domenica 3 marzo 2019
venerdì 12 ottobre 2018
Book Review "E se l'Italia tornasse alla lira?"
La mia recensione del libro "E se l'Italia tornasse alla lira?" di Marelli e Signorelli sull'ultimo numero di MonetaCredito https://ojs.uniroma1.it/index.php/monetaecredito/index …
lunedì 18 giugno 2018
Mezzogiorno senza reddito e senza cittadinanza
C'è un Sud che non ha ancora cittadinanza, trovata quella, si potrà parlare anche di reddito. Oggi su Economia&Politica: http://www.economiaepolitica.it/lavoro-e-diritti/lavoro-e-sindacato/mezzogiorno-senza-reddito-e-senza-cittadinanza/
La proposta di istituire in Italia un reddito di cittadinanza, proposto come disegno di legge, dal movimento 5 stelle, e largamente utilizzato nella campagna elettorale, ha l’indubbio merito di aver rilanciato il dibattito sul reddito di base. Purtroppo la struttura della proposta, la confusione metodologica e tecnica da cui scaturisce, unita alle peculiari condizioni strutturali dell’economia del sud in particolare, potrebbe determinarne una sostanziale inefficacia, se l’obiettivo (non dichiarato) fosse quello di ridurre il divario strutturale fra nord e sud.
La proposta di istituire in Italia un reddito di cittadinanza, proposto come disegno di legge, dal movimento 5 stelle, e largamente utilizzato nella campagna elettorale, ha l’indubbio merito di aver rilanciato il dibattito sul reddito di base. Purtroppo la struttura della proposta, la confusione metodologica e tecnica da cui scaturisce, unita alle peculiari condizioni strutturali dell’economia del sud in particolare, potrebbe determinarne una sostanziale inefficacia, se l’obiettivo (non dichiarato) fosse quello di ridurre il divario strutturale fra nord e sud.
Reddito di base o Super-sussidio?
In primo luogo il reddito di cittadinanza proposto (RDC) non è un reddito di cittadinanza, la questione non è semantica[1].
Facendo riferimento al DDL proposto al Senato dal M5S è prevista la
perdita del diritto a riceverlo nel caso non si accettino 3 proposte di
lavoro “congrue” o si receda 2 volte da un lavoro. La possibilità di
perderlo non lo configura come reddito incondizionato, bensì come un
reddito erogabile a determinate condizioni economiche, all’accettazione
delle proposte di lavoro a determinati percorsi formativi/lavorativi.
Più precisamente, Tridico, infatti parla di Reddito Minimo Condizionato[2]
(RMC). Di fatto questa proposta finisce per essere un’estensione del
sussidio di disoccupazione aumentato fino a 780 euro mensili. Obiettivo
dichiarato del provvedimento, “riattivare gli inattivi”[3], ovvero far partecipare al mercato del lavoro coloro che ne sono esclusi, sostenendo il loro reddito nel periodo transitorio.
RDC e Sud, quanto è transitorio il periodo transitorio
Il divario occupazionale tra nord e sud
si è mantenuto molto elevato negli ultimi 24 anni, quando a parte una
lieve diminuzione a metà degli anni 2000 si è mantenuto attorno ai 12
punti percentuali con una certa costanza nel tempo.
Figura 1. Tasso di disoccupazione
Ci si deve chiedere, partendo dai dati,
se è credibile una misura isolata per affrontare una questione
“strutturale” di questa portata? Una proposta di questo tipo appare
distorta all’origine, dalla concezione che lo squilibrio sul mercato del
lavoro sia dovuto all’incapacità intrinseca del lavoratore meridionale a
trovare un posto di lavoro che c’è ed esiste già. Quindi basterebbe
“potenziare” i Centri per l’Impiego, che però da tempo evidenziano la
loro scarsa efficienza nel placement dei disoccupati meridionali, pur avendo metà dei dipendenti nazionali[4].
La misura proposta quindi finisce per prestarsi a contestazioni,
fondate, di varia natura sia in riferimento alla sostenibilità che
all’efficacia.
Sostenibilità
Come segnalato da Seminerio[5]
in diversi interventi, non si può considerare di fatto questo
intervento un intervento transitorio, poiché essendo condizionato
all’accettazione del lavoro “congruo” diventa di fatto permanente, se
ipotizziamo che il realtà tanti posti di lavoro congrui nel Sud non ci
siano (il lavoratore prima di perdere il diritto al super-sussidio deve
rifiutarne 3). Considerando che i Centri per l’impiego attuali faticano a
proporre il primo, la misura servirebbe a trasformare gli inattivi in
disoccupati permanenti a 780 euro al mese. La somma è ritenuta da
Seminerio troppo elevata, punterebbe al superamento della povertà
relativa e disincentiverebbe la ricerca di lavoro, consentendo tuttavia
la sopravvivenza del settore sommerso. Quest’ultimo punto è
questionabile, se l’ammontare è elevato aumenta l’incentivo a rimanere
disoccupati, indubbiamente, ma aumenta anche l’incentivo a non accettare
lavori sottopagati, senza tutele, ed a condizioni estreme, che sono le
caratteristiche di ciò che offre il settore sommerso nel Sud. A maggior
ragione se si tiene conto che l’eventuale rinvenimento di posizioni
lavorative in nero potrebbe comportare la perdita del beneficio. Resta
la questione della sostenibilità finanziaria, come detto il beneficio
potrebbe trasformare di fatto da temporaneo in permanente, supponendo la
buonafede di chi lo propone (e le coperture) può un paese con un debito
pubblico enorme sostenere uno sforzo del genere? La risposta è no
sopratutto se si considerano i costi impliciti alla proposta.
I costi impliciti del RDC
Si è detto del costo mensile che sarebbe
di 780 euro al mese per disoccupato (e inattivo trasmutato), il doppio
circa dell’omologo programma tedesco Hartz IV con cui peraltro condivide
l’impostazione (reddito condizionato alla ricerca ed accettazione di
lavoro). Una delle critiche a cui è sottoposto il programma Hartz IV è
l’eccesso di burocrazia necessaria a garantirne il funzionamento.
L’Italia è il paese della burocrazia costosa e inefficiente[6],
nel Sud la situazione è ancora peggiore. La proposta di RDC così com’è
implica un potenziamento quantitativo della burocrazia disponendo che
questa debba “monitorare” la ricerca di lavoro ed organizzare
eventualmente i “corsi di formazione” obbligatori per accedere al
programma. Paradossale la proposta di “lavori sociali” per alcune ore
settimanali da parte di chi riceve il sussidio. Dotare di strumenti e
controllare queste attività potrebbe costare quanto se non più del
sussidio stesso e per un tempo indefinito[7].
Una pagina a parte riguarda i corsi di formazione. La strategia di
Lisbona ci ha lasciato in eredità una serie di “politiche dell’offerta”
che copiando le “best practices” nord europee
avrebbero guidato le regioni meridionali fuori dal sottosviluppo. Queste
politiche si sono basate sugli incentivi alle imprese e sulla
formazione dei lavoratori, paradigmi neoclassici. Gli incentivi alle
imprese hanno aumentato il tasso di nata/mortalità delle imprese, mentre
i corsi di formazione (con incentivo orario) hanno rappresentato una
forma di reddito passivo per formatori (generalmente enti privati
accreditati) e beneficiari, senza che ci sia stato un riscontro di
nessun genere sul mercato del lavoro (sia in termini di tasso di
disoccupazione che di occupazione). Non è ben chiaro cosa cambierebbe
con il nuovo sistema, chi deciderebbe quali “corsi” necessitano al
lavoratore meridionale, in quali campi e di quale intensità?
La confusione teorica
Si è detto che un trasferimento ai
disoccupati/inoccupati, a prescindere dalla forma, può avere come
effetto ultimo quello di sostenere la domanda aggregata attraverso i
consumi. Questo tipo di intervento parte da presupposti diametralmente
opposti rispetto alle politiche dell’offerta neoclassiche basate sulla “flex-security”.
La proposta del RDC confonde le cose, per rendere “accettabile” ai
contribuenti l’elargizione di una somma ai disoccupati (piu’ che
proporzionalmente meridionali) deve abbinare alla misura un controllo
rigoroso del soggetto ricevente, che deve essere istruito, spinto a
lavorare, e severamente punito in caso di inadempienza. Ne viene fuori
una figura del disoccupato meridionale propenso all’ozio, all’ignoranza
ed al lassismo come stile di vita. Ben si attaglia questo concetto ai
recenti dibattiti sul lavoro nel sud. I meridionali sarebbero anche meno
produttivi quando un lavoro ce l’hanno, quindi meriterebbero un salario
inferiore[8]. Inoltre, secondo l’analisi di Ricolfi sul Foglio, il Sud in generale sarebbe un parassitario assorbitore di risorse pubbliche[9]. Questo quadro sconfortante viene implicitamente avallato dalla proposta di RDC proprio per come è strutturato.
Un Sud perduto o una politica economica sbagliata?
