martedì 6 maggio 2014

Il rapporto Nord-Sud e la Lega dei No Euro

Salvatore Perri

Premetto che da quando ho aperto il mio blog, l'ho fatto per cercare di contribuire all'interpretazione della realtà economica quotidiana attingendo al mio bagaglio di studi pregressi (che è quello facevo quando avevo l'opportunità di insegnare). Ho cercato di limitare al minimo gli interventi di carattere particolare, oppure prese di posizioni politiche su temi locali, perchè esiste il rischio che le mie considerazioni siano classificabili "per partito preso" e non sulla base del loro contenuto specifico.

Tuttavia quando ho sentito Salvini dire che vuole "liberare il Sud", io, da persona genuinamente ed orgogliosamente meridionale, che ha studiato la storia economica italiana, che ha dovuto vivere all'estero nel periodo più fulgido dei governi leghisti, discendente diretto di un Cavaliere di Vittorio Veneto (che l'Italia l'ha dovuta liberare veramente) ho avuto un moto di ribellione incontrollabile perchè quando è troppo è troppo.

Non aspiro ad insegnare la storia a chi non è interessato a conoscerla, ma almeno quattro fatti stilizzati in croce per Salvini potrebbero esser utili, anche se dubito che possano stare su una felpa.

Nel rapporto economico fra Nord e Sud, dal dopoguerra in poi, è prevalso un rapporto di tipo dualistico che ha legato il destino del Sud a quello del Nord, tramite lo stato centrale, in una modalità che molti Economisti migliori di me hanno definito "Funzionale".

In una prima fase, si è deciso di investire pesantemente sulla ripresa produttiva delle aziende del Nord-Ovest, perchè più vicine ai mercati europei di esportazione e di importazione di materie prime. Il Sud era già deindustrializzato dai tempi dell'unificazione e tale scelta era stata consolidata dai governi unitari e dal fascismo.

Il Sud contribuiva con un massiccio flusso migratorio di lavoratori a basso costo, che si trasferivano con le intere famiglie a fornire la carne da cannone per l'impetuoso sviluppo delle fabbriche settentrionali provocando per converso il fenomeno del "degrado demografico" del Sud dato che le forze più vitali e dinamiche emigravano. Questo meccanismo entra in crisi perchè le città settentrionali non sono in grado, ad un certo punto, di sopportare i massicci flussi di immigrazione. Lo stato centrale interviene quindi con investimenti "a perdere" nel Sud (i famosi 10.000 forestali Calabresi su cui sono state fatte campagne elettorali da Bossi, opere pubbliche di dubbia utilità, fino ad arrivare ai tentativi industriali su settori decotti degli anni '70).

Deve essere chiaro che nessun politico sano di mente pensava che il Sud potesse svilupparsi in quel modo, il sistema nel suo complesso stava in piedi perchè le aziende del Nord avevano manodopera maschile illimitata dal Sud, mentre le famiglie e coloro che non potevano emigrare venivano stipendiati passivamente al semplice scopo di non emigrare. Il cicrcolo si chiudeva con il rientro dei flussi monetari verso Nord perchè lo sviluppo dei consumi portava i meridionali a comprare proprio quei prodotti industriali del settentrione. Il Sud ha quindi fornito manodopera ed ha rappresentato un "mercato protetto" per le merci settentrionali.

A peggiorare la situazione, il fatto che le risorse erogate verso Sud sono state sempre "mediate" dalla politica. I politicanti locali, in aggiunta ad alcuni settori sindacali, hanno sempre gestito le risorse a fini di consenso, garantendosi rendite di posizione che durano ancora oggi.

Questo meccanismo che aveva una sua logica interna entra in crisi quando, a metà degli anni '80, le imprese del Nord Ovest cominciano a ristrutturarsi e necessitano di meno manodopera, mentre l'apertura dei mercati internazionali consente ai consumatori del Sud di comprare merci d'importazione, rompendo il legame diretto dei flussi monetari da Sud a Nord.

A questo punto l'elettore medio del Nord comincia a chiedersi perchè finanziare lo stato centrale, ed il Sud, nasce la Lega che và al governo anche sulla base di interpretazioni farlocche di dati, smentite ampliamente nel libro di G. Viesti "Mezzogiorno a Tradimento".

