venerdì 4 maggio 2012

La Trota, le finte lauree e i ladri veri


Mano a mano che si riempie di dettagli, la storia dei finti titoli di studio che riguarda i vertici politici della Lega Nord assume sempre più un significato allarmante ed offensivo. Allarmante sul piano etico, se si pensa alla gestione dei fondi pubblici da parte di questi ex-moralizzatori, offensivo, se si pensa al ruolo che questi ex-governanti attribuivano al merito nella sfera pubblica.
Non mi iscrivo al gruppo di quelli che continuano a prendersela con la trota (che è femminile nella lingua italiana), anche perché il semplice fatto che si sia dimesso rende Renzo Bossi stesso inadeguato alla politica attuale (Rosy Mauro ha risposto a gesti alla richiesta di dimissioni, questo la rende congrua al livello dei politici contemporanei).
Quello che non và banalizzato è il ruolo che la società moderna, e chi ci governa, assegna al titolo di studio.
Questi leghisti hanno preso i voti della gente, parlando di territori, di istanze locali, nei loro comizi hanno sdoganato parolacce, insulti, gestacci, pernacchie, insomma non proprio un ambiente Oxfordiano.
Non mi sarei mai aspettato questa ossessione per le lauree, una, due, mille, per fare cosa? La realtà è più prosa che poesia, e per capirlo bisogna riflettere su Francesco Belsito, uno che a vederlo così ad occhio nudo tanto celtico non sembra.
La laurea a lui sarebbe servita eccome, non è che si può arrivare ai vertici di Finmeccanica con un diploma, tra l’altro dubbio, preso a Frattamaggiore.
Quindi? Piace, compro! Meno male che in Italia fortunatamente riesce difficile comprarsi la laurea, a parte qualche caso che però finisce nei tribunali, e questo perché la Gelmini non è riuscita a completare l’opera demolitrice dell’Università Pubblica su cui si stava applicando.
Di conseguenza si andava in posti più o meno sconosciuti per prendere lauree improbabili, da convalidare e spendere nei vertici delle partecipate statali. Oggi Belsito, domani Mauro, Pier Mosca, ed i figli minori del patriarca a seguire. Perché lavorare? A fine carriera politica presidenti di società miste. Perché studiare? Cacci la “paccata” di rimborsi pubblici e ti fai la laurea Albanese tarocca (perché gli studenti Albanesi li conosco e sono molto meglio della trota), così risparmi tempo e tutto quell’armamentario di sani pugni e testate al muro, che ogni studente colleziona durante le giornate di studio più amare.
Peccato veramente, fossero stati fermi arrivava l’indulto anche qui, si azzera il valore legale del titolo di studio, ed ecco che la trota può fare il presidente dell’Eni. Questo caso esplica perfettamente perché il valore legale del titolo deve rimanere, altrimenti tanto vale legalizzare corruzione e raccomandazioni.
La parte triste della vicenda, riguarda l’invidia di questi poveracci nei confronti di quell’esercito di terroni precari che invade il nord con lauree vere, facendosi centinaia di chilometri per un’ora di lezione, senza mai un rimborso (perché mica sono parlamentari), ma con dignità.
Possibile che sia vero? Come fanno a crederci, sicuramente saranno lauree stampate dalla ndrangheta, dottorati della papuasia, scuole di specializzazione ubicate in qualche sottoscala.
La verità è più dura, per questo voglio chiudere con una nota di speranza, se hanno tutta questa voglia di laurearsi un modo c’è, non è difficile. Al limite qualche meridionale precario che dà ripetizioni private di Economia si trova.
L’importante è che emetta fattura.
Salvatore Perri