Le politiche economiche applicate nel
Sud e, in particolare, gli incentivi europei, peccano di due errori
fondamentali: avallare le politiche neoclassiche e pensare che sia
possibile applicare “per analogia” politiche economiche identiche a
contesti differenti. Si è detto che le “politiche dell’offerta” e le
best practices della strategia di Lisbona non hanno modificato il
tessuto economico meridionale in misura sostanziale. Se si vuole
affrontare seriamente il divario nord-sud, bisognerebbe intervenire con
un piano a medio-lungo termine che consideri in primo luogo il divario
infrastrutturale (fisico, immateriale e tecnologico), la lotta alla
criminalità organizzata, alla corruzione ed alle clientele parassitarie.
Sul lato delle imprese non serve finanziarne di nuove, se le nascenti
muoiono perché non riescono ad avere credito a costi accessibili. Sul
lato pubblico bisogna efficientare la burocrazia, modernizzandola,
imponendo severi controlli di valutazione con premi e sanzioni,
togliendo il reclutamento dei funzionari pubblici dalla disponibilità
della politica istituendo delle centrali uniche alla stregua delle
stazioni appaltanti. La trasformazione del funzionamento del sistema
economico meridionale richiederà tempi non brevi, proprio per questo
questi interventi dovrebbero essere attuati ad un livello europeo, che
lasci da parte le “buone pratiche” nordiche, come parrebbe finalmente
avere abbandonato il paradigma dell’austerità espansiva. Se si vuole
potenziare l’istruzione bisognerebbe combattere la dispersione
scolastica e l’analfabetismo di ritorno, potenziando la formazione
pubblica e la ricerca di base. All’interno di una siffatta strategia di
sviluppo, troverebbe posto anche un reddito di base, condizionato al
solo reddito, senza apparati burocratici e centri di potere a mediarlo,
di ammontare simile all’omologo tedesco, sommabile a redditi da lavoro.
Il finanziamento di queste strategie potrebbe essere favorito anche
dalla revisione complessiva del sistema di incentivi pubblici, della
cassa integrazione (da lasciare solo per le aziende con prospettive di
rilancio), delle miriadi di lavori sociali e dalla drastica riforma
delle società partecipate dal pubblico. Una società dei diritti da
contrapporre alla società del privilegio, a meno che non si sia
realmente convinti che i meridionali siano esseri antropologicamente
inferiori.
[1] Il “reddito di cittadinanza” sarebbe di cittadinanza se fosse connaturato ai diritti di cittadinanza stessi.
[2]
Si veda la risposta degli autori al dibattito: Tridico et al. “Reddito
minimo e output gap: trucchetto contabile o questione politica?” su
Economia&Politica, 30 marzo 2018,
http://www.economiaepolitica.it/politiche-economiche/europa-e-mondo/reddito-minimo-e-output-gap-trucchetto-contabile-o-questione-politica/
[3]
Si ricorda che gli “inattivi” sono coloro che non cercano lavoro,
quindi non entrano nel calcolo della disoccupazione effettiva in quanto
non sono disoccupati in senso tecnico. La partecipazione di tutti, o
parte, degli inattivi dovrebbe portare un beneficio in termini di
modificazione del prodotto potenzialmente ottenibile (che dipende
appunto dal numero assoluto di lavoratori “occupabili”).
[4] Dati al 2015 del monitoraggio ISFOL: http://www.isfol.it/primo-piano/uscito-il-rapporto-di-monitoraggio-dell2019isfol
[5]
In questo saggio si fa riferimento agli articoli della proposta di
legge estrapolati da Seminerio nel contributo “Perché il reddito di
cittadinanza è di fatto un sussidio incondizionato” https://phastidio.net/2018/03/13/perche-il-reddito-di-cittadinanza-e-di-fatto-un-sussidio-incondizionato/, nel quale sono presenti molte delle obiezioni discusse.
[6] Si veda l’ultimo rapporto a riguardo della CGIA di Mestre: http://www.cgiamestre.com/wp-content/uploads/2017/08/14-agosto.pdf
[7] A meno che la proposta non abbia limiti temporali come appare nell’ultima bozza del “contratto di governo”.
[8]
Il dibattito sul tema è ben rappresentato da Clericetti su Repubblica
on-line:
http://clericetti.blogautore.repubblica.it/2016/06/07/nel-sud-salari-troppo-alti-come-no/
[9]
Ricolfi :”… se non dovesse staccare un assegno di almeno 50 miliardi di
euro all’anno alle regioni del Sud, il Nord sarebbe un’isola felice,
una sorta di Svizzera sotto le Alpi”.Si veda a tal proposito la
chiarificazione di Petraglia:
https://www.eticaeconomia.it/residui-fiscali-regionali-istruzioni-per-luso/
giovedì 21 settembre 2017
Brexit per andare dove?
Oggi, su "Economia e Politica" le mie riflessioni sulle potenziali conseguenze della Brexit per il Regno Unito e per l'Europa.
Brexit per andare dove?
In un’intervista il capo economista della Bank of England[1] ha fatto pubblica ammenda per le previsioni “errate” rispetto ai possibili effetti della Brexit, attribuendo questi errori al diverso comportamento degli operatori rispetto alle ipotesi del modello. Cosa accadrà realmente con la Brexit nessuno può dirlo, dipenderà dall’esito degli accordi che necessariamente dovranno essere presi. Se gli accordi dovessero modificare le libertà fondamentali, la libera circolazione di persone, merci e capitali, le conseguenze non possono che essere negative, perché non ci sono ragioni economicamente sostenibili a supporto del contrario. Nel caso della “hard Brexit” ci sarà una perdita di benessere per tutti, ma i rischi maggiori li correrà proprio la Gran Bretagna.
Aspettative e Brexit
In primo luogo la Brexit vera e propria non c’è stata, questa constatazione ovvia non è stata sufficientemente considerata nel dibattito attuale, allora cosa avrebbero stimato gli esperti della Banca d’Inghilterra? Essi hanno considerato i possibili effetti reali che “l’annuncio” della Brexit avrebbe determinato. Tecnicamente, essi hanno anticipato ad oggi i possibili effetti futuri dell’uscita vera e propria. L’errore che hanno commesso è proprio in questo passaggio, essi hanno assunta come data la Brexit, ma non solo, hanno presunto che l’esito dei negoziati sia di tipo conflittuale (la c.d. hard Brexit). La Brexit in realtà potrebbe anche non verificarsi del tutto, non a causa delle prossime elezioni, quanto per il fatto che analizzando lucidamente i pro ed i contro, il futuro premier del Regno Unito potrebbe convincersi a concordare una Brexit talmente soft da somigliare all’ultimo accordo raggiunto fra Cameron e l’Unione Europea prima del voto.
Effetti positivi della Brexit?
L’economia Britannica, non avendo subito un tracollo immediato, dimostrerebbe che uscire dall’unione possa essere addirittura positivo per l’economia, almeno secondo i sostenitori dell’abbandono del progetto europeo. E’ questo un argomento solido? In primo luogo, è riconosciuto da tempi non sospetti che un certo livello d’incertezza nel valore del cambio e del tasso d’interesse interno possano anche avere effetti positivi per le imprese nel breve periodo[2], pertanto il “mancato tracollo” non è sorprendente. Si può obiettare che la Banca d’Inghilterra ha sempre avuto il controllo sui tassi d’interesse, non avendo la Gran Bretagna adottato l’euro, ma concretamente i trattati vincolavano la gestione dei cambi all’interesse comune europeo[3]. E’ possibile allora sostenere che il calo del valore della Sterlina nell’ultimo periodo stia esercitando effetti positivi, cosa che però sarebbe stata altrettanto possibile se la Gran Bretagna fosse rimasta nell’Unione[4]. Di fatto quindi nulla di nuovo è ancora accaduto. Le previsioni pessimistiche sugli effetti del voto non si sono avverate probabilmente perché gli operatori hanno semplicemente deciso di attendere quantomeno l’inizio dei negoziati, ed il loro orientamento, per decidere il da farsi.
Le possibili conseguenze per il Regno Unito della “hard Brexit”
In campagna elettorale i sostenitori del “leave” non hanno segnalato i reali argomenti di criticità del rapporto fra Regno Unito ed Europa (e soprattutto Germania) come ad esempio il crescente squilibrio della bilancia commerciale Britannica[5], ed il conseguente scontento del mondo delle piccole e medie imprese nei confronti dell’Europa[6].
Gli argomenti cardine della campagna per la Brexit sono stati altri. In primo luogo, si è parlato di “sovranità” in senso lato, soprattutto con riferimento alla gestione dei flussi migratori, e del costo relativo ai trasferimenti verso l’Unione di cui il Regno Unito era contributore netto. Nello scenario di Brexit conflittuale il Regno Unito potrebbe chiudere le frontiere all’immigrazione sia europea che extraeuropea, ma sarebbe positivo? Tutti i modelli di crescita economica di lungo periodo concordano sulla necessità che la popolazione cresca, le economie mature stanno invece andando incontro ad un declino demografico che appare irreversibile, almeno tendenzialmente, tanto è vero che i paesi europei con un più alto tasso di natalità sono quelli con maggior presenza di immigrati[7]. Un certo livello di immigrazione pertanto è funzionale al mantenimento di tassi di crescita almeno al livello attuale. Inoltre, è evidente come il Regno Unito attragga emigrazione “skilled” ovvero con un alto livello d’istruzione e di dinamicità sociale, soprattutto dagli altri paesi europei. Restringere i flussi migratori pertanto potrebbe avere un impatto negativo sulla crescita sia quantitativamente ma soprattutto qualitativamente.