Cosa fà la Lega una volta al governo? Perpetra lo stesso identico meccanismo clientelare che ha trovato. Si fanno 2 coalizioni (Polo delle Libertà al Nord, del Buongoverno al Sud) e si vincono le elezioni, promettendo più industria al Nord e più trasferimenti ai notabili del Sud. Non sono stati affrontati i temi dell'organizzazione della spesa, della corruzzione sistemica, della lotta alla criminalità economica, degli enormi privilegi di cui godono le varie corporazioni che paralizzano l'economia meridionale.

E pensare che qualche ministero la Lega lo ebbe. Ad esempio, negli ultimi governi, il ministero della "Semplificazione Normativa" avrebbe potuto favorire la trasparenza negli atti pubblici, che al Sud serve più del pane. Il ministero delle "Riforme" che avrebbe potuto frenare l'elefantiasi dei consigli regionali meridionali, fonte inesauribile di sperperi e sprechi. Per non parlare del ministro dell'Economia, che così bravo ad effettuare i tagli lineari (che puniscono quelli efficienti e premiano i cialtroni) che è stato addirittura ricandidato dalla Lega alle ultime elezioni.

Bene, anzichè "liberare il Sud", Salvini potrebbe creare un gruppo di autocoscienza, con Umberto Bossi (tutti i figli, e pure la moglie prepensionata del pubblico impiego), Calderoli, Maroni, Belsito, Tremonti, Milanese, Rosy Mauro ed il fidanzato con la laurea. Potrebbero chiudersi in una stanza e riflettere sul contributo che hanno dato alla risoluzione dei problemi quando ne hanno avuto la possibilità.

E' inutile cercare un nemico invisibile, l'Euro, per rifarsi una verginità postuma, altrimenti faranno la figura di quelli che venivano chiamati "i meridionalisti piagnoni" sempre pronti a dare la colpa al Nord per il loro sottosviluppo. Saranno i "leghisti piagnoni" che daranno la colpa alla Germania per coprire l'evidenza di quello che non sono stati in grado di fare.




mercoledì 16 aprile 2014

Sui benefici del Reddito Minimo Garantito in Italia (LIG)

Salvatore Perri

La crisi economica internazionale e la finanziarizzazione dell'economia, hanno (finalmente) sollevato il tema della diversa distribuzione del reddito all'interno dei sistemi economici. Il Reddito di Base ed il Reddito Minimo Garantito sono due delle forme possibili per scongiurare il tracollo delle economie c.d. "avanzate". Ho già scritto sulla necessità di redistribuire il lavoro e sul Basic Income. In questo pezzo, stimolato dagli attivisti internazionali del LIG, discuto perchè il Reddito Minimo Garantito è un passaggio obbligato per invertire le odierne tendenze economiche negative altrimenti inarrestabili.

La definizione di reddito minimo. Come ho già scritto in altri pezzi, i sistemi economici maturi, come quello italiano, necessitano di un mix di redistribuzione del lavoro e reddito di base per interrompere la spirale debito-disoccupazione che stà distruggendo le fondamenta della convivenza civile. Tuttavia, nel breve periodo, un primo passo verso una diversa configurazione della struttura economica può essere il Reddito Minimo Garantito (LIG), il quale si configura come un supporto al reddito di coloro che non stanno lavorando e delle persone inabili al lavoro per malattia. In sostanza il LIG è un meccanismo di welfare allargato (ma selettivo) che supporta il reddito delle persone dando attuazione ad un principio costituzionale di "dignità" della retribuzione, intesa in senso lato.

La fine del "self made man dream". Per anni in Italia si è attuata una politica economica di incentivazione alla nascita di nuove imprese che probabilmente non ha eguali nella storia moderna. In aggiunta alcuni governi hanno provveduto a ridurre alcuni tipi di imposte (su successioni, donazioni e patrimoni) al fine di spingere i potenziali imprenditori ad assumere lavoratori investendo nell'impresa. Inoltre, grazie ai fondi dell'Unione Europea sono stati finanziati progetti per "nuovi imprenditori". Gli esisti di questo mix di politiche è stato sconfortante. La maggior parte delle imprese nate con incentivi individuali sono cessate in breve tempo, mentre il peggioramento del quadro macroeconomico, con la riduzione dei profitti attesi, ha determinato un'ondata di crisi industriali con delocalizzazioni, ristrutturazioni, chiusure per fallimento.