lunedì 23 aprile 2012

La follia del pareggio di bilancio costituzionale


L’introduzione nella Costituzione di un vincolo così rigido per la politica economica potrebbe rivelarsi estremamente dannoso, le conseguenze di una tale forzatura potrebbero essere a breve destabilizzanti per un sistema economico fortemente condizionato dal debito come quello Italiano, generando recessione ed instabilità socio-economica.
La ragione di un tale provvedimento, per altro manifestamente etero diretto (o etero imposto), corrisponderebbe all’esigenza di ridurre la possibilità dei futuri governi a guida prettamente politica, di far ricorso alla spesa pubblica per fini di consenso. Problema certamente esistente in Italia.
Tuttavia, esiste una fondamentale ed insanabile discrasia fra ciò che questo provvedimento mira ad ottenere e quelli che potrebbero essere i reali effetti della dinamica innescata da tale vincolo, stando alle attuale condizioni Economico-Finanziare del nostro paese.
Questa erronea valutazione attiene fondamentalmente alle condizioni congiunturali e strutturali dell’economia Italiana, al rapporto fra Stato ed enti locali ma anche fra Stato e Stato in termini di “timing” delle politiche economiche, nonché all’introduzione di un conflitto implicito all’interno della Costituzione stessa.
In primo luogo, l’Italia soffre di una stagnazione del reddito (mancata crescita) che è molto più lunga di quella registrata negli altri paesi europei. Ormai si può dire che la stagnazione dell’economia italiana sia almeno ventennale. Le cause di un tale rallentamento sono note ed attengono fondamentalmente alla crisi del modello industriale italiano ed alla sua difficoltà di trasformarsi.
La crisi in Italia è di lungo periodo, cause diverse da quelle degli altri paesi europei, e necessiterebbe di risposte diverse, risposte di lungo periodo.
Riconversioni produttive ed investimenti infrastrutturali di rilievo, necessiterebbero nel breve periodo, della possibilità di ricorrere al debito. Altre prospettive di rilancio, basate su una diversa allocazione del reddito disponibile tra le fasce sociali, (Basic Income) necessiterebbero anch’esse nella fase transitoria di un esposizione dello stato per cifre superiori alle entrate correnti.
Di conseguenza alcuni strumenti di politica economica essenziali per il rilancio, smettono semplicemente di essere nella disponibilità dei decisori, in quanto nessuna di queste può essere classificata come “catastrofe” e rientrare nella riserva di legge.
Il debito pubblico finirà per avere un peso maggiore, condizionando, o per meglio dire, paralizzando ogni intervento economico.
Partiamo dal Documento Economico Finanziario appena varato, le stime governative sono sempre ottimistiche, storicamente, sottostimano i parametri negativi (inflazione programmata, disoccupazione) e sovrastimano quelli positivi (minore riduzione del PIL rispetto a tutte le altre previsioni).
Una sottovalutazione della caduta del PIL avrà inevitabilmente effetti a catena sulla conduzione della politica economica. Se la previsione è sbagliata il rapporto debito/PIL aumenta in misura maggiore del previsto, aumenta l’incidenza degli interessi, ma il saldo deve comunque rimanere invariato e quindi, ad ogni previsione sbagliata deve corrispondere una manovra correttiva fatta di tasse o di nuovi tagli.
Entrambe le soluzioni portano ad una ulteriore caduta del PIL, ad una ulteriore manovra correttiva e via proseguendo, con effetti recessivi potenzialmente illimitati.
Lo stesso effetto a catena potrebbe essere generato da variazioni nello spread dei nostri titoli, grandezza che è fuori dal nostro controllo.
Per queste ragioni un nutrito gruppo di Premi Nobel (tra cui Solow) hanno di fatto impedito con un appello che Obama introducesse il pareggio di bilancio nella Costituzione degli Stati Uniti.
Ulteriori problemi nasceranno, in particolare, nel combinato disposto con le norme già in vigore, specialmente per ciò che riguarda il Patto di Stabilità interno. Il dissesto di bilancio di un piccolo, o grande, comune italiano non può più essere sanato dallo stato.
Ma questo anziché generare un circolo virtuoso genererà ulteriori rigidità di bilancio, con gli amministratori locali chiamati ad accantonare risorse per le emergenze, verosimilmente, tagliando i servizi e generando tensioni sociali (anch’esse costose).
La stessa alternanza dei governi creerà instabilità, una eventuale caduta di un governo, regione o provincia, che sia anticipata rispetto alle scadenze diventa catastrofe? Non lo è ma potrebbe esserlo se i saldi di bilancio sono chiusi.
Sul piano costituzionale si rischierà di avere un conflitto fra norme, l’art. 3 assegna alla Repubblica il compito di rimuovere gli ostacoli economici e sociali che limitano lo sviluppo delle persone e l’uguaglianza delle stesse. Cosa accadrebbe nel caso in cui lo stato, per via del vincolo di bilancio, dovesse intervenire ulteriormente sulla scuola o sulla sanità intaccando i livelli percepiti come “essenziali” dalla popolazione?
Oltre certi limiti il vincolo di bilancio potrebbe diventare ostativo delle funzioni che la Costituzione stessa assegna allo Stato.
In conclusione, l’approvazione forzata, quasi senza discussione da parte dell’opinione pubblica, di un provvedimento dalle conseguenze potenzialmente devastanti come l’obbligo del pareggio di bilancio, rappresenta a mio avviso, la peggiore delle scelte politiche che si potevano compiere da parte del governo tecnico.