L’altro argomento forte della campagna elettorale è quello relativo al contributo economico che il Regno Unito versava all’UE in quanto “contributore netto” (secondo la CGIA di Mestre per circa 5,5 MLD di Euro annui in media tra il 2000 ed il 2014). In sostanza smettendo di contribuire all’unione, la Gran Bretagna riacquisirebbe la propria sovranità nell’utilizzo dei fondi pubblici addirittura guadagnandoci. Anche quest’argomento in se non è convincente, in quanto implica che la Gran Bretagna sia una realtà coesa ed omogenea anche dal punto di vista economico. La Gran Bretagna è contributore netto, ma Irlanda del Nord e Scozia sono prenditori netti, non a caso la Scozia sta cercando di “rientrare nell’Unione” attraverso un referendum per l’indipendenza dalla Gran Bretagna, utilizzando il medesimo argomento. E’ presumibile che nel tentativo di convincere queste regioni a rimanere, il governo Britannico debba sostituire i fondi europei con risorse proprie, magari aumentandole. Questo è esattamente l’opposto di quello che è stato promesso, in quanto il governo Britannico si ritroverebbe ad utilizzare i criteri europei (criteri di convergenza) per spendere dotazione finanziaria interna.
La bilancia commerciale
Dati 2015, l’Unione è di gran lunga il primo partner commerciale del Regno Unito, verso cui esporta 229 Miliardi di Sterline importando da essa per 291 Miliardi. Queste cifre rendono evidente il legame economico fra Londra e Bruxelles[8]. I sostenitori della Brexit ipotizzano che, essendo l’Unione Europea esportatore netto nei confronti del Regno Unito, dovrebbe accettare di buon grado qualsiasi tipo di politica commerciale “ostile” senza attuare contromisure. Il ragionamento, di per sè valido, pecca in questo caso nel considerare l’Unione come una realtà unitaria quando non è così. Se ipotizziamo una guerra commerciale tra Unione Europea e Regno Unito, l’Unione ne sarà svantaggiata nell’aggregato, ma l’impatto sarà negativo in misura maggiore per alcuni e minore per altri, ad esempio la Germania perderà più dell’Italia e via discorrendo, mentre le perdite del Regno Unito saranno tutte per il Regno Unito. Inoltre c’è la considerazione che non potendo “ipoteticamente” commerciare col Regno Unito, l’Unione attuerebbe una ricomposizione interna dei propri flussi commerciali attenuando così gli effetti negativi, per poi eventualmente cercare ulteriori accordi commerciali con altre aree del pianeta in funzione della propria forza commerciale (come ad esempio il recente accordo col Canada). Questa strada non appare così semplicemente percorribile per il Regno Unito. Dall’avvio del meccanismo di integrazione europea i flussi commerciali britannici sono cambiati e l’Europa geografica è uno sbocco irrinunciabile non solo per le esportazioni ma soprattutto per l’Import. Se dovessero tornare le frontiere, potrebbe accadere che questi flussi di importazioni potrebbero rimanere costanti, perché sostituire le merci europee con quelle di altri paesi determinerebbe maggiori costi di trasporto, tali almeno da coprire gli eventuali dazi. Inoltre la comparsa di una frontiera determina aggravi di costi, superiori alla distanza geografica, come dimostrato da numerose ricerche empiriche[9]. Le alternative all’Europa sarebbero tutte più costose, anche nell’eventualità di “accordi bilaterali” perché le possibilità di ottenere condizioni vantaggiose con altri partner (USA e Russia ad esempio) dipenderebbe dal rapporto di forza economica fra i due contraenti[10], e la Gran Bretagna da sola rischia di dover accettare ciò che viene imposto da altri.
Protezionismo e Svalutazione
Sempre nello scenario “hard” Brexit potrebbe accadere che la liberale Gran Bretagna diventi un paese chiuso, protezionista ed aggressivo sul lato dei cambi, ma è mai avvenuto questo nella storia? La risposta è no. L’Inghilterra da sempre è la patria del libero scambio, teorizzato e praticato, riconosciuto come benefico per la crescita economica, sin dagli albori dell’economia politica. L’Inghilterra conobbe un periodo di dazi esclusivamente come “reazione” a politiche commerciali aggressive da parte della Germania, che includevano la pratica del dumping, nei primi decenni del ‘900. Si può validamente argomentare che un numero sempre crescente di stati stia riconvertendo le proprie politiche economiche verso un “nuovo protezionismo”, tuttavia è ancora grande la consapevolezza[11] che questa non sia la soluzione, in quanto l’innalzare di nuove barriere ridurrebbe la ricchezza in termini aggregati, ed in un contesto del genere un singolo paese corre maggiori rischi rispetto ad un’area di libero scambio. Non diversa è la storia sul lato dei cambi, il prestigio internazionale della Sterlina ha rappresentato storicamente un punto irrinunciabile della politica monetaria Britannica, infatti, la difesa strenua del cambio della Sterlina tra le due guerre mondiali, è considerata la causa del deflusso d’oro verso gli Stati Uniti che determinò l’avvento di New York come maggiore centro finanziario internazionale[12]. Inoltre, la rigidezza con la quale i governi Britannici hanno contrastato l’inflazione negli anni ’80 rende veramente difficile immaginare un contesto di svalutazioni e inflazione a soli fini commerciali.
La terza delle libertà fondamentali
Dal punto di vista strategico la posizione del Regno Unito era invidiabile nel momento in cui pur nel mercato unico, poteva decidere (almeno parzialmente) la propria politica monetaria e poteva porre il veto a decisioni europee che potessero danneggiare gli interessi Britannici, quali ad esempio maggiori imposte sui flussi internazionali di capitali (e sulle “trust limited”) o sulla politica estera dell’unione. Ora che “out is out” l’unione in sede di trattativa ha uno strumento di pressione importante che riguarda la finanza. La Gran Bretagna è il primo centro finanziario in Europa, la libera circolazione dei capitali fa sì che i profitti finanziari pesino per l’8% del PIL del Regno Unito. Inoltre 80 su 358 banche che operano nel Regno Unito hanno la loro sede centrale in altri paesi Europei rendendo il sistema bancario e finanziario estremamente interconnesso. In pratica il ruolo finanziario della Gran Bretagna non è dovuto (solo) alla sua forza economica, ma al fatto che molte imprese e società europee ed extraeuropee lo utilizzano come centro finanziario[13]. La semplice minaccia da parte europea di limitare i flussi finanziari da e per il Regno Unito, o di modificare la tassazione degli utili da questi prodotti, potrebbe portare alla fuga di tutte quelle società che operano prioritariamente verso l’Europa, che sposterebbero la loro sede giuridica dal Regno Unito ad uno qualunque dei paesi europei con la tassazione più simile. E’ inutile sottolineare che gli effetti per l’economia britannica potrebbero essere catastrofici.
Conclusioni
Riassumendo, in cambio della possibilità di attuare una politica migratoria restrittiva e di un risparmio di circa 5,5 MLD di euro annui, la Gran Bretagna ha accettato di correre il rischio di disgregarsi, di perdere il proprio ruolo di centro finanziario internazionale, di impoverirsi culturalmente, di diventare irrilevante in termini di politica estera e di dover deformare i propri flussi commerciali in maniera permanente. Accadrà questo? Probabilmente no, la “Hard Brexit” penalizzerebbe tutti inclusi gli europei, questa considerazione dovrebbe portare le trattative verso una qualche forma di “partenariato stretto” che salvi la sovranità del voto popolare ma anche gli interessi economici del Regno Unito che si concretizzano nelle libertà fondamentali. Gli operatori si sono mostrati prudenti, o semplicemente scommettono su un accordo che somigli molto all’ultima bozza negoziale ottenuta da Cameron prima del voto (accordo vantaggioso per i Britannici). Se così non dovesse essere ed al tavolo delle trattative dovessero prevalere interessi particolari, schermaglie politiche a fini interni e sottovalutazione dei rischi, le conseguenze negative potrebbero essere anche più pesanti di quelle stimate dagli uffici studi della Bank of England e dalla Brexit usciranno tutti sconfitti.
[1] “The Guardian” interpreta il discorso di Haldane: https://www.theguardian.com/business/2017/jan/05/chief-economist-of-bank-of-england-admits-errors.
[2] Si veda a tal proposito De Grauwe, Paul ”Economia dell’unione monetaria”, Il mulino, 2013, nona edizione: Pag. 78.
