbiamo importato solo il tasso d’interesse tedesco (per un decennio) ma non i sussidi di disoccupazione della Germania, ne il sistema di protezione sociale Svedese.
Edmund Burke diceva "chi non conosce la storia è destinato a ripeterla", speriamo che la nostra storia ci abbia insegnato almeno a non fare gli stessi errori.
Salvatore Perri

domenica 12 febbraio 2012

Prima che la Grecia muoia.

Non ho la presunzione che bastino le mie parole, non ho neanche la presunzione di credere che le immagini e le voci che ci giungono dalla Grecia in ginocchio siano piu' forti del nostro senso di inadeguatezza, e della nostra incapacita' di scrollarci di dosso quel pensiero malato di "finire come la Grecia".

La Grecia non finisce, nemmeno finiranno le sofferenze di un popolo che, chi ama l'Europa come me, considera fratello.

La crisi greca e' originata dalle speculazioni finanziarie di opportunisti senza scrupoli, scrupoli che sono mancati anche ad una buona parte dell'allora governo greco. Non l'hanno originata ne i lavoratori e ne i pensionati greci che sono chiamati a pagarla.

E allora? Quando fini' la prima guerra mondiale la Germania era in ginocchio, ma i vincitori imposero il pagamento dei debiti di guerra affamando ed opprimendo ancora di piu' il popolo tedesco. Keynes abbandono' la conferenza di pace, egli premeva perche' fossero concessi aiuti alla Germania, affinche' potesse risollevarsi e con lei l'Europa. Non fu' ascoltato. Sappiamo come ando' a finire di li a qualche anno.

Bisogna fare pressione affinche' i governi europei concedano piu' tempo, piu' risorse, piu' moneta, o tutte e tre queste cose insieme, e' una scelta politica, soltanto questo.

Non bisogna lasciare che la storia si ripeta.

Altrimenti non morira' solo la Grecia, ma anche quella parte di noi che voleva un'Europa umana.

venerdì 3 febbraio 2012

Il "Licenzia Italia".


Il decisionismo di Fornero e Monti nel proporre una revisione (non si sa quanto drastica) dell'art. 18 dello statuto dei lavoratori, riporta il tema al centro dell'attenzione, scatenando un dibattito dai temi per certi versi assurdo.

Quando si decide una modifica normativa su un tema così delicato si cerca di orientare la discussione sul futuro che si desidera, rispetto al futuro che potrebbe realmente esserci, perchè siamo nell'Italia del 2012, che ha una sua struttura economica, una sua struttura sociale e che ha sopratutto delle caratteristiche peculiari, che potrebbero rendere inapplicabili sistemi normativi funzionanti altrove.

Proverò ad analizzare l'insieme delle argomentazioni a supporto di una liberalizzazione totale del mercato del lavoro, ed alcuni dei suoi possibili effetti, diretti ed indiretti.

1) Il mercato del lavoro in Italia non funziona perchè è troppo rigido, maggiore apertura creerebbe nuovi posti di lavoro.
Secondo questa prospettiva, sostenuta dagli economisti di scuola Liberista, dando piena libertà di licenziare per motivi economici si aumenterebbe la mobilità sociale e verrebbero così ad aumentare i posti di lavoro complessivamente disponibili sel sistema Italia. Il processo in sè appare misterioso, come è possibile creare posti di lavoro licenziando? Nessuno lo sà. Questa soluzione avrebbe un senso se in Italia mancassero i disoccupati e quindi "liberando" forza lavoro in un settore in declino si potrebbe spostarla verso i settori in forte crescita. Il valore del tasso di disoccupazione, della cassa integrazione e del precariato, mi fanno concludere con una certa serenità che non sia questo il caso.
Aumentare la possibilità di licenziare, in un momento di stagnazione economica e di difficoltà di sbocco delle merci, nel breve-medio termine creerebbe solo nuova disoccupazione.

2) Le imprese non possono licenziare.
Falso, non possono farlo per motivi discriminatori, se così fosse non ci sarebbero in Italia le migliaia di vertenze sindacali che conosciamo oggi. Addirittura esistono casi come quello di CAI-Alitalia nel quale si mettono operai in cassa integrazione per assumerne di precari (con un costo doppio per lo stato) oppure il caso OMSA nel quale le lavoratrici vengono licenziate in Italia ed assunte in Serbia. Agevolare i licenziamenti per "generici" motivi economici porterebbe in Italia gli stipendi della Serbia. Bassi salari corrispondono a bassa produttività, ed una riduzione del monte salari complessivo comprimerebbe i consumi ed i risparmi, e quindi secondo tutte le teorie economiche accellererebbe la crisi.