giovedì 22 marzo 2012

La fine del lavoro salariato


C’è qualcosa di profondamente sbagliato nel modo in cui la coppia Fornero-Monti ha approcciato il tema della riforma del mercato del lavoro e dell’art.18, ma non dal punto di vista metodologico, ovvero dei rapporti sindacali o della comunicazione con le forze politiche, bensì proprio nel contenuto “economico” della riforma, che appare sottovalutare l’effetto che potrebbe avere sull’intera struttura economica italiana.

Chi si occupa di tendenze Macroeconomiche di lungo periodo, a rischio di essere tacciato di essere un teorico dei massimi sistemi, affronta da tempo il tema del peso del lavoro salariato all’interno dei sistemi economici moderni, e di come esso sia destinato a diminuire per via del mutamento delle forme e della composizione della struttura economica.

La riforma che si appresta a varare il governo tecnico và esattamente nella direzione di ridurre il lavoro salariato a qualcosa di inferiore dal punto di vista valoriale, qualcosa di cui ci si può liberare per interessi superiori, tra l’altro neanche ben definiti.
Consentire il licenziamento individuale per “motivi economici” apre la strada ad una drastica riduzione dei diritti sul luogo di lavoro, consentendo indirettamente il licenziamento discriminatorio.

Supponiamo che un lavoratore 55enne sia inviso alla proprietà dell’azienda non perché lavativo o peggio, ma solo perché attivista sindacalmente o politicamente.
L’azienda può licenziarlo per ragioni economiche ed assumere il giorno dopo un 20enne precario con mansioni solo lievemente differenti. E’ possibile questo? Non solo lo è ma sarà inevitabile.

Il lavoratore potrebbe ricorrere al giudice dicendo che il licenziamento non è per motivi economici bensì per motivi discriminatori, a questo punto si aprono i tempi biblici della giustizia italiana (vera emergenza per tutti tranne che per il governo tecnico), il lavoratore resta a casa ed il precario vive la sua illusione di essere un lavoratore.
Nel giudizio all’azienda servirà soltanto dimostrare che il nuovo lavoratore era funzionale ad un riassetto economicamente vantaggioso per l’azienda (è un motivo economico) ed il gioco è fatto, basterà mentire con giudizio (mi serviva un saldatore che conosce 3 lingue rispetto ad un saldatore normale).

L’Italia è il paese delle simulazioni contrattuali, delle false partita iva, dei veri docenti universitari travestiti da falsi co.co.co, quale sarebbe il freno inibitore che dovrebbe fermare le aziende dal licenziare a piacimento? La bontà non è una ragione economica sufficiente.

Senza contare che è il lavoratore che deve ricorrere al giudice, con i costi che questo implica, essendo il lavoratore la parte debole del rapporto di lavoro si può facilmente prevedere che acconsentirà a farsi ridurre i propri diritti pur di mantenere il posto, anche a costo di dimettersi per farsi riassumere in altra forma.

Questo passaggio è fondamentale, ed in un paese con alta disoccupazione avrà effetti devastanti sulle condizioni generali del lavoro, ci sarà una guerra fra poveri che non avrà vincitori, perché il lavoratore stressato lavora peggio e perché il turn-over selvaggio riduce anch’esso la produttività. 

Due Economisti avrebbero dovuto prevederlo.

A meno che non ci indichino la via luminosa, che noi moralisti del giorno dopo non siamo in grado di vedere, oppure che ci dicano ancora una volta (falsamente) che è l’Europa che ce lo chiede, la stessa Europa che ci chiede da tempo di ratificare le norme anticorruzione, una giustizia efficace, un sistema radiotelevisivo plurale.

Ma si sa, ci sono richieste e richieste.

Salvatore Perri

venerdì 24 febbraio 2012

Uscita dall’Euro all’italiana: Tragedia o Farsa?