[3] La questione è disciplinata dall’art. 109 M del trattato di Maastricht che impone ai paesi esterni all’UEM, ma interni all’Unione di trattare il proprio tasso di cambio come “.. un problema d’interesse comune..”. Si afferma implicitamente che il cambio Euro/Sterlina è stato quindi soggetto ad una forma di fluttuazione amministrata.
[4] Sempre De Grauwe sottolineava che l’ingresso della Gran Bretagna nell’Euro, con una sterlina in calo, avrebbe rappresentato un rischio per gli altri paesi Europei (ibid. Pag. 180)
[5] Si veda a tal proposito Realfonzo R., Viscione A. “Brexit o remain? Ovvero la guerra commerciale anglo-tedesca” Economiaepolitica.it 2016 anno 8 n. 11 sem. 1. In questo articolo vengono evidenziati anche alcuni rischi potenziali della Brexit per l’economia britannica.
[6] L’argomento è riportato in Moro, D. “Brexit come crisi dell’Uem e della globalizzazione” Economiaepolitica.it 2016 anno 8 n. 12 sem. 2.
[7] Si vedano a tal proposito le interpretazioni del Demografo Livi Bacci con riferimento al World Population Prospects del 2015 delle Nazioni Unite.
[8] Dati della Banca D’Inghilterra disponibili nel report: http://www.bankofengland.co.uk/publications/Documents/speeches/2015/euboe211015.pdf
[9] Si può vedere a tal proposito C. Engels, http://www.ssc.wisc.edu/~cengel/PublishedPapers/HowWideIsBorder.pdf.
[10] Nello specifico dall’ampiezza del proprio mercato in termini di popolazione, e dalla quantità e varietà di merci che si propongono nello scambio.
[11] Al recente vertice G7 di Taormina è stato preso un impegno di massima a contrastare il protezionismo al quale hanno aderito anche gli Stati Uniti.
[12] Per i riferimenti storici si veda Giura, A. Dell’Orefice V. “Lezioni di Storia Economica” (1987).
[13] A riconoscimento del ruolo di “leader” finanziario, l’Autorità Bancaria Europea era stata dislocata proprio a Londra.
Brexit per andare dove?
In un’intervista il capo economista della Bank of England[1] ha fatto pubblica ammenda per le previsioni “errate” rispetto ai possibili effetti della Brexit, attribuendo questi errori al diverso comportamento degli operatori rispetto alle ipotesi del modello. Cosa accadrà realmente con la Brexit nessuno può dirlo, dipenderà dall’esito degli accordi che necessariamente dovranno essere presi. Se gli accordi dovessero modificare le libertà fondamentali, la libera circolazione di persone, merci e capitali, le conseguenze non possono che essere negative, perché non ci sono ragioni economicamente sostenibili a supporto del contrario. Nel caso della “hard Brexit” ci sarà una perdita di benessere per tutti, ma i rischi maggiori li correrà proprio la Gran Bretagna.
Aspettative e Brexit
In primo luogo la Brexit vera e propria non c’è stata, questa constatazione ovvia non è stata sufficientemente considerata nel dibattito attuale, allora cosa avrebbero stimato gli esperti della Banca d’Inghilterra? Essi hanno considerato i possibili effetti reali che “l’annuncio” della Brexit avrebbe determinato. Tecnicamente, essi hanno anticipato ad oggi i possibili effetti futuri dell’uscita vera e propria. L’errore che hanno commesso è proprio in questo passaggio, essi hanno assunta come data la Brexit, ma non solo, hanno presunto che l’esito dei negoziati sia di tipo conflittuale (la c.d. hard Brexit). La Brexit in realtà potrebbe anche non verificarsi del tutto, non a causa delle prossime elezioni, quanto per il fatto che analizzando lucidamente i pro ed i contro, il futuro premier del Regno Unito potrebbe convincersi a concordare una Brexit talmente soft da somigliare all’ultimo accordo raggiunto fra Cameron e l’Unione Europea prima del voto.
Effetti positivi della Brexit?
L’economia Britannica, non avendo subito un tracollo immediato, dimostrerebbe che uscire dall’unione possa essere addirittura positivo per l’economia, almeno secondo i sostenitori dell’abbandono del progetto europeo. E’ questo un argomento solido? In primo luogo, è riconosciuto da tempi non sospetti che un certo livello d’incertezza nel valore del cambio e del tasso d’interesse interno possano anche avere effetti positivi per le imprese nel breve periodo[2], pertanto il “mancato tracollo” non è sorprendente. Si può obiettare che la Banca d’Inghilterra ha sempre avuto il controllo sui tassi d’interesse, non avendo la Gran Bretagna adottato l’euro, ma concretamente i trattati vincolavano la gestione dei cambi all’interesse comune europeo[3]. E’ possibile allora sostenere che il calo del valore della Sterlina nell’ultimo periodo stia esercitando effetti positivi, cosa che però sarebbe stata altrettanto possibile se la Gran Bretagna fosse rimasta nell’Unione[4]. Di fatto quindi nulla di nuovo è ancora accaduto. Le previsioni pessimistiche sugli effetti del voto non si sono avverate probabilmente perché gli operatori hanno semplicemente deciso di attendere quantomeno l’inizio dei negoziati, ed il loro orientamento, per decidere il da farsi.
Le possibili conseguenze per il Regno Unito della “hard Brexit”
In campagna elettorale i sostenitori del “leave” non hanno segnalato i reali argomenti di criticità del rapporto fra Regno Unito ed Europa (e soprattutto Germania) come ad esempio il crescente squilibrio della bilancia commerciale Britannica[5], ed il conseguente scontento del mondo delle piccole e medie imprese nei confronti dell’Europa[6].
Gli argomenti cardine della campagna per la Brexit sono stati altri. In primo luogo, si è parlato di “sovranità” in senso lato, soprattutto con riferimento alla gestione dei flussi migratori, e del costo relativo ai trasferimenti verso l’Unione di cui il Regno Unito era contributore netto. Nello scenario di Brexit conflittuale il Regno Unito potrebbe chiudere le frontiere all’immigrazione sia europea che extraeuropea, ma sarebbe positivo? Tutti i modelli di crescita economica di lungo periodo concordano sulla necessità che la popolazione cresca, le economie mature stanno invece andando incontro ad un declino demografico che appare irreversibile, almeno tendenzialmente, tanto è vero che i paesi europei con un più alto tasso di natalità sono quelli con maggior presenza di immigrati[7]. Un certo livello di immigrazione pertanto è funzionale al mantenimento di tassi di crescita almeno al livello attuale. Inoltre, è evidente come il Regno Unito attragga emigrazione “skilled” ovvero con un alto livello d’istruzione e di dinamicità sociale, soprattutto dagli altri paesi europei. Restringere i flussi migratori pertanto potrebbe avere un impatto negativo sulla crescita sia quantitativamente ma soprattutto qualitativamente.
L’altro argomento forte della campagna elettorale è quello relativo al contributo economico che il Regno Unito versava all’UE in quanto “contributore netto” (secondo la CGIA di Mestre per circa 5,5 MLD di Euro annui in media tra il 2000 ed il 2014). In sostanza smettendo di contribuire all’unione, la Gran Bretagna riacquisirebbe la propria sovranità nell’utilizzo dei fondi pubblici addirittura guadagnandoci. Anche quest’argomento in se non è convincente, in quanto implica che la Gran Bretagna sia una realtà coesa ed omogenea anche dal punto di vista economico. La Gran Bretagna è contributore netto, ma Irlanda del Nord e Scozia sono prenditori netti, non a caso la Scozia sta cercando di “rientrare nell’Unione” attraverso un referendum per l’indipendenza dalla Gran Bretagna, utilizzando il medesimo argomento. E’ presumibile che nel tentativo di convincere queste regioni a rimanere, il governo Britannico debba sostituire i fondi europei con risorse proprie, magari aumentandole. Questo è esattamente l’opposto di quello che è stato promesso, in quanto il governo Britannico si ritroverebbe ad utilizzare i criteri europei (criteri di convergenza) per spendere dotazione finanziaria interna.