3) Le imprese non possono assumere.
Altra falsità, in Italia allo stato attuale esistono 46 forme contrattuali flessibili (ma non mi stupirei di averne dimenticato qualcuna). Questo rende l'Italia il paese a più alta flessibilità in entrata del mondo occidentale. I risultati di questa sfavillante miglioria sono sotto gli occhi di tutti. Bassi salari, contratti di brevissima durata, l'incentivo di sbarazzarsi dei lavoratori entro i 3 anni per evitare le assunzioni, la proliferazione di truffe a vario titolo con vere e proprie "simulazioni" contrattuali. Contrariamente a quello che si sosteneva in fase di approvazione di queste norme salvifiche, il lavoro non è aumentato, i nuovi assunti sono per la gran parte precari, il lavoro precario è stato utilizzato dal settore pubblico per aggirare il bocco delle assunzioni e sopratutto, si è creata una generazione (direi 2) di "desaparecidos" contributivi che potranno aspirare al massimo alla pensione sociale minima (se non verrà riformata anch'essa).

4) Le aziende straniere non investono in Italia a causa dell'eccessiva rigidità del mercato del lavoro.
Secondo un'indagine recente le imprese straniere non investono in Italia perchè il processo civile è tra i più lunghi al mondo. La priorità non sarebbe quindi poter assumere e licenziare visto che, tra l'altro, ci sono le 46 forme contrattuali per assume e le corrispondenti 46 per licenziare senza incorrere in sanzioni. La farraginosità della burocrazia e l'eccesso di corruzione fanno si che le imprese straniere sane rifuggano dal nostro paese, ma forse aggredire questi problemi è più difficile che prendersela con la FIOM, che è un nemico più semplice da affrontare.

5) Si è creata una disparità di trattamento fra lavoratori garantiti e non.
Vero, ma questo si è creato appunto con le forme di lavoro precario, un modo serio di affrontare la questione sarebbe quello di ridurle a poche forme chiare, con le tutele del caso che servano a garantire la continuità contributiva (ma anche la continuità dei consumi e dei risparmi). Insistere sull'aumento della precarietà come primo punto è un modo per eludere il problema. Si corre concretamente il rischio di destabilizzare definitivamente la struttura sociale del paese.

6) Il posto fisso è noioso.
Volendo chiudere con una battuta, in Italia nessuna legge impedisce di licenziarsi e cambiare lavoro, lo possono fare tutti, ma non ho mai incontrato un professore universitario che abbia cambiato mestiere, a parte quelli della mia generazione che professori non lo saranno mai, parlare dalla sua posizione Prof. Monti, anche dal punto di vista pedagogico, è stato di pessimo gusto, mi ha ricordato un celebre megadirettore naturale dei films di Fantozzi...... "voi cari inferiori...".

Salvatore Perri


venerdì 27 gennaio 2012

Il giovane Michel ed il vecchio dentro.

Ho dato il beneficio del dubbio a Michel Martone, il messaggio "chi è iscritto all'Università e non si è laureato a 28 anni è uno sfigato", l'avevo preso per quello che era, una provocazione. D'altro canto, una persona della sua cultura, sapeva perfettamente che avrebbe generato un dibattito, nel quale avrebbe potuto esplicitare meglio le sue idee magari rendendole vincenti e digeribili all'opinione pubblica, anche studentesca.

Ma, dopo aver visto la prima mezz'ora della sua partecipazione ad "8 e mezzo" devo dire che mi sbagliavo.