Finanziarizzazione dell'economia e crisi. Il crollo delle prospettive di profitto derivanti dalle attività industriali ha spinto il "capitale" a cercare forme di investimento più remunerative, quali i fondi di investimento internazionali che si muovono con movente essenzialmente speculativo. Pertanto, il lavoro ha perso valore all'interno della società ed i consumi interni si sono compressi trascinando nella crisi anche le piccole e medie imprese che producono su scala locale. Le banche a loro volta hanno spostato i loro orizzonti di investimento verso i titoli di Stato (approfittando degli alti tassi dovuti alla crisi) disinvestendo sull'economia reale.

Dal profitto al reddito per uscire dalla crisi. Appare evidente che le politiche di incentivazioni alle imprese hanno fallito. Se non c'è prospettiva di profitto è impossibile che le imprese si espandano senza una giustificazione di mercato. Le politiche economiche di austerità hanno compresso ulteriormente il reddito disponibile e la finanziarizzazione dell'economia internazionale ha consentito rapide fuoriscite di capitali verso fondi speculativi. Come interrompere questa spirale? Una diversa distribuzione del reddito all'interno delle fasce sociali è l'unica politica economica in grado di determinare, anche nel breve periodo, una ripresa dei consumi.

Disuguaglianze e crisi. La crisi economica, qualunque ne sia l'origine, viene accentuata dalle disuguaglianze di reddito, in quanto più la ricchezza è concentrata in poche mani, meno consumi ci sono all'interno del sistema economico. In un contesto in cui gli investimenti crollano ciò determina un aggravamento della crisi. Distribuire il reddito in maniera meno diseguale consente di portare vantaggi economici nell'immediato, oltre a rappresentare una misura di carattere umanitario che caratterizza il diverso grado di civiltà di una nazione. Un aumento del reddito degli individui indigenti, anche modesto, si riversa inevitabilmente in consumi (spesso primari) riattivando le relazioni sociali di prossimità con le piccole e medie imprese locali.

Redistribuzione e capitalismo. Paradossalmente solo politiche redistributive possono salvare il capitalismo, come l'avvento delle socialdemocrazie all'inizio del 900 in Europa. Pertanto una battaglia per il Reddito Minimo dovrebbe essere combattuta anche dagli imprenditori che invece continuano a chiedere solo riduzioni di imposte (sicuramente troppo elevate) ed incentivazioni di vario genere che si sono già rivelate inefficaci. La redistribuzione del reddito, invece, comporterebbe uno spostamento di valori (economici e non) dal livello subnazionale al livello locale, riconnettendo il tessuto sociale, combattendo l'individualismo e favorendo la solidarietà fra gli esseri umani.

Conclusioni. Per ragioni, che non solo di ordine Economico, appare evidente che forme di diversa distribuzione del reddito sono ormai improcastinabili per interrompere la crisi economica ed arginare il disfacimento della società. Bisogna trasferire risorse verso i redditi individuali, verso una qualche forma di Reddito Minimo che consenta una vita dignitosa alle persone salvando la società dal disfacimento. E' importante che maturi la consapevolezza che questo non rappresenta un investimento umanitario bensì anche un investimento economico-produttivo.


mercoledì 19 marzo 2014

Brevi note metodologiche sulla Spending Review

Salvatore Perri

Premesso che ragionare sulle ipotesi, in Politica Economia, è come fare statistica nel caos, le indiscrezioni sulle proposte elaborate da Cottarelli ed offerte al governo, meritano una qualche discussione che ne aiuti a comprendere la portata.

In primo luogo, è assolutamente certo che una riduzione della tassazione finanziata dal taglio della spesa è comunque recessiva. La ragione risiede nel valore del moltiplicatore della spesa pubblica che è maggiore di quello delle imposte. Di conseguenza avremmo fatto tutto questo per ottenere ulteriori riduzioni del PIL? Non è necessariamente detto.