La bilancia commerciale
Dati 2015, l’Unione è di gran lunga il primo partner commerciale del Regno Unito, verso cui esporta 229 Miliardi di Sterline importando da essa per 291 Miliardi. Queste cifre rendono evidente il legame economico fra Londra e Bruxelles[8]. I sostenitori della Brexit ipotizzano che, essendo l’Unione Europea esportatore netto nei confronti del Regno Unito, dovrebbe accettare di buon grado qualsiasi tipo di politica commerciale “ostile” senza attuare contromisure. Il ragionamento, di per sè valido, pecca in questo caso nel considerare l’Unione come una realtà unitaria quando non è così. Se ipotizziamo una guerra commerciale tra Unione Europea e Regno Unito, l’Unione ne sarà svantaggiata nell’aggregato, ma l’impatto sarà negativo in misura maggiore per alcuni e minore per altri, ad esempio la Germania perderà più dell’Italia e via discorrendo, mentre le perdite del Regno Unito saranno tutte per il Regno Unito. Inoltre c’è la considerazione che non potendo “ipoteticamente” commerciare col Regno Unito, l’Unione attuerebbe una ricomposizione interna dei propri flussi commerciali attenuando così gli effetti negativi, per poi eventualmente cercare ulteriori accordi commerciali con altre aree del pianeta in funzione della propria forza commerciale (come ad esempio il recente accordo col Canada). Questa strada non appare così semplicemente percorribile per il Regno Unito. Dall’avvio del meccanismo di integrazione europea i flussi commerciali britannici sono cambiati e l’Europa geografica è uno sbocco irrinunciabile non solo per le esportazioni ma soprattutto per l’Import. Se dovessero tornare le frontiere, potrebbe accadere che questi flussi di importazioni potrebbero rimanere costanti, perché sostituire le merci europee con quelle di altri paesi determinerebbe maggiori costi di trasporto, tali almeno da coprire gli eventuali dazi. Inoltre la comparsa di una frontiera determina aggravi di costi, superiori alla distanza geografica, come dimostrato da numerose ricerche empiriche[9]. Le alternative all’Europa sarebbero tutte più costose, anche nell’eventualità di “accordi bilaterali” perché le possibilità di ottenere condizioni vantaggiose con altri partner (USA e Russia ad esempio) dipenderebbe dal rapporto di forza economica fra i due contraenti[10], e la Gran Bretagna da sola rischia di dover accettare ciò che viene imposto da altri.
Protezionismo e Svalutazione
Sempre nello scenario “hard” Brexit potrebbe accadere che la liberale Gran Bretagna diventi un paese chiuso, protezionista ed aggressivo sul lato dei cambi, ma è mai avvenuto questo nella storia? La risposta è no. L’Inghilterra da sempre è la patria del libero scambio, teorizzato e praticato, riconosciuto come benefico per la crescita economica, sin dagli albori dell’economia politica. L’Inghilterra conobbe un periodo di dazi esclusivamente come “reazione” a politiche commerciali aggressive da parte della Germania, che includevano la pratica del dumping, nei primi decenni del ‘900. Si può validamente argomentare che un numero sempre crescente di stati stia riconvertendo le proprie politiche economiche verso un “nuovo protezionismo”, tuttavia è ancora grande la consapevolezza[11] che questa non sia la soluzione, in quanto l’innalzare di nuove barriere ridurrebbe la ricchezza in termini aggregati, ed in un contesto del genere un singolo paese corre maggiori rischi rispetto ad un’area di libero scambio. Non diversa è la storia sul lato dei cambi, il prestigio internazionale della Sterlina ha rappresentato storicamente un punto irrinunciabile della politica monetaria Britannica, infatti, la difesa strenua del cambio della Sterlina tra le due guerre mondiali, è considerata la causa del deflusso d’oro verso gli Stati Uniti che determinò l’avvento di New York come maggiore centro finanziario internazionale[12]. Inoltre, la rigidezza con la quale i governi Britannici hanno contrastato l’inflazione negli anni ’80 rende veramente difficile immaginare un contesto di svalutazioni e inflazione a soli fini commerciali.
La terza delle libertà fondamentali
Dal punto di vista strategico la posizione del Regno Unito era invidiabile nel momento in cui pur nel mercato unico, poteva decidere (almeno parzialmente) la propria politica monetaria e poteva porre il veto a decisioni europee che potessero danneggiare gli interessi Britannici, quali ad esempio maggiori imposte sui flussi internazionali di capitali (e sulle “trust limited”) o sulla politica estera dell’unione. Ora che “out is out” l’unione in sede di trattativa ha uno strumento di pressione importante che riguarda la finanza. La Gran Bretagna è il primo centro finanziario in Europa, la libera circolazione dei capitali fa sì che i profitti finanziari pesino per l’8% del PIL del Regno Unito. Inoltre 80 su 358 banche che operano nel Regno Unito hanno la loro sede centrale in altri paesi Europei rendendo il sistema bancario e finanziario estremamente interconnesso. In pratica il ruolo finanziario della Gran Bretagna non è dovuto (solo) alla sua forza economica, ma al fatto che molte imprese e società europee ed extraeuropee lo utilizzano come centro finanziario[13]. La semplice minaccia da parte europea di limitare i flussi finanziari da e per il Regno Unito, o di modificare la tassazione degli utili da questi prodotti, potrebbe portare alla fuga di tutte quelle società che operano prioritariamente verso l’Europa, che sposterebbero la loro sede giuridica dal Regno Unito ad uno qualunque dei paesi europei con la tassazione più simile. E’ inutile sottolineare che gli effetti per l’economia britannica potrebbero essere catastrofici.
Conclusioni
Riassumendo, in cambio della possibilità di attuare una politica migratoria restrittiva e di un risparmio di circa 5,5 MLD di euro annui, la Gran Bretagna ha accettato di correre il rischio di disgregarsi, di perdere il proprio ruolo di centro finanziario internazionale, di impoverirsi culturalmente, di diventare irrilevante in termini di politica estera e di dover deformare i propri flussi commerciali in maniera permanente. Accadrà questo? Probabilmente no, la “Hard Brexit” penalizzerebbe tutti inclusi gli europei, questa considerazione dovrebbe portare le trattative verso una qualche forma di “partenariato stretto” che salvi la sovranità del voto popolare ma anche gli interessi economici del Regno Unito che si concretizzano nelle libertà fondamentali. Gli operatori si sono mostrati prudenti, o semplicemente scommettono su un accordo che somigli molto all’ultima bozza negoziale ottenuta da Cameron prima del voto (accordo vantaggioso per i Britannici). Se così non dovesse essere ed al tavolo delle trattative dovessero prevalere interessi particolari, schermaglie politiche a fini interni e sottovalutazione dei rischi, le conseguenze negative potrebbero essere anche più pesanti di quelle stimate dagli uffici studi della Bank of England e dalla Brexit usciranno tutti sconfitti.
[1] “The Guardian” interpreta il discorso di Haldane: https://www.theguardian.com/business/2017/jan/05/chief-economist-of-bank-of-england-admits-errors.
[2] Si veda a tal proposito De Grauwe, Paul ”Economia dell’unione monetaria”, Il mulino, 2013, nona edizione: Pag. 78.
[3] La questione è disciplinata dall’art. 109 M del trattato di Maastricht che impone ai paesi esterni all’UEM, ma interni all’Unione di trattare il proprio tasso di cambio come “.. un problema d’interesse comune..”. Si afferma implicitamente che il cambio Euro/Sterlina è stato quindi soggetto ad una forma di fluttuazione amministrata.
[4] Sempre De Grauwe sottolineava che l’ingresso della Gran Bretagna nell’Euro, con una sterlina in calo, avrebbe rappresentato un rischio per gli altri paesi Europei (ibid. Pag. 180)
[5] Si veda a tal proposito Realfonzo R., Viscione A. “Brexit o remain? Ovvero la guerra commerciale anglo-tedesca” Economiaepolitica.it 2016 anno 8 n. 11 sem. 1. In questo articolo vengono evidenziati anche alcuni rischi potenziali della Brexit per l’economia britannica.
[6] L’argomento è riportato in Moro, D. “Brexit come crisi dell’Uem e della globalizzazione” Economiaepolitica.it 2016 anno 8 n. 12 sem. 2.
[7] Si vedano a tal proposito le interpretazioni del Demografo Livi Bacci con riferimento al World Population Prospects del 2015 delle Nazioni Unite.
[8] Dati della Banca D’Inghilterra disponibili nel report: http://www.bankofengland.co.uk/publications/Documents/speeches/2015/euboe211015.pdf
[9] Si può vedere a tal proposito C. Engels, http://www.ssc.wisc.edu/~cengel/PublishedPapers/HowWideIsBorder.pdf.
[10] Nello specifico dall’ampiezza del proprio mercato in termini di popolazione, e dalla quantità e varietà di merci che si propongono nello scambio.
[11] Al recente vertice G7 di Taormina è stato preso un impegno di massima a contrastare il protezionismo al quale hanno aderito anche gli Stati Uniti.
[12] Per i riferimenti storici si veda Giura, A. Dell’Orefice V. “Lezioni di Storia Economica” (1987).
[13] A riconoscimento del ruolo di “leader” finanziario, l’Autorità Bancaria Europea era stata dislocata proprio a Londra.
venerdì 4 dicembre 2015
Produttività a Sud: intervista a Salvatore Perri. Corriere del Mezzogiorno Economia 9 Novembre 2015
Esistono
divari di produttività tra Centro Nord e Sud? In che percentuale e in quali
settori economici? Secondo Svimez, nell'industria e in agricoltura. E’
d’accordo?