Partiamo dal concetto in sè, essere iscritti a vita all'Università credo non possa essere considerato motivo di vanto, ma che senso ha stabilire un'età? Che calcolo ha fatto il buon Michel? Vediamo, se il corso di studi è quinquennale Michel regala 4 anni da fuori corso prima di entrare nella "sfiga area", ma questo vale per tutti? Dalle materie umanistiche a quelle economiche e sociali..... ma gli Ingegneri? I tempi medi di Laurea, ai nostri tempi, erano di 9 anni per un Ingegnere Civile (a Cosenza dove ho studiato), questo non perchè fossero particolarmente stupidi, ma perchè fare Scienze delle Costruzioni, Fisica Tecnica ed altre quisquiglie prendeva un certo tempo. Dargli anche degli sfigati mi sembra troppo, quelli che ho conosciuto io hanno già sofferto abbastanza. Per non parlare di Astrofisici, Fisici, Chimici, Matematici etc.  Da uno scienziato ci si aspetterebbe maggiore cautela, dire "4 anni in più del tempo medio di laurea del settore scientifico..." sarebbe suonato un pò meglio.
Sfigato come termine poi, io non lo userei neanche al bar, fà molto supergiovane.

Successivamente c'è chi si iscrive a 30 o anche dopo, è sfigato in partenza? In molti paesi si parla di "formazione permanente" ma siamo su altri pianeti, più banalmente la cultura è uno dei pochi beni che generano un impatto socio-economico sempre positivo, basti pensare alla capacità di interpretare un documento qualsiasi, dinstinguere fra quali siano i comportamenti virtuosi e quali non, il senso civico etc.

Mettere al tempo di studio la scadenza tipo yogurt mi appare quanto mai fuori luogo.
 
La stessa argomentazione sui sedicenni che sono bravi se scelgono istituti tecnico-professionali e non l'università mi pare piuttosto debole. In primo luogo perchè raramente i diplomi tecnico professionali incontrano la domanda effettiva di lavoro (motivo pratico), secondariamente a 16 anni difficilmente si è in grado di sapere se si diventerà astronauti o racchettapalle a Wimbledon, ghettizzare in partenza alcuni come adatti solo a fare lavori manuali mi pare un po eugenetico (motivo teorico) e nel Sud Italia potrebbe regalare personale ad un altro tipo di imprese.
Meglio una scuola di qualità per tutti, che insegni le basi e poi ognuno si specializza come crede, anche in azienda, altrimenti i contratti di formazione e apprendistato a cosa servono?

A questo punto durante la trasmissione ci si aspetta che Michel spieghi, dopo essersi preso il sacrosanto cazziatone da Zucconi dagli States ed aver chiesto scusa (lodevole), una studentessa elenca i problemi "reali" che affrontano gli studenti, dalla mancanza di alloggi all'inadempienza degli Atenei con le borse di studio, che penalizzano tutti ma impattano ancor più brutalmente su quelli bravi con meno risorse che troppo spesso abbandonano (i veri sfigati).

Ma finalmente quando è il suo momento Martone dà il peggio di se, citando debito pubblico e spread, mancava l'umidità, che diavolo di senso ha sollevare un tema per poi sfuggirne?

Se i tempi di laurea si dilatano in Italia, ciò è dovuto ad una serie di problemi gravi che attanagliano l'Università da molti anni, ne cito solo alcuni che ho riscontrato personalmente: dalla qualità della selezione docente, alla qualità della didattica (che discende dalla precedente), dall'inadeguatezza delle strutture all'assenza di supporto per gli studenti, sia per quanto concerne la didattica sia per quanto riguarda la burocrazia. Per finire con le scuole secondarie superiori che stanno scadendo di livello, consegnando all'Università studenti a cui troppo spesso mancano le basi, e che quindi ci metteranno più tempo.

Ci aspetteremmo, da un uomo della caratura di Michel Martone, soluzioni, dato che ora è al governo, dopo essere stato solo consulente. Pazienza se non è all'Istruzione e Ricerca, non è un problema, una visita con chiacchierata al ministro Profumo è meglio di una provocazione a mezzo stampa, o no?


giovedì 12 gennaio 2012

Cos’è la Decrescita? Può essere Felice?

Il dibattito aperto dai teorici della Decrescita mi appare assolutamente surreale.

Non perché da spocchioso Economista di provincia non possa accettare che i miei 11 anni di studi post laurea possano valere meno delle intuizioni di Pallante, o che il mio master nel Regno Unito sia stato solo un modo per abituarmi all’umidità, quanto perché molte delle cose teorizzate esistono già o attengono al comune buonsenso.