Gli effetti della Spending Review saranno espansivi, recessivi o neutrali a seconda dei redditi su cui andranno ad incidere. Si parte da un assunto economico di base, la propensione al consumo è decrescente rispetto al reddito, cosa che è alla base di ogni politica redistributiva. Si toglie a chi ha di più non perchè ci piace Robin Hood, per invidia sociale, o per dare sfogo al giacobinismo che è in ognuno di noi, bensì perchè un euro tolto ad un multimilionario andrebbe in risparmi, mentre lo stesso euro donato ad un individuo comune con buona probabilità andrà in consumi. Difatti è stato proprio il crollo dei consumi interni ad aggravare gli effetti della crisi, e non il calo delle esportazioni, come invece viene propagandato.

Pertanto, se i tagli di Cottarelli riusciranno ad incidere sugli stipendi dei managers pubblici, sui doppi e tripli incarichi, sulle indennità, le trasferte fittizie, e qualsivoglia beneficio cumulato da alcuni dipendenti del settore pubblico, l'effetto del combinato disposto di tagli e riduzione di tasse non è detto che sia recessivo.

La discriminante è il "soggetto" non è la categoria.

Questo è bene che se lo ricordino anche i sindacati, perchè se si riesce a ridurre il monte pensioni colpendo quelle piu' alte (sfruttando la progressività delle imposte, che è in costituzione, e non ipotetiche soglie che sappiamo già essere incostituzionali), è inutile che i sindacati scendano sul piede di guerra equiparando i tripli cumuli alla pensione del singolo incolpevole, ben sapendo che i tripli cumuli di alcuni pensionati pubblici sono stati finanziati con contributi pagati sempre dal settore pubblico, quindi dalla collettività.

giovedì 23 gennaio 2014

Il capitalismo dominato dalla finanza e la sua crisi



Salvatore Perri

Sempre più spesso si ascoltano ragionamenti secondo cui gli Economisti non servirebbero a nulla in quanto, non hanno previsto la crisi, non la risolvono, nonché varie ed eventuali, tanto varrebbe chiudere i corsi di Economia ed andare in collina. A poco vale sottolineare un passaggio di Galbraith che, citando Marx, spiegava che il capitalismo “avanza per crisi”, ma queste cose in genere si leggono nei corsi di Economia.

La mia opinione è che non ci si improvvisa Economisti dalla mattina al pomeriggio, come non ci si improvvisa Medici, Astrofisici o Esperti di Storia dell’Arte. Ma anche all’interno della stessa categoria degli Economisti ci sono una moltitudine di specializzazioni come in Medicina. A puro scopo di esempio, ho scoperto di avere il reflusso andando dal Gastroenterologo, fossi andato dell’Ortopedico non credo che avrei mai iniziato una terapia.

Ovviamente chiunque può dire cose intelligenti dal punto di vista economico, soprattutto se svolge professioni per le quali questo è necessario, in particolare quando si và sul piano tecnico specifico ci sono degli analisti nel privato che ne sanno più dei docenti. E’ piu’ difficile, invece, che un profano assoluto della materia ci offra soluzioni strutturate a livello “Macro”, perché le problematiche non sono mai banali.

Il Macroeconomista (lo studioso di Economia Politica) è assimilabile ad un Medico specializzato in “Medicina Generale”, analizza il soggetto, osserva le sintomatologie, e sulla base della propria cultura ed esperienza fornisce una diagnosi ed una prognosi. La differenza è il soggetto, che non è un complesso organismo umano ma un altrettanto complesso sistema economico. Anche le diagnosi mediche a volte non è detto siano giuste, ma non per questo bisogna chiudere le facoltà di Medicina. Cosa sia un Economista dal punto di vista formale lo ha spiegato Fabio Sabatini in un articolo su Micromega e Repubblica. Ma anche all’interno della categoria degli “Economisti” in senso stretto si può integrare la classificazione di Sabatini con altre 3 categorie. 

Ci sono gli “Illuminati” cioè coloro che, in base ai loro studi e ricerche, analizzano correttamente i fenomeni economici e sono in grado di anticipare le dinamiche future fornendo spunti per la correzione delle politiche economiche. Ci sono i “Fulminati” che si sono svegliati una mattina convinti di avere le risposte a tutte le domande, oppure che una particolare teoria a cui sono affezionati sin da bambini salverà l’universo-mondo e non và messa in discussione pena la scomunica. In ultimo, sicuramente per importanza, ci sono i “Mistici”, che hanno avuto carriere così miracolistiche da essere troppo impegnati a rendere omaggio ai loro Santi Patroni per accorgersi che c’è un mondo là fuori, ma almeno questi ultimi non sono dannosi per l’ambiente perché non li si vede e non li si sente.