“Che
esista un divario di produttività fra aziende del Nord e del Sud è innegabile,
ma attribuirne le cause a un fattore specifico e quantificarlo è molto
difficile - spiega Salvatore Perri, giovane economista calabrese che ha
studiato il tema. PhD in Economia Applicata ed MSc in Economics all’Università
inglese di Southampton, autore del blog “Impunito”, esperto di analisi delle
politiche e teorie macroeconomiche, collabora con vari centri di ricerca, in
Italia e all’estero, tra cui Basic Income Network e Idea - Nel Sud è
prevalente la piccola impresa che raramente fa rete con le altre, questo
secondo l’Istat spiega i divari di produttività. Se poi consideriamo che la
dotazione di infrastrutture è costantemente inferiore a quella settentrionale
da 30 anni si capisce che può essere fuorviante confrontare la produttività
aziendale. Ci sono settori in cui la crisi colpisce in maniera differenziata
perché più esposti alla domanda esterna, per questo l’industria al Sud e
l’agricoltura pagano un prezzo più alto”.
Quanto incide nel Mezzogiorno il lavoro
nero e l'economia sommersa sui divari di produttività e sul costo del lavoro
differenziato per aree?
“La
presenza del sommerso agisce negativamente sull’intero apparato produttivo sia
dal lato delle imprese che dei lavoratori. Le aziende regolari subiscono la
concorrenza sleale di quelle sommerse, per farlo abbassano i salari. I bassi
salari, insieme alla difficoltà di effettuare investimenti, peggiorano la
qualità del lavoro nel Sud. E’ un circolo vizioso che estende i suoi effetti
anche ai consumi, perché bassi salari accompagnano un basso livello di domanda
aggregata”.
Il
tema dei divari di produttività può essere affrontato agendo sul costo del
lavoro ma anche intervenendo sulle imposte. Al Sud addizionali e Irap sono più
elevate. Non servirebbe una Fiscalità di vantaggio per attrarre investimenti esterni
nel Sud?
“Perché
gli investimenti esteri arrivino è necessario agire sulle infrastrutture, sulla
cornice giuridica e sul contesto socioeconomico. La lentezza dei processi
civili scoraggia le imprese estere più di un punto di Irap. Fare concorrenza su
questo terreno non ha senso, perché i costi sarebbero comunque superiori a
quelli dei paesi dell’Est Europa o di quelli asiatici. Bisogna fornire servizi
di supporto, certezza del diritto, fruibilità infrastrutturale, allora
arriveranno investimenti esteri e non solo”.
Le politiche di contesto, soprattutto il costo
del denaro, quanto incidono sui livelli di produttività?
“La
burocrazia pubblica è vista come nemica dell’impresa, non dovrebbe esserlo,
bisogna attuare riforme che la rendano un attore attivo nel sostegno alle
imprese, costante e non legato al controllo sanzionatorio. Il Sud non ha più da
tempo un sistema bancario autonomo, le aziende pagano tassi d’interesse alti,
dovuti ai crediti in sofferenza. Bisogna mettere in comunicazione la burocrazia,
con le organizzazioni di categoria ed i sindacati, creare così una forma di
supporto e monitoraggio che aiuti il sistema bancario a dividere i buoni dai
cattivi e sostenere la crescita delle aziende sane che è il vero
problema specifico del Mezzogiorno”.
Il costo del lavoro nel Sud si può abbassare con sgravi contributivi maggiori rispetto al resto del Paese. Se nel corso del dibattito parlamentare si cambiasse la legge di Stabilità per lasciarli interi solo al Sud come nel 2015?
Il costo del lavoro nel Sud si può abbassare con sgravi contributivi maggiori rispetto al resto del Paese. Se nel corso del dibattito parlamentare si cambiasse la legge di Stabilità per lasciarli interi solo al Sud come nel 2015?
“Sono
contrario agli sgravi contributivi in generale, soprattutto per quanto riguarda
i giovani. Si possono creare buchi di bilancio e si eliminano quei contributi
che sarebbero più pesanti al momento del pensionamento. Allungare i tempi degli
sgravi vuol dire rimandare il momento in cui l’azienda deciderà se è il caso di
tenere il nuovo lavoratore a costo pieno o se mandarlo via, ma questa decisione
dipende dalle condizioni economiche dell’azienda, non dalla volontà
dell’imprenditore. Se l’Italia torna a crescere allora le imprese faranno
profitti e possono tenere i neo assunti, altrimenti ci ritroveremo nella stessa
situazione di prima, Nord o Sud non fa differenza in questo caso. Sarebbe molto
meglio agire per ridurre strutturalmente il cuneo fiscale, ma credo ci siano
problemi di risorse per poterlo fare”.
EMA.IMPE.
©RIPRODUZIONE RISERVATA
martedì 20 ottobre 2015
Perché il Sud è meno efficiente
Una mia riflessione non stereotipata sul Sud su Lavoce.info
http://www.lavoce.info/archives/37879/perche-il-sud-e-meno-efficiente/#.ViYIQJ1fiJw.facebook
La dimensione media delle aziende meridionali è minore rispetto a quella del Centro-Nord. Le imprese meridionali oltre a essere piccole, raramente si costituiscono in gruppi e l’Istat certifica che più le imprese sono isolate e piccole, meno sono produttive. Ma la dimensione d’impresa è una “scelta” dell’imprenditore oppure è un prodotto dell’interazione fra azienda e ambiente economico? Un’ipotesi di risposta ci viene fornita da come le aziende “sommerse” hanno reagito alla legge sull’emersione del 2001, la quale garantiva sconti fiscali alle imprese che si regolarizzavano. I risultati deludenti di quel provvedimento ci suggeriscono che il sommerso nel Sud è probabilmente una scelta “difensiva” per rimanere sul mercato, piuttosto che una scelta “offensiva” per guadagnare profitto. Pertanto, la produttività dell’azienda dipende da fattori che sono fuori sia dal controllo dell’imprenditore sia dei lavoratori.
Il Sud Italia si caratterizza per una disoccupazione giovanile vicina al 50 per cento e un tasso di disoccupazione generale che è più del doppio di quello del Centro-Nord. Se mettiamo insieme questi dati con il “nanismo” dimensionale delle aziende, possiamo verosimilmente supporre che la pressione sui lavoratori sia molto alta, in quanto sono facilmente licenziabili e subito sostituibili. Inoltre, è altrettanto logico supporre che le aziende finiscano per integrare una parte di legale e una parte di sommerso per quanto riguarda la gestione della forza lavoro. In realtà, una forma occulta di “gabbia salariale” già esiste e comporta il peggioramento delle condizioni generali del lavoro nel Sud. Questo spiegherebbe come mai i salari nel Sud sono i più bassi d’Italia.
Se le aziende non crescono dal punto di vista dimensionale può essere per via del basso livello di domanda aggregata del Meridione e scaricare una parte del divario di produttività sui lavoratori potrebbe accentuare queste dinamiche. Le aziende lamentano le carenze infrastrutturali, una burocrazia pubblica farraginosa e inefficace, ma soprattutto le difficoltà di accesso al credito. Se si vuole una misura pratica di quanto sia diverso fare impresa nel Sud rispetto al Nord basta osservare i dati sul costo del credito, che nel Meridione è il doppio rispetto alle altre aree del paese. La difficoltà di ottenere credito, o averlo a costi fuori mercato, impone a livello intra-aziendale scelte che penalizzano proprio quegli investimenti che servono a migliorare l’efficienza produttiva. La scomparsa di un autonomo sistema bancario meridionale accentua i fenomeni di razionamento, in quanto mette in competizione diretta – e impari – i piani di investimento delle aziende meridionali con quelli delle omologhe settentrionali.
Le aziende che nascono devono poter crescere, per consentirlo bisogna ribaltare il paradigmi delle politiche precedenti. Si possono spendere diversamente i fondi statali ed europei usandoli per ridurre il divario infrastrutturale e magari per introdurre un reddito minimo, che consenta la nascita di un contrasto d’interessi fra lavoratore sommerso e l’impresa, oltre a sostenere la domanda aggregata. Bisogna valutare e correggere i servizi pubblici alle imprese, spostando l’enfasi dalle autorizzazioni iniziali a un sistema basato sul monitoraggio e supporto costante, che ne favorisca anche l’accesso al credito. Contrastare definitivamente e vigorosamente la corruzione e la criminalità organizzata, attraverso il potenziamento degli organi di giustizia. Qualificare la spesa non vuol dire necessariamente aumentarla, ma se non si modifica l’ambiente economico meridionale, difficilmente i divari si potranno ridurre con provvedimenti singoli.
http://www.lavoce.info/archives/37879/perche-il-sud-e-meno-efficiente/#.ViYIQJ1fiJw.facebook
Davvero i lavoratori del Sud sono meno produttivi di quelli del
Centro-Nord? Ed è possibile prescindere dal contesto in cui operano le
aziende e dalle condizioni economiche del Mezzogiorno? Dagli errori del
passato insegnamenti per cambiare le politiche e utilizzare meglio fondi
statali ed europei.