Partiamo dal PIL, ultimamente aumenta il numero di coloro che ne sono allergici, l’allergia al PIL è incurabile, specie se chi ne parla non ha idea di cosa sia.
Il PIL può essere decomposto in vari modi, almeno 3. Se noi parliamo di produzione e di consumo, tutte le obiezioni dei Decrescenzialisti sono pertinenti, possiamo consumare meno ed essere più felici, possiamo produrre meno ed essere più felici.
Ma se scomponiamo il PIL dal punto di vista distributivo, ovvero come la somma fra Salari (tutto quello che i lavoratori guadagnano) Profitti (tutto ciò che gli imprenditori guadagnano) e Rendite (tutto ciò che i proprietari di mezzi a vario titolo produttivi guadagnano), dimostrare che la riduzione del PIL possa far felice una di queste tre categorie mi pare arduo.

Prendiamo la Rendita, affitti, interessi su soldi prestati etc. Se si riduce spostando somme verso i salari e i profitti, saranno più felici alcuni e meno i renditieri, la rendita non è direttamente produttiva, ma queste si chiamano Politiche Redistributive, esistono da quando esiste l’Economia Politica, non c’era bisogno di una nuova teoria. Per non dire che la lotta alla rendita era già ben presente negli scritti di Carl Marx.

Il dibattito è sul modo di misurare la nostra “felicità”, il PIL non sarebbe adatto, bella osservazione, si scontra con le difficoltà tecniche di trovare misure alternative. Chi si occupa del tema sa che ci sono misure utilizzate a livello locale per stabilire la “vivibilità” delle città ad esempio.
Anni fa lavorai sulla “dotazione infrastrutturale delle province italiane”, in riferimento non solo a strade, aeroporti, acquedotti, ma anche scuole, teatri, impianti sportivi etc. Di cose che fanno felici insomma. Scoperta delle scoperte, le province meridionali in genere, ed a più basso reddito (PIL provinciale), ma soprattutto con una minore dotazione di infrastrutture civili, sono sempre quelle che vengono messe agli ultimi posti delle graduatorie sulla “qualità della vita” che sarebbe la felicità nel senso Pallantiano del termine.

E’ possibile costruire scuole ed infrastrutture civili con i metodi della Decrescita? No.

Altra obiezione sul cavallo di battaglia dei teorici della Decrescita, il risparmio energetico, la Decrescita crea posti di lavoro perché potremmo adeguare le case agli standard energetici. In futuro consumeremo meno ed il PIL diminuirà, giustissimo, ma si chiama logica non decrescita.
Nel frattempo fare un cappotto termico ad una casa degli anni ’70 costa un’ira di Dio e fa aumentare il PIL (anche per coloro che ne sono allergici).

Bisogna trasferire risorse verso queste best practies, si dice “entro il 2040 tutte le case andranno ad emissioni zero”, e via incentivi all’adeguamento e monitoraggio degli interventi, ma si chiama Programmazione Economica, esiste da un po’, e dal 1984 che non viene più fatta in Italia.
Alcuni lo sapevano da prima e sostenevano che andasse fatta, ma venivano tacciati di Stalinismo. E’ stato anche cambiato nome al Ministero preposto, che una volta si chiamava “Bilancio e Programmazione Economica”.

Ultimo tema, non è possibile la crescita infinita, vero, credo nessuno abbia mai sostenuto pubblicamente il contrario.  Ma anche questo è un dibattito noto, fra crescita e sviluppo. Siamo cresciuti troppo, dobbiamo smetterla, dovremo smetterla quando tutti saremo “felici” ovvero quando il nostro livello di reddito ci consenta una vita dignitosa nel senso della nostra Costituzione.
Siamo a quel punto? No, se pensiamo a molte regioni Italiane, fottutamente no se pensiamo ai paesi poveri.

Si chiama Crescita Sostenibile o Sviluppo Sostenibile, e si fa anche in presenza di una produzione stagnante. Portare l’acqua in un remoto villaggio Africano fa sviluppo economico, crescita e felicità, anche se per finanziarla bisogna rinunciare a qualche caccia-bombardiere (per fare un esempio di modifica a saldo zero), “dobbiamo spendere in opere di pace quello che spendiamo in opere di guerra” diceva Keynes negli anni ’30.

La crescita economica e lo sviluppo non sono obblighi, ma sono delle conseguenze anche delle politiche suggerite dai teorici della Decrescita, termine che economicamente non vuol dire nulla, se vogliamo essere precisi.