Prolifera in rete, e non solo, il dibattito sulla crisi, sulle sue cause, sulle sue possibili conseguenze, sugli strumenti per combatterla efficacemente e sulle prospettive future (se ancora ne avremo).
Tra le proposte “impossibili” che ho letto recentemente, e che mi sembra particolarmente assurda, c’è quella di un ritorno ad una moneta interna diversa dall’Euro, gestita da una banca nazionale, così come avveniva fino all’ingresso dell’Euro nelle nostre vite.
In un paese del genere ci siamo già stati, pertanto non mi resta altro che riproporre “per fatti stilizzati” una delle mie lezioni più apprezzate, che tenevo (come esercitatore) presso l’Università della Calabria, allo scopo di spiegare perché l’Italia entrò nell’Euro.
Lascio al lettore stabilire se è praticabile oggi una fuoriuscita e spiegarne i benefici.
Durante ed a seguito della crisi petrolifera del ’75, si scatenò un’ondata inflazionistica senza precedenti che portò il tasso d’inflazione fino al 26% annuo, la causa scatenante non fù interna ma innescò una spirale prezzi-salari-prezzi che mise in discussione il meccanismo della scala mobile e di conseguenza le politiche economiche di stampo Keynesiano.
Ma l’effetto più grave fù l’innescarsi di un meccanismo irreversibile che portò ad una accelerazione della crescita del debito pubblico.
La ragione è semplice, un investitore acquista titoli di debito se i tassi di rendimento attesi garantiscono un guadagno al netto del tasso di inflazione corrente.
Va da sé che negli anni seguenti il Governo (i Governi che si succedevano a velocità supersonica) avrebbero dovuto ridurre l’emissione di nuovo debito magari sostituendolo con la tassazione degli ingenti profitti che le imprese esportatrici realizzavano grazie alla costante svalutazione della Lira (dovuta anch’essa all’inflazione).
Ciò non avvenne e l’Italia continuò ad emettere nuovo debito confidando nell’obbligo che aveva la Banca Centrale di acquistare tutti i Bot invenduti al termine delle aste. Di fatto il Governo gestiva sia la politica fiscale che quella monetaria. Il sistema politico dell’allora Pentapartito (i cui eredi diretti oggi ci richiamano alla sobrietà) non ridussero la spesa pubblica, anzi, moltiplicarono gli enti intermedi, le poltrone, consulenze, incrementando gli stipendi di tutti i funzionari, e gestendo fondamentalmente la spesa pubblica a fini di gestione del consenso politico.
Si arriva così al fatidico ’92 anno in cui si diffonde l’aspettativa concreta di un fallimento dell’Italia per debito eccessivo (ha raggiunto grazie agli interessi la dimensione del 120% del PIL). Gli investitori internazionali cominciano a vendere Lire, in un sistema a cambi fissi (semi-fisso come era lo SME) la Banca Centrale è obbligata ad acquistare qualsiasi ammontare di Lire cedendo in cambio Titoli, valute estere oppure oro.
Siccome le ricchezze detenute dagli speculatori sono sempre superiori a quelle di un singolo stato, la Banca Centrale dopo aver chiesto l’aiuto di Francia e Germania è costretta a sospendere la convertibilità della Lira. Per alcuni mesi il cambio è incerto 1 Lira vale something con danni incalcolabili ai nostri scambi internazionali. La lira perde il 40% del proprio valore, e l’inflazione che era rientrata in termini accettabili grazie allo SME (ma sempre attorno al 10%), cominciò a ripartire.
Per tamponare una situazione ormai al collasso Amato vara la famosa finanziaria da 100.000 Miliardi e la Banca Centrale cessa di essere obbligata a comprare titoli pubblici (il c.d. divorzio).
Questo al fine di impedire ai partiti di finanziare il loro consenso ai danni della collettività.
Nel frattempo in Europa, dopo aver “fatto fuori” la Lira, la speculazione internazionale attaccò Franco e Marco, a quel punto si decise che c’era un solo modo per fermare la speculazione internazionale sulle valute, la moneta unica ed il mercato unico. Il resto è contemporaneità.
Riassumendo i possibili effetti (già vissuti) della moneta sovrana sono:
  • svalutazione, in caso di crisi, con vantaggi per pochi esportatori e svantaggi per tutti, per via dell’aumento dei prezzi e della riduzione del potere d’acquisto della moneta, ricordando che l’Italia importa tutte le materie prime ad una svalutazione segue sempre un’ondata inflazionistica (siamo stati al 26%, poi al 10%, adesso siamo al 2%),
  •  riduzione delle riserve auree per pagare i maggiori costi delle importazioni,
  •  assenza di controllo del sistema politico, che può sempre espandere la spesa finanziandola con moneta, con le conseguenze in termini di debito pubblico che abbiamo già visto.
In conclusione, un eventuale fallimento dell’Euro ed il ritorno alle scaramucce tra paesi vicini (guerre commerciali, dumping, dazi) porterebbe solo ad un impoverimento collettivo che andrebbe ben oltre quello odierno, con conseguenze incalcolabili. Aggiungo che si riconsegnerebbe il comando complessivo alla stessa classe politica che ci ha portato sin qui, siamo sicuri che sia un vantaggio?
Piuttosto che tornare indietro si dovrebbe andare avanti, con la sovranità del Parlamento Europeo (che oggi vara solo direttive), il coordinamento di Politiche Fiscali e Monetarie orientate al welfare ed ai diritti. Grazie all’Euro abbiamo importato solo il tasso d’interesse tedesco (per un decennio) ma non i sussidi di disoccupazione della Germania, ne il sistema di protezione sociale Svedese.
Edmund Burke diceva "chi non conosce la storia è destinato a ripeterla", speriamo che la nostra storia ci abbia insegnato almeno a non fare gli stessi errori.
Salvatore Perri