Un contesto che non favorisce la produttività
In un recente articolo, il Gruppo Tortuga
afferma che il valore aggiunto per lavoratore nel Sud-Isole, utilizzato
come misura della produttività, è di dieci punti inferiore a quello che
si misura nel Centro-Nord. Gli autori osservano che la discrepanza non
si rispecchia nel valore dei salari, solo lievemente inferiori, e
attribuiscono il mancato allineamento alla contrattazione nazionale. Ma
ci sono alcuni fattori, citati dallo stesso Gruppo Tortuga, che possono
influire direttamente sulla qualità del lavoro nel Sud ed essere la
causa dei divari.
La dimensione media delle aziende meridionali è minore rispetto a quella del Centro-Nord. Le imprese meridionali oltre a essere piccole, raramente si costituiscono in gruppi e l’Istat certifica che più le imprese sono isolate e piccole, meno sono produttive. Ma la dimensione d’impresa è una “scelta” dell’imprenditore oppure è un prodotto dell’interazione fra azienda e ambiente economico? Un’ipotesi di risposta ci viene fornita da come le aziende “sommerse” hanno reagito alla legge sull’emersione del 2001, la quale garantiva sconti fiscali alle imprese che si regolarizzavano. I risultati deludenti di quel provvedimento ci suggeriscono che il sommerso nel Sud è probabilmente una scelta “difensiva” per rimanere sul mercato, piuttosto che una scelta “offensiva” per guadagnare profitto. Pertanto, la produttività dell’azienda dipende da fattori che sono fuori sia dal controllo dell’imprenditore sia dei lavoratori.
Il Sud Italia si caratterizza per una disoccupazione giovanile vicina al 50 per cento e un tasso di disoccupazione generale che è più del doppio di quello del Centro-Nord. Se mettiamo insieme questi dati con il “nanismo” dimensionale delle aziende, possiamo verosimilmente supporre che la pressione sui lavoratori sia molto alta, in quanto sono facilmente licenziabili e subito sostituibili. Inoltre, è altrettanto logico supporre che le aziende finiscano per integrare una parte di legale e una parte di sommerso per quanto riguarda la gestione della forza lavoro. In realtà, una forma occulta di “gabbia salariale” già esiste e comporta il peggioramento delle condizioni generali del lavoro nel Sud. Questo spiegherebbe come mai i salari nel Sud sono i più bassi d’Italia.
Se le aziende non crescono dal punto di vista dimensionale può essere per via del basso livello di domanda aggregata del Meridione e scaricare una parte del divario di produttività sui lavoratori potrebbe accentuare queste dinamiche. Le aziende lamentano le carenze infrastrutturali, una burocrazia pubblica farraginosa e inefficace, ma soprattutto le difficoltà di accesso al credito. Se si vuole una misura pratica di quanto sia diverso fare impresa nel Sud rispetto al Nord basta osservare i dati sul costo del credito, che nel Meridione è il doppio rispetto alle altre aree del paese. La difficoltà di ottenere credito, o averlo a costi fuori mercato, impone a livello intra-aziendale scelte che penalizzano proprio quegli investimenti che servono a migliorare l’efficienza produttiva. La scomparsa di un autonomo sistema bancario meridionale accentua i fenomeni di razionamento, in quanto mette in competizione diretta – e impari – i piani di investimento delle aziende meridionali con quelli delle omologhe settentrionali.
Errori del passato e misure per crescere
Se nel passato lo Stato ha varato una politica economica
“sviluppista” dei colossi industriali obsoleti, non meglio è andata per
quanto riguarda l’uso dei fondi europei che, come sostiene Antonio
Aquino, non hanno cambiato di molto la situazione
(http://www.modernizzarelitalia.it/dal-territorio/il-destino-della-calabria-si-decide-a-bruxelles/).
Anche perché è stata data un’eccessiva enfasi calla creazione di “nuove
imprese”. Nella migliore delle ipotesi, i fondi sono stati erogati ad
aziende che, inserendosi in un contesto di bassa domanda, hanno fatto
concorrenza sleale a quelle già esistenti, abbassandone ulteriormente i
margini di profitto. Nel peggiore dei casi, sono stati percepiti da
aziende “predatorie” nate già morte, i cui costi in termini di cassa
integrazione hanno finito per gravare sulle casse statali (come già
quelli della famigerata legge 488). Le spese per la formazione
permanente legate alle strategie di Lisbona hanno invece favorito la
nascita di numerosi enti di formazione privati, i quali hanno erogato
corsi che non hanno favorito l’occupazione o la produttività dei
lavoratori, trasformandosi in meri redditi passivi per gli enti
formatori, senza alcuna ricaduta positiva per la società.
Le aziende che nascono devono poter crescere, per consentirlo bisogna ribaltare il paradigmi delle politiche precedenti. Si possono spendere diversamente i fondi statali ed europei usandoli per ridurre il divario infrastrutturale e magari per introdurre un reddito minimo, che consenta la nascita di un contrasto d’interessi fra lavoratore sommerso e l’impresa, oltre a sostenere la domanda aggregata. Bisogna valutare e correggere i servizi pubblici alle imprese, spostando l’enfasi dalle autorizzazioni iniziali a un sistema basato sul monitoraggio e supporto costante, che ne favorisca anche l’accesso al credito. Contrastare definitivamente e vigorosamente la corruzione e la criminalità organizzata, attraverso il potenziamento degli organi di giustizia. Qualificare la spesa non vuol dire necessariamente aumentarla, ma se non si modifica l’ambiente economico meridionale, difficilmente i divari si potranno ridurre con provvedimenti singoli.
martedì 7 luglio 2015
Il prezzo da pagare per la tragedia greca
Oggi un mio pezzo su La Voce.info
http://www.lavoce.info/archives/35990/il-prezzo-da-pagare-per-la-tragedia-greca/
L’austerità ha fallito, lo dice anche l’Fmi. E la dimostrazione è la Grecia. Ma se si arrivasse al default, i paesi europei sarebbero direttamente coinvolti. La scelta è ora fra piccoli sacrifici distribuiti fra tutti gli europei o un prezzo molto alto per il popolo greco oggi e per noi domani.
Tra austerità e default
Il referendum greco sull’accordo di salvataggio è solo l’ultimo di una serie di tentativi del governo Tsipras di evitare ulteriori misure di austerità al suo popolo. Se è una strada giusta o sbagliata, nessuno può saperlo. Alcune cose però si sanno ed è meglio dirle, prima che sia troppo tardi.
L’austerità ha fallito. Finché a dirlo era solo una parte dell’accademia considerata a torto o ragione “eterodossa”, il tema poteva essere fonte di discussione, ma quando uno studio in tal senso arriva direttamente dal Fondo monetario internazionale a firma Olivier Blanchard e Daniel Leigh, si può tranquillamente prenderla come una considerazione definitiva. Le “riforme” chieste alla Grecia hanno accentuato gli effetti della crisi, poiché una politica fatta di tagli alla spesa, senza un programma di riforme favorevoli alla ripresa, finisce per ridurre i consumi interni proprio delle fasce sociali che consumano una porzione maggiore del proprio reddito. Di conseguenza, la riduzione del prodotto interno lordo greco ha fatto aumentare il peso del debito in termini relativi, dinamica illustrata da Marianna Mazzucato e in atto anche per l’Italia, che nonostante la riforma pensionistica ha visto crescere costantemente il rapporto debito/Pil negli anni seguenti l’inizio della crisi.
Il default è un’opzione? In queste ore in Grecia si avvertono i primi segni dell’eventuale insolvenza. Dalle file agli sportelli bancari, alla carenza di farmaci nonché di tutti i beni importati in genere. Le conseguenze di diventare un debitore insolvente sono gravi e immediate, a cominciare dall’impossibilità di avere nuove linee di credito, il che comporta immediatamente la difficoltà di approvvigionamento delle merci importate (tra le quali le materie prime, petrolio e gas). Successivamente, vista la crisi di liquidità, senza accordo, la Grecia dovrebbe necessariamente ricorrere a forme alternative di emissione valutaria creando, di fatto, un sistema a doppia circolazione, in cui la nuova dracma verrebbe usata solo all’interno, mentre gli euro sarebbero usati come bene rifugio (nella più classica applicazione della legge di Gresham, secondo cui la moneta “cattiva scaccia quella buona”).
Le conseguenze di un tale caos si estenderebbero a tutta l’Europa, attraverso i mancati pagamenti della Grecia ai paesi creditori, ma colpirebbero prioritariamente proprio le classi meno abbienti del popolo greco. Inoltre, ogni forma di evento “destabilizzante” provocherebbe una crisi di fiducia e minerebbe la stabilità dell’intera area, dando fiato agli attacchi dei fondi finanziari speculativi.
Chi sono i creditori della Grecia
Chi detiene il debito greco? La sua distribuzione, come ricostruita da Paolo Cardenà, vede come maggiori creditori le istituzioni internazionali: addirittura il 60 per cento è in mano proprio all’UE (attraverso i fondi Efsf di stabilità e del fondo “salva stati” Esm), mentre solo il 12 per cento sarebbe nelle mani dell’Fmi, in questo momento il più intransigente nei confronti della Grecia. Nell’articolo, si evidenzia come i paesi europei siano “realmente” coinvolti nell’eventuale default (Germania, Francia e Italia con 146 miliardi al gennaio 2015) e come questo trasferimento di proprietà del debito abbia avuto una dinamica veramente singolare: in pratica le banche private dei paesi europei hanno scaricato sugli stati, e sulla Bce, il peso del debito greco dal 2009 a oggi.