Se poi il discorso è che la produttività non può crescere indefinitamente, e che la produzione non può crescere indefinitamente, d’accordissimo, ma appunto per porre rimedio a questi problemi esistono da anni scuole economiche che propongono (inascoltate) la Redistribuzione del Lavoro ed il Reddito d’Esistenza. Queste cose unite ad un nuovo modo di intendere il rapporto fra uomini e merci (che è la parte interessate del contributo della Decrescita) può contribuire a migliorare il mondo in cui viviamo.

In conclusione, la teoria sulla Decrescita Felice ha un indubbio valore positivo, perché riporta all’attenzione dell’opinione pubblica problemi importanti spesso relegati ai margini del dibattito, fa discutere di Economia anche persone che hanno vissuto intere esistenze delegando le scelte sulle loro vite ad altri. Pone un accento importante sulla tutela dell’ambiente e su uno stile di vita sostenibile per il pianeta.

Altro sono le proposte, bisogna sempre diffidare di chi propone soluzioni semplici a problemi che sono enormemente complessi, è la tecnica dello sciamano-guaritore.

giovedì 15 dicembre 2011

La "Rivergination Impossible" della lega nord

Vedere le immagini di ieri ed oggi in parlamento mi ha suscitato sentimenti contrastanti.

Da un lato la faccia finalmente sorridente di Calderoli, che esprime il sollievo di non essere più al governo (al suo sollievo aggiungo anche il mio) rappresenta quell'idea giocosa del bambino alle elementari, che dopo due ore a fare i noiosi conticini, finalmente può uscire in cortile a giocare per la ricreazione. E via col pennarello a scrivere "ti voglio bene mamma", "abbasso le verdure",  "le tasse sono brutte".

Dall'altro gli insulti a Schifani e Fini mettono in moto (purtoppo) i soliti sentimenti di disprezzo profondo nei confronti di chi, alla faccia degli ideali, si conferma refrattario ad ogni forma, anche minima, di coerenza politica.

La strategia leghista di oggi è semplicissima, urlare fortissimo che si è contro le misure Montiane, sperando che gli elettori siano così ottusi da crederci di nuovo alle prossime elezioni.

Ho le mie ragioni per credere che questo tentativo potrebbe fallire.

Prima obiezione: governo del fare. E' già bastato Monti all'ennesimo attacco, e nonostante il guaio di conciliare una coalizione impossibile, improbabibile ed improponibile, a zittire qualunque leghista con la frase di ampio significato storico "ma scusate perchè non avete fatto voi le manovre visto che avete governato 8 anni negli ultimi 10". Questione chiusa. Non far niente non è una politica, avvantaggia i forti contro i deboli, esattamente ciò di cui si accusa Monti.

Seconda obiezione: diversità. I leghisti hanno raccolto consensi dicendo di essere diversi, diversi da chi? I fatti dicono che non è stato così. Una volta al governo hanno perpetrato le stesse metodologie di gestione politica che contestavano al pentapartito. Uomini nei consigli di amministrazione delle partecipate pubbliche (compreso il cda RAI), parenti-amici piazzati quà e là, dai figli di Bossi (consigliere regionale e portaborse europeo) allo scandaloso contributo pubblico per la scuola privata della moglie. Alle spese inutili, come i ministeri al Nord. A chiudere definitivamente il discorso sulla diversità leghista arrivano gli unici due parlamentari che si dimettono per mantenere il vitalizio, di quale partito? Leghisti ovviamente! Dussin e Pirovano, entrambi col doppio incarico, doppia sedia doppio culo. Si direbbe a Napoli ommemmer........itevoli.


http://isegretidellacasta.blogspot.com/2011/12/e-sono-due-un-altro-leghista-si-dimette.html


Terza obiezione: efficienza. Siamo meglio noi degli altri, quì finisce la Rivergination tentata da Maroni, Leghista ministro dell'interno, acchiappa Casalesi, inflessibile con i migranti, peccato che da sotto il naso gli sia sfuggito il vicepresidente del consiglio regionale in Lombardia, appoggiato dalla Lega, che prendeva tangenti alla vecchia maniera con tanto di busta formato famiglia.

http://www.ilfattoquotidiano.it/tag/nicoli-cristiani/


Carissimo Maroni, secondo me, se salvi Romano e Cosentino in parlamento, a qualcuno il dubbio che ci sia l'impunità per i potenti potrebbe anche venire....... o no?


Votare per arrestare mezzo mondo durante la ricreazione non credo servirà a cambiare le cose.