Io non so se sono Illuminato o Fulminato (o entrambe), lascio a chi legge i miei pezzi stabilirlo, sicuramente non sono Mistico (visto l’andamento della mia carriera).

Per certo Eckhard Hein è uno studioso serio e razionale. Ho letto il suo ultimo libro The Macroeconomics of Finance-dominated Capitalism – and its Crisis” edito da Edgar Elgar (2012), e credo che possa rappresentare un ottimo esempio di che cosa vuol dire fare i Macroeconomisti.

Hein analizza le trasformazioni economiche provocate da un capitalismo dominato dalla finanza, individuando i canali attraverso i quali esso opera e propone soluzioni di politica economica per uscire dalla crisi. Fa tutto questo attraverso l’analisi dei dati di un gruppo di paesi c.d. “avanzati” e con l’ausilio del modello di crescita endogena proposto originariamente da Kalecki.

In primo luogo, l’autore dimostra che nel capitalismo dominato dalla finanza il reddito da lavoro si riduce a vantaggio dei profitti da capitale, delle rendite finanziarie e dei salari dei managers. Questo meccanismo non sarebbe di per sé dannoso, se i profitti così ottenuti fossero reinvestiti nell’economia reale. Invece Hein nota che la finanziarizzazione dell’economia produce un regime economico nel quale l’orizzonte temporale degli investimenti “si accorcia”. In pratica gli operatori guardano al brevissimo periodo, cercando di massimizzare i profitti finanziari in poco tempo, di conseguenza, si ottiene come risultato un sistema in cui ci sono “profitti senza investimenti”. Per esemplificare, anziché in una azienda si investe nel fondo speculativo.
Sostanzialmente a livello macro, ciò che avviene è un’estrazione di rendita finanziaria sovranazionale, laddove i capitali sono liberi, mentre il reddito dei lavoratori e le risorse a disposizione delle imprese si riducono.

Hein nota anche che i regimi economici che emergono dal capitalismo finanziario sono estremamente instabili dal punto di vista macroeconomico. In una mia ricerca, (che spero sia pubblicata a breve), dimostro empiricamente che l’instabilità macroeconomica impedisce una corretta trasformazione dei risparmi in investimenti, accentuando il fenomeno sottolineato da Hein. Pertanto unendo questi due argomenti si ottiene un circolo vizioso potenzialmente devastante e senza limiti.

Un altro aspetto interessante riguarda il cambiamento di risultati considerati come acquisiti dalla letteratura classica. Si sosteneva che un aumento del potere degli azionisti all’interno della società comportasse un incremento del tasso di accumulazione del capitale e di conseguenza della crescita di lungo periodo. Secondo Hein, le dinamiche descritte in precedenza ci raccontano un’altra storia, gli azionisti utilizzano i dividendi per il profitto di breve periodo, e per le ragioni di cui sopra, sottraggono denaro alla circolazione “produttiva” privilegiando quella speculativa. Di conseguenza l’aumento del potere degli azionisti anziché agire come stimolo alla crescita finisce per deprimerla.

Quando Hein introduce esplicitamente nel modello il debito privato, i risultati che ne scaturiscono sono tutt’altro che incoraggianti. Come abbiamo detto il reddito dei lavoratori si stà riducendo, gli stessi per mantenere un livello congruo di consumi si indebitano. Ma se il tasso di interesse è più alto del tasso di crescita dell’economia il debito aggregato tende a crescere senza limiti, in assenza di regolazione esterna (fenomeno che avevo analizzato in un altro pezzo).

Successivamente l’autore mette in evidenza che l’esplosione del debito in alcuni paesi europei ha colpito anche gli altri, perché la riduzione della domanda aggregata complessiva ha danneggiato le loro esportazioni.

In conclusione e riassumendo, il capitalismo dominato dalla finanza (insieme alle politiche economiche neo-liberiste) è alla base della crisi che stiamo vivendo. Per uscire da questa situazione è necessario, secondo Hein, muoversi su diversi profili. A livello intranazionale devono essere varate politiche fiscali che restituiscano potere d’acquisto ai redditi da lavoro, anche in termini di aumenti salariari. Questo ridurrebbe gli effetti derivanti dall’incremento del debito privato. Per quanto riguarda il contesto europeo, Hein sostiene che sia necessario un maggior coordinamento delle politiche economiche tra i diversi stati, al fine di muovere risorse dai paesi in surplus commerciale verso quelli in deficit per ridurre gli squilibri (che durante la crisi sono aumentati).

Un aspetto decisivo in questo senso è la considerazione che l’ampiezza dei fenomeni evidenziati ha dimensione sovranazionale, di conseguenza anche una buona politica, varata dal singolo stato potrebbe rivelarsi inefficace, se gli altri paesi fanno l’opposto. Inoltre è necessario, secondo l’autore, reintrodurre la separazione fra banche commerciali e banche d’investimento, oltre ad una efficiente regolazione del settore finanziario a livello sovranazionale.

Ovviamente nel libro c’è molto di più ed ho sottolineato solo gli aspetti che hanno colpito la mia curiosità, pertanto ne consiglio la lettura ai più “appassionati di Economia”. Economisti e non.


giovedì 29 agosto 2013

Mr. Monti’s wrong answers

This is English version of my article named "Le risposte sbagliate del governo Monti" wrote in September 2012 (problems are the same and we don't see solutions).



Abstract
Mr. Monti is trying to implement some economic measures based on neoclassical vision of the economy. Especially it is focused on taxes, public expenditures, labor market and welfare in general Unfortunately these measures demonstrate that he has misunderstood the causes of the crisis and it seems that he has no clue how to get out of it.  Unless he changes completely his strategy there is a high probability that in few months the crisis would be worsened and Eurozone collapse would be accelerated.

What Mr. Monti says
When Mr. Monti was assigned to a position of prime minister Majority of Italians was happy because they thought that a professor of economics for sure should have clear vision of the crisis. He announced that his government has three main goals. The first is to show that Italians are able to “do homework” in terms of reduction of public expenditure, to obtain equilibrium in public balance and to recover credibility. Second is to ensure growth. Third is to be fair with citizens because in Italy there are lots of people that pay enormous amount of taxes (that often goes in the wrong directions) and another part of population that pay nothing but still receives public services.

What Mr Monti did
Despite his initial plans the first thing he tackled was labor market. Some rights of workers were lost because of Mr. Monti’s endeavor to open labor market. Anyway, labor market in Italy was “too” opened because reforms in the past 20 years forced millions of workers towards short term contracts. Nobody was assumed in consequence of this last reform. Secondly, he issued a law of “balanced budget” that became part of the Constitution. That implies constant reduction of public expenditure year by year because Italy is paying an increasing amount of interests on debt. If interest rate goes up than Italy will have to cut expenditures on transfers to regions and in following sectors: education, healthcare, courts and so on. But this kind of cuts certainly will generate reduction in consumption, GDP and also will determine social instability. If GDP declines we will need carry out more cuts to make our debt sustainable and this process repeats again and again. Thirdly, Mr. Monti has issued a law for public insurance of banks against the risk of bankruptcy. Now Italian banks are purchasing debts of State with funds from BCE (to 1% of interest rate). Banks will receive from 5% to 7% of interest rate from the State. In practice the State do not receive money directly from BCE but has to pay this money with 5% per year to Italian banks. GDP of Italy is increasing by zero % per year, this means that the State has to reduce public expenditure (again) or has to sell its property (like buildings, lakes, islands, etc.). These are the main reasons why our debts are increasing in spite of cuts. Eventually if some banks collapse, the State will have to pay for it. This is what is happening.

What Mr. Monti could not do
Since the Prime Minister was a follower of neoclassical rules everyone have been expected that he would be able to “open” markets inside of Italy. In this field he failed completely. His government is supported by Berlusconi’s party, historic enemy of all kinds of liberalization because he is an owner of the enterprises in many of economic sectors that are closed to the market competition (insurance, banks and mass media). Mr. Berlusconi could not vote in parliament against himself. The lobbies have won easily and all the Italian markets are blocked equally as before the government of Mr. Monti was established. Also all Italians are still waiting for someone who can propose real solutions for the problems in our economy. Corruption, inefficiency of justice, criminal organizations, inefficiency of bureaucracy are the most important factors that are pushing investors away from us. Not a single law passed by the government was able to mitigate the problem. Only equilibrium of balance itself is not sufficient to promote foreign investments; it is just one of the essential conditions. There should be favorable conditions for investors. Actually the environment in Italy is not that attractive in this sense. Also in all of his speeches the Prime Minister mentions that economic growth is important, but he cannot spend any amount of money if BCE and EU policies are not changed because in these conditions of public balance, the debt will grow.