domenica 12 febbraio 2012

Prima che la Grecia muoia.

Non ho la presunzione che bastino le mie parole, non ho neanche la presunzione di credere che le immagini e le voci che ci giungono dalla Grecia in ginocchio siano piu' forti del nostro senso di inadeguatezza, e della nostra incapacita' di scrollarci di dosso quel pensiero malato di "finire come la Grecia".

La Grecia non finisce, nemmeno finiranno le sofferenze di un popolo che, chi ama l'Europa come me, considera fratello.

La crisi greca e' originata dalle speculazioni finanziarie di opportunisti senza scrupoli, scrupoli che sono mancati anche ad una buona parte dell'allora governo greco. Non l'hanno originata ne i lavoratori e ne i pensionati greci che sono chiamati a pagarla.

E allora? Quando fini' la prima guerra mondiale la Germania era in ginocchio, ma i vincitori imposero il pagamento dei debiti di guerra affamando ed opprimendo ancora di piu' il popolo tedesco. Keynes abbandono' la conferenza di pace, egli premeva perche' fossero concessi aiuti alla Germania, affinche' potesse risollevarsi e con lei l'Europa. Non fu' ascoltato. Sappiamo come ando' a finire di li a qualche anno.

Bisogna fare pressione affinche' i governi europei concedano piu' tempo, piu' risorse, piu' moneta, o tutte e tre queste cose insieme, e' una scelta politica, soltanto questo.

Non bisogna lasciare che la storia si ripeta.

Altrimenti non morira' solo la Grecia, ma anche quella parte di noi che voleva un'Europa umana.

venerdì 3 febbraio 2012

Il "Licenzia Italia".


Il decisionismo di Fornero e Monti nel proporre una revisione (non si sa quanto drastica) dell'art. 18 dello statuto dei lavoratori, riporta il tema al centro dell'attenzione, scatenando un dibattito dai temi per certi versi assurdo.

Quando si decide una modifica normativa su un tema così delicato si cerca di orientare la discussione sul futuro che si desidera, rispetto al futuro che potrebbe realmente esserci, perchè siamo nell'Italia del 2012, che ha una sua struttura economica, una sua struttura sociale e che ha sopratutto delle caratteristiche peculiari, che potrebbero rendere inapplicabili sistemi normativi funzionanti altrove.

Proverò ad analizzare l'insieme delle argomentazioni a supporto di una liberalizzazione totale del mercato del lavoro, ed alcuni dei suoi possibili effetti, diretti ed indiretti.

1) Il mercato del lavoro in Italia non funziona perchè è troppo rigido, maggiore apertura creerebbe nuovi posti di lavoro.
Secondo questa prospettiva, sostenuta dagli economisti di scuola Liberista, dando piena libertà di licenziare per motivi economici si aumenterebbe la mobilità sociale e verrebbero così ad aumentare i posti di lavoro complessivamente disponibili sel sistema Italia. Il processo in sè appare misterioso, come è possibile creare posti di lavoro licenziando? Nessuno lo sà. Questa soluzione avrebbe un senso se in Italia mancassero i disoccupati e quindi "liberando" forza lavoro in un settore in declino si potrebbe spostarla verso i settori in forte crescita. Il valore del tasso di disoccupazione, della cassa integrazione e del precariato, mi fanno concludere con una certa serenità che non sia questo il caso.
Aumentare la possibilità di licenziare, in un momento di stagnazione economica e di difficoltà di sbocco delle merci, nel breve-medio termine creerebbe solo nuova disoccupazione.

2) Le imprese non possono licenziare.
Falso, non possono farlo per motivi discriminatori, se così fosse non ci sarebbero in Italia le migliaia di vertenze sindacali che conosciamo oggi. Addirittura esistono casi come quello di CAI-Alitalia nel quale si mettono operai in cassa integrazione per assumerne di precari (con un costo doppio per lo stato) oppure il caso OMSA nel quale le lavoratrici vengono licenziate in Italia ed assunte in Serbia. Agevolare i licenziamenti per "generici" motivi economici porterebbe in Italia gli stipendi della Serbia. Bassi salari corrispondono a bassa produttività, ed una riduzione del monte salari complessivo comprimerebbe i consumi ed i risparmi, e quindi secondo tutte le teorie economiche accellererebbe la crisi.

3) Le imprese non possono assumere.
Altra falsità, in Italia allo stato attuale esistono 46 forme contrattuali flessibili (ma non mi stupirei di averne dimenticato qualcuna). Questo rende l'Italia il paese a più alta flessibilità in entrata del mondo occidentale. I risultati di questa sfavillante miglioria sono sotto gli occhi di tutti. Bassi salari, contratti di brevissima durata, l'incentivo di sbarazzarsi dei lavoratori entro i 3 anni per evitare le assunzioni, la proliferazione di truffe a vario titolo con vere e proprie "simulazioni" contrattuali. Contrariamente a quello che si sosteneva in fase di approvazione di queste norme salvifiche, il lavoro non è aumentato, i nuovi assunti sono per la gran parte precari, il lavoro precario è stato utilizzato dal settore pubblico per aggirare il bocco delle assunzioni e sopratutto, si è creata una generazione (direi 2) di "desaparecidos" contributivi che potranno aspirare al massimo alla pensione sociale minima (se non verrà riformata anch'essa).

4) Le aziende straniere non investono in Italia a causa dell'eccessiva rigidità del mercato del lavoro.
Secondo un'indagine recente le imprese straniere non investono in Italia perchè il processo civile è tra i più lunghi al mondo. La priorità non sarebbe quindi poter assumere e licenziare visto che, tra l'altro, ci sono le 46 forme contrattuali per assume e le corrispondenti 46 per licenziare senza incorrere in sanzioni. La farraginosità della burocrazia e l'eccesso di corruzione fanno si che le imprese straniere sane rifuggano dal nostro paese, ma forse aggredire questi problemi è più difficile che prendersela con la FIOM, che è un nemico più semplice da affrontare.

5) Si è creata una disparità di trattamento fra lavoratori garantiti e non.
Vero, ma questo si è creato appunto con le forme di lavoro precario, un modo serio di affrontare la questione sarebbe quello di ridurle a poche forme chiare, con le tutele del caso che servano a garantire la continuità contributiva (ma anche la continuità dei consumi e dei risparmi). Insistere sull'aumento della precarietà come primo punto è un modo per eludere il problema. Si corre concretamente il rischio di destabilizzare definitivamente la struttura sociale del paese.

6) Il posto fisso è noioso.
Volendo chiudere con una battuta, in Italia nessuna legge impedisce di licenziarsi e cambiare lavoro, lo possono fare tutti, ma non ho mai incontrato un professore universitario che abbia cambiato mestiere, a parte quelli della mia generazione che professori non lo saranno mai, parlare dalla sua posizione Prof. Monti, anche dal punto di vista pedagogico, è stato di pessimo gusto, mi ha ricordato un celebre megadirettore naturale dei films di Fantozzi...... "voi cari inferiori...".

Salvatore Perri