martedì 9 luglio 2013

Quali Riforme per l’Italia?



Salvatore Perri

La condizione Economico-Finanziaria dell’Italia è particolarmente seria. Migliorarla è estremamente difficile, per farlo ci sarebbe bisogno di interventi strutturali consistenti sui comparti reali del sistema economico (investimenti) e contestualmente di vere “riforme” normative che traccino le linee guida un percorso di sviluppo realistico per i prossimi decenni. La complessità della realtà richiede risposte complesse, non in termini formali, ma in termini di comprensione delle dinamiche che stanno determinando l’arretramento strutturale del “sistema Italia”. Questo livello di comprensione, ascoltando le priorità degli ultimi 3 governi, è piuttosto scarso.

Imprese. La crisi del settore industriale italiano viene da almeno due decenni. La mancanza di una politica industriale da parte di governi si è sommata all’inevitabile perdita di competitività delle imprese italiane sui mercati internazionali a seguito della globalizzazione economica. Ad una prima fase di difficoltà delle grandi imprese del nord-ovest, il mondo imprenditoriale ha reagito mutando la forma della produzione attraverso ristrutturazioni che permettessero produzioni innovative e di qualità su scala più piccola. Tuttavia l’avvento di nuovi competitori sui mercati, caratterizzati da bassi costi di produzione, ha provocato la crisi anche del “miracolo nord-est”. L’Italia, sostanzialmente, è un paese post-industriale, laddove il peso dei servizi e del terziario (sostenuto dalla domanda interna) è destinato ad essere predominante negli anni avvenire rispetto alla produzione di merci in senso stretto.
Negare questo elemento contribuisce a far perdere del tempo prezioso aspettando che “rinascano” nuove imprese come quelle che abbiamo conosciuto. Questo non accadrà.
E’ necessario sostenere le aziende competitive attraverso il supporto alla riqualificazione ed alla modernizzazione produttiva, ed attraverso il taglio degli oneri fiscali che incidono sul costo del prodotto, non attraverso ulteriori tagli al costo del lavoro (totalmente inutili e dannosi, come si spiegherà in seguito).
Inoltre, anziché insistere sul rifinanziamento della cassa integrazione di aziende che non possono tornare alla produzione, è necessario investire su piani di riqualificazione territoriale che permettano alle imprese di perseguire obiettivi pubblici con lavoro privato (sicurezza del territorio, adeguamento antisismico, mobilità sostenibile, bonifiche di discariche, solo per citarne alcuni).

Lavoro. E’ stata opinione diffusa, ribadita tra l’altro da eminenti studiosi, che la flessibilità del lavoro avrebbe costruito per l’Italia un paradiso di piena occupazione. Le imprese aspettavano solo un rilascio normativo degli inaccettabili vincoli ai licenziamenti o alle assunzioni temporanee. Ho già scritto di questo assunto e di come sia totalmente falso, ma è interessante sottolinearne un aspetto diverso. Se le aziende soffrono la crisi, licenziano, delocalizzano, chiudono per le ragioni sopra elencate, che effetto possono avere incentivi alle assunzioni o modifiche normative ai contratti? La risposta è elementare: nessun effetto positivo. Inoltre, come era stato ampliamente previsto, una flessibilità senza regole, senza continuità contributiva, ha generato ulteriori problemi contribuendo a comprimere la domanda interna ed aggravare la crisi. Lo stillicidio di dati sulla disoccupazione e sul crollo dei consumi (anche alimentari) dovrebbe contribuire a svegliare anche i più addormentati.
Alzare l’età pensionabile e ridurre le tutele contrattuali per i neo-assunti può comportare un piccolo beneficio nel breve periodo ed un disastro a medio termine, perché calano le entrate fiscali e quindi i conti dello stato tornano velocemente a peggiorare (nei periodi delle ultime “riforme” del mercato del lavoro il debito pubblico ha continuato la sua inarrestabile ascesa).
Le uniche riforme sensate riguardano la Redistribuzione del Lavoro nelle aziende produttive e l’introduzione di una forma di Reddito Minimo per tutti coloro che non potranno essere ricollocati nel mercato del lavoro (fenomeno che ho già discusso in altri pezzi).

Stato. Non necessariamente un elevato peso del settore pubblico è un male per un sistema economico (nelle condizioni sopra indicate di quello italiano nello specifico). Il peso dello stato diventa un problema se non fornisce servizi efficienti, se è costoso, permeato dalla corruzione e condizionato dalla politica nel senso deteriore del termine. In questo caso, contrariamente agli altri settori, si potrebbero ottenere grandi risultati con provvedimenti normativi. Una severa legge anticorruzione ad esempio potrebbe contribuire ad abbassare i costi delle opere pubbliche, che sono i veri costi della politica che nessuno riesce ad abbattere. Una legge che riesca ad impedire le assunzioni clientelari nell’insieme degli enti pubblici (ospedali e posizioni dirigenziali degli enti pubblici) con pene esemplari per i trasgressori, contribuirebbe in breve tempo ad aumentare l’efficienza della pubblica amministrazione, più della visita fiscale per chi ha 37 di febbre. La corruzione contribuisce ad aumentare il costo delle opera pubbliche e la gestione della burocrazia, inoltre genera un circolo vizioso che coinvolge il privato inefficiente selezionando le imprese peggiori per l’adempimento degli appalti. Aperta la porta alle corruttele è naturale che la criminalità organizzata ne approfitti entrando di fatto nel meccanismo di gestione degli enti pubblici.
La politica di gestione del settore pubblico fatta  esclusivamente di tagli, oltre a disincentivare i settori virtuosi, deprime l’economia. Quando i tagli colpiscono cultura e beni artistici si contribuisce al depauperamento dell’unico patrimonio non riproducibile che il paese possiede contribuendo ad accelerare le dinamiche depressive già in atto (a questo punto anche in termini di competenze).
Dismettere parti del patrimonio pubblico, senza aver definito con chiarezza un piano per valorizzarne la parte restante, potrebbe essere un palliativo utile solo a respirare per pochi mesi.

Conclusioni.  Le politiche economiche hanno effetti positivi o negativi su un sistema economico a seconda che riescano ad incidere su quelli che sono i problemi, analogamente alla risposta che un organismo umano ha rispetto all’assunzione di un farmaco. Nell’attuale momento storico e nell’attuale condizione economica italiana sono utili politiche che incrementino i consumi interni e gli investimenti. Non hanno senso ulteriori tagli della spesa, è possibile agire nello specifico di riduzioni mirate di spesa improduttiva a patto che il risparmio sia speso immediatamente e per intero in un altro settore. Non ha senso prorogare in eterno forme di cassa integrazione per aziende dismesse, si deve passare ad un sistema di redistribuzione del lavoro nelle aziende vitali e reddito minimo per i lavoratori espulsi dal mercato. Non ha senso dismettere il patrimonio pubblico a meno che il ricavato non venga investito, se il ricavato viene utilizzato per ridurre il debito le condizioni di solvibilità dell’Italia miglioreranno nel breve periodo e peggioreranno nel lungo. Bisogna sostenere il tessuto imprenditoriale attraverso riduzioni di oneri e burocrazia senza interferire nell’allocazione spaziale delle imprese. Bisogna intervenire con un piano straordinario di lotta alla corruzione sia nel pubblico che nel rapporto pubblico-privato. Piccoli interventi di spostamento di capitolati insignificanti, come quelli che si profilano oggi, non avranno alcun impatto sull’attuale dinamica economica italiana.


venerdì 14 giugno 2013

I Tassi d'Interesse e la confusione che regna sovrana

Salvatore Perri

Il differenziale fra tassi d'interesse sui titoli di stato italiani e tedeschi e' balzato negli ultimi mesi agli onori della cronaca additato come indicatore del potenziale disastro economico imminente. La divaricazione dei tassi ha sicuramente implicazioni problematiche ma esse riguardano principalmente il razionamento del credito verso le imprese e non, come erroneamente si crede, una ipotetica impossibilita' di rifinanziare il debito.

Il ruolo del famigerato "spread" fra i tassi d'interesse sul debito e' diventato nell'opinione pubblica mutevole non meno delle personali sensazioni climatiche. Lo stesso e' passato dall'essere una variabile in grado di determinare la fine di un governo, all'essere un'invenzione della stampa. E' indiscutibile che un aumento dei tassi d'interessi sul debito pubblico (enorme come quello italiano) abbia implicazioni importanti sui conti dello stato, ignorarlo o far finta che non esista, come fosse l'incubo in cui si viene inseguiti dai fantasmi, non ne aiuta certamente la comprensione.

Tuttavia, alcuni degli effetti di un aumento dei tassi sono quotidianamente male interpretati, creando allarmismo immotivato verso il rifinanziamento del debito ed oscurando completamente i veri effetti negativi che riguardano fondamentalmente il settore privato e le proprie possibilita' di accedere finanziamento bancario.

Se i tassi di interesse sul debito aumentano quali sono le reali conseguenze?

In primo luogo, contrariamente a quello che quotidianamente si dice, aumentano le possibilita' che lo stato ha di piazzare i suoi titoli sul mercato. La ragione e' palese, un piu' alto rendimento e' piu' appetibile di uno basso. Si dice che il rischio aumenta, ma quale rischio? E' possibile ipotizzare che lo stato non onori i suoi debiti? L'Italia possiede un patrimonio inestimabile, puo' imporre le tasse e se cio' non bastasse potrebbe consolidare il debito spostando le scadenze (come avvenne in periodi oscuri della nostra storia). Come i finlandesi che volevano il Partenone in garanzia a copertura del debito greco, l'Italia potrebbe offrire il Colosseo piuttosto che vendere la Sardegna (come in un celebre pezzo di Corrado Guzzanti in veste di Tremonti).