Conclusion
Mr. Monti’s government could fulfill only first commitment of his program i.e. recover international credibility that was damaged after Mr. Berlusconi’s office period. Except for that other directions taken by the government were wrong and did not tackle real problems of Italian system. Economic policy driven by Mr. Monti is recessive and it is somehow impacted on increase of public debt. Some economic policies that could have increased attractiveness of Italy were not implemented because the government is too weak in respect to parties that vote for a law in parliament. Unless different line of economic policy is taken, Mr. Monti’s government will be remembered as failure that led to decline of Italy and Eurozone in general.

martedì 9 luglio 2013

Quali Riforme per l’Italia?



Salvatore Perri

La condizione Economico-Finanziaria dell’Italia è particolarmente seria. Migliorarla è estremamente difficile, per farlo ci sarebbe bisogno di interventi strutturali consistenti sui comparti reali del sistema economico (investimenti) e contestualmente di vere “riforme” normative che traccino le linee guida un percorso di sviluppo realistico per i prossimi decenni. La complessità della realtà richiede risposte complesse, non in termini formali, ma in termini di comprensione delle dinamiche che stanno determinando l’arretramento strutturale del “sistema Italia”. Questo livello di comprensione, ascoltando le priorità degli ultimi 3 governi, è piuttosto scarso.

Imprese. La crisi del settore industriale italiano viene da almeno due decenni. La mancanza di una politica industriale da parte di governi si è sommata all’inevitabile perdita di competitività delle imprese italiane sui mercati internazionali a seguito della globalizzazione economica. Ad una prima fase di difficoltà delle grandi imprese del nord-ovest, il mondo imprenditoriale ha reagito mutando la forma della produzione attraverso ristrutturazioni che permettessero produzioni innovative e di qualità su scala più piccola. Tuttavia l’avvento di nuovi competitori sui mercati, caratterizzati da bassi costi di produzione, ha provocato la crisi anche del “miracolo nord-est”. L’Italia, sostanzialmente, è un paese post-industriale, laddove il peso dei servizi e del terziario (sostenuto dalla domanda interna) è destinato ad essere predominante negli anni avvenire rispetto alla produzione di merci in senso stretto.
Negare questo elemento contribuisce a far perdere del tempo prezioso aspettando che “rinascano” nuove imprese come quelle che abbiamo conosciuto. Questo non accadrà.
E’ necessario sostenere le aziende competitive attraverso il supporto alla riqualificazione ed alla modernizzazione produttiva, ed attraverso il taglio degli oneri fiscali che incidono sul costo del prodotto, non attraverso ulteriori tagli al costo del lavoro (totalmente inutili e dannosi, come si spiegherà in seguito).
Inoltre, anziché insistere sul rifinanziamento della cassa integrazione di aziende che non possono tornare alla produzione, è necessario investire su piani di riqualificazione territoriale che permettano alle imprese di perseguire obiettivi pubblici con lavoro privato (sicurezza del territorio, adeguamento antisismico, mobilità sostenibile, bonifiche di discariche, solo per citarne alcuni).

Lavoro. E’ stata opinione diffusa, ribadita tra l’altro da eminenti studiosi, che la flessibilità del lavoro avrebbe costruito per l’Italia un paradiso di piena occupazione. Le imprese aspettavano solo un rilascio normativo degli inaccettabili vincoli ai licenziamenti o alle assunzioni temporanee. Ho già scritto di questo assunto e di come sia totalmente falso, ma è interessante sottolinearne un aspetto diverso. Se le aziende soffrono la crisi, licenziano, delocalizzano, chiudono per le ragioni sopra elencate, che effetto possono avere incentivi alle assunzioni o modifiche normative ai contratti? La risposta è elementare: nessun effetto positivo. Inoltre, come era stato ampliamente previsto, una flessibilità senza regole, senza continuità contributiva, ha generato ulteriori problemi contribuendo a comprimere la domanda interna ed aggravare la crisi. Lo stillicidio di dati sulla disoccupazione e sul crollo dei consumi (anche alimentari) dovrebbe contribuire a svegliare anche i più addormentati.
Alzare l’età pensionabile e ridurre le tutele contrattuali per i neo-assunti può comportare un piccolo beneficio nel breve periodo ed un disastro a medio termine, perché calano le entrate fiscali e quindi i conti dello stato tornano velocemente a peggiorare (nei periodi delle ultime “riforme” del mercato del lavoro il debito pubblico ha continuato la sua inarrestabile ascesa).
Le uniche riforme sensate riguardano la Redistribuzione del Lavoro nelle aziende produttive e l’introduzione di una forma di Reddito Minimo per tutti coloro che non potranno essere ricollocati nel mercato del lavoro (fenomeno che ho già discusso in altri pezzi).

Stato. Non necessariamente un elevato peso del settore pubblico è un male per un sistema economico (nelle condizioni sopra indicate di quello italiano nello specifico). Il peso dello stato diventa un problema se non fornisce servizi efficienti, se è costoso, permeato dalla corruzione e condizionato dalla politica nel senso deteriore del termine. In questo caso, contrariamente agli altri settori, si potrebbero ottenere grandi risultati con provvedimenti normativi. Una severa legge anticorruzione ad esempio potrebbe contribuire ad abbassare i costi delle opere pubbliche, che sono i veri costi della politica che nessuno riesce ad abbattere. Una legge che riesca ad impedire le assunzioni clientelari nell’insieme degli enti pubblici (ospedali e posizioni dirigenziali degli enti pubblici) con pene esemplari per i trasgressori, contribuirebbe in breve tempo ad aumentare l’efficienza della pubblica amministrazione, più della visita fiscale per chi ha 37 di febbre. La corruzione contribuisce ad aumentare il costo delle opera pubbliche e la gestione della burocrazia, inoltre genera un circolo vizioso che coinvolge il privato inefficiente selezionando le imprese peggiori per l’adempimento degli appalti. Aperta la porta alle corruttele è naturale che la criminalità organizzata ne approfitti entrando di fatto nel meccanismo di gestione degli enti pubblici.
La politica di gestione del settore pubblico fatta  esclusivamente di tagli, oltre a disincentivare i settori virtuosi, deprime l’economia. Quando i tagli colpiscono cultura e beni artistici si contribuisce al depauperamento dell’unico patrimonio non riproducibile che il paese possiede contribuendo ad accelerare le dinamiche depressive già in atto (a questo punto anche in termini di competenze).
Dismettere parti del patrimonio pubblico, senza aver definito con chiarezza un piano per valorizzarne la parte restante, potrebbe essere un palliativo utile solo a respirare per pochi mesi.

Conclusioni.  Le politiche economiche hanno effetti positivi o negativi su un sistema economico a seconda che riescano ad incidere su quelli che sono i problemi, analogamente alla risposta che un organismo umano ha rispetto all’assunzione di un farmaco. Nell’attuale momento storico e nell’attuale condizione economica italiana sono utili politiche che incrementino i consumi interni e gli investimenti. Non hanno senso ulteriori tagli della spesa, è possibile agire nello specifico di riduzioni mirate di spesa improduttiva a patto che il risparmio sia speso immediatamente e per intero in un altro settore. Non ha senso prorogare in eterno forme di cassa integrazione per aziende dismesse, si deve passare ad un sistema di redistribuzione del lavoro nelle aziende vitali e reddito minimo per i lavoratori espulsi dal mercato. Non ha senso dismettere il patrimonio pubblico a meno che il ricavato non venga investito, se il ricavato viene utilizzato per ridurre il debito le condizioni di solvibilità dell’Italia miglioreranno nel breve periodo e peggioreranno nel lungo. Bisogna sostenere il tessuto imprenditoriale attraverso riduzioni di oneri e burocrazia senza interferire nell’allocazione spaziale delle imprese. Bisogna intervenire con un piano straordinario di lotta alla corruzione sia nel pubblico che nel rapporto pubblico-privato. Piccoli interventi di spostamento di capitolati insignificanti, come quelli che si profilano oggi, non avranno alcun impatto sull’attuale dinamica economica italiana.