In altre parole, il salvataggio della Grecia, anziché salvare il paese, ha legato a filo doppio il destino dei greci a quello degli altri europei. Fosse fallita nel 2009, la Grecia avrebbe fatto fallire le banche europee, trasmettendo lo shock alle economie reali; oggi, un default di Atene costringerebbe Italia, Francia e Germania direttamente a manovre correttive di bilancio.
Scenari inquietanti
Cosa si può fare ora? Lo scenario è inquietante, le conseguenze a breve termine di un default greco potrebbero essere pesantissime e per questo un accordo deve essere trovato. Ma quale accordo? È impossibile prendere in considerazione l’ipotesi che siano gli stati europei a pagare, visto che per esempio l’equilibrio dei conti pubblici italiani già così è a rischio. Dunque, un piano di salvataggio dovrebbe partire da alcuni presupposti ineludibili:
1) La riduzione del debito, attraverso uno storno della quota degli interessi dovuti agli investitori internazionali, proprio quella che ha autoalimentato il debito negli ultimi anni (attraverso un accordo che veda come interlocutore l’Unione Europea e non la sola Grecia);
2) La Bce dovrebbe rilevare la quota detenuta dall’Fmi, anche questo con un accordo “al ribasso” dato che, per ammissione stessa dell’Fmi, le “riforme” imposte alla Grecia, in cambio dei prestiti, erano errate.
3) Un piano d’investimenti straordinari in Grecia, ma anche una riformulazione delle richieste, che consideri la necessità di protezione sociale per le classi meno abbienti (andando verso una convergenza dei parametri economici anziché esclusivamente dei vincoli finanziari) in cambio, ad esempio, delle riforme pensionistiche. Si ricordi che sono proprio Grecia e Italia i due paesi più carenti in questo senso.
È evidente che queste misure avrebbero un costo, anche in termini d’inflazione, visto che la Bce dovrebbe rompere il dogma del divieto di politiche espansive. Allo stesso tempo si dovrebbe archiviare definitivamente il mito dell’austerità espansiva, che si è rivelata inutile e dannosa come sottolineato più volte anche da Paul Krugman.
In conclusione, la scelta dell’Europa e della Grecia non è quella fra euro e dracma, tra Alexis Tsipras e Angela Merkel, tra democrazia e autocrazia, quanto fra piccoli sacrifici distribuiti fra tutti i paesi europei ed enormi sacrifici per il popolo greco oggi (e per noi domani).
http://www.lavoce.info/archives/35990/il-prezzo-da-pagare-per-la-tragedia-greca/
L’austerità ha fallito, lo dice anche l’Fmi. E la dimostrazione è la Grecia. Ma se si arrivasse al default, i paesi europei sarebbero direttamente coinvolti. La scelta è ora fra piccoli sacrifici distribuiti fra tutti gli europei o un prezzo molto alto per il popolo greco oggi e per noi domani.
Tra austerità e default
Il referendum greco sull’accordo di salvataggio è solo l’ultimo di una serie di tentativi del governo Tsipras di evitare ulteriori misure di austerità al suo popolo. Se è una strada giusta o sbagliata, nessuno può saperlo. Alcune cose però si sanno ed è meglio dirle, prima che sia troppo tardi.
L’austerità ha fallito. Finché a dirlo era solo una parte dell’accademia considerata a torto o ragione “eterodossa”, il tema poteva essere fonte di discussione, ma quando uno studio in tal senso arriva direttamente dal Fondo monetario internazionale a firma Olivier Blanchard e Daniel Leigh, si può tranquillamente prenderla come una considerazione definitiva. Le “riforme” chieste alla Grecia hanno accentuato gli effetti della crisi, poiché una politica fatta di tagli alla spesa, senza un programma di riforme favorevoli alla ripresa, finisce per ridurre i consumi interni proprio delle fasce sociali che consumano una porzione maggiore del proprio reddito. Di conseguenza, la riduzione del prodotto interno lordo greco ha fatto aumentare il peso del debito in termini relativi, dinamica illustrata da Marianna Mazzucato e in atto anche per l’Italia, che nonostante la riforma pensionistica ha visto crescere costantemente il rapporto debito/Pil negli anni seguenti l’inizio della crisi.
Il default è un’opzione? In queste ore in Grecia si avvertono i primi segni dell’eventuale insolvenza. Dalle file agli sportelli bancari, alla carenza di farmaci nonché di tutti i beni importati in genere. Le conseguenze di diventare un debitore insolvente sono gravi e immediate, a cominciare dall’impossibilità di avere nuove linee di credito, il che comporta immediatamente la difficoltà di approvvigionamento delle merci importate (tra le quali le materie prime, petrolio e gas). Successivamente, vista la crisi di liquidità, senza accordo, la Grecia dovrebbe necessariamente ricorrere a forme alternative di emissione valutaria creando, di fatto, un sistema a doppia circolazione, in cui la nuova dracma verrebbe usata solo all’interno, mentre gli euro sarebbero usati come bene rifugio (nella più classica applicazione della legge di Gresham, secondo cui la moneta “cattiva scaccia quella buona”).
Le conseguenze di un tale caos si estenderebbero a tutta l’Europa, attraverso i mancati pagamenti della Grecia ai paesi creditori, ma colpirebbero prioritariamente proprio le classi meno abbienti del popolo greco. Inoltre, ogni forma di evento “destabilizzante” provocherebbe una crisi di fiducia e minerebbe la stabilità dell’intera area, dando fiato agli attacchi dei fondi finanziari speculativi.
Chi sono i creditori della Grecia
Chi detiene il debito greco? La sua distribuzione, come ricostruita da Paolo Cardenà, vede come maggiori creditori le istituzioni internazionali: addirittura il 60 per cento è in mano proprio all’UE (attraverso i fondi Efsf di stabilità e del fondo “salva stati” Esm), mentre solo il 12 per cento sarebbe nelle mani dell’Fmi, in questo momento il più intransigente nei confronti della Grecia. Nell’articolo, si evidenzia come i paesi europei siano “realmente” coinvolti nell’eventuale default (Germania, Francia e Italia con 146 miliardi al gennaio 2015) e come questo trasferimento di proprietà del debito abbia avuto una dinamica veramente singolare: in pratica le banche private dei paesi europei hanno scaricato sugli stati, e sulla Bce, il peso del debito greco dal 2009 a oggi.
In altre parole, il salvataggio della Grecia, anziché salvare il paese, ha legato a filo doppio il destino dei greci a quello degli altri europei. Fosse fallita nel 2009, la Grecia avrebbe fatto fallire le banche europee, trasmettendo lo shock alle economie reali; oggi, un default di Atene costringerebbe Italia, Francia e Germania direttamente a manovre correttive di bilancio.
Scenari inquietanti
Cosa si può fare ora? Lo scenario è inquietante, le conseguenze a breve termine di un default greco potrebbero essere pesantissime e per questo un accordo deve essere trovato. Ma quale accordo? È impossibile prendere in considerazione l’ipotesi che siano gli stati europei a pagare, visto che per esempio l’equilibrio dei conti pubblici italiani già così è a rischio. Dunque, un piano di salvataggio dovrebbe partire da alcuni presupposti ineludibili:
1) La riduzione del debito, attraverso uno storno della quota degli interessi dovuti agli investitori internazionali, proprio quella che ha autoalimentato il debito negli ultimi anni (attraverso un accordo che veda come interlocutore l’Unione Europea e non la sola Grecia);
2) La Bce dovrebbe rilevare la quota detenuta dall’Fmi, anche questo con un accordo “al ribasso” dato che, per ammissione stessa dell’Fmi, le “riforme” imposte alla Grecia, in cambio dei prestiti, erano errate.
3) Un piano d’investimenti straordinari in Grecia, ma anche una riformulazione delle richieste, che consideri la necessità di protezione sociale per le classi meno abbienti (andando verso una convergenza dei parametri economici anziché esclusivamente dei vincoli finanziari) in cambio, ad esempio, delle riforme pensionistiche. Si ricordi che sono proprio Grecia e Italia i due paesi più carenti in questo senso.
È evidente che queste misure avrebbero un costo, anche in termini d’inflazione, visto che la Bce dovrebbe rompere il dogma del divieto di politiche espansive. Allo stesso tempo si dovrebbe archiviare definitivamente il mito dell’austerità espansiva, che si è rivelata inutile e dannosa come sottolineato più volte anche da Paul Krugman.
In conclusione, la scelta dell’Europa e della Grecia non è quella fra euro e dracma, tra Alexis Tsipras e Angela Merkel, tra democrazia e autocrazia, quanto fra piccoli sacrifici distribuiti fra tutti i paesi europei ed enormi sacrifici per il popolo greco oggi (e per noi domani).
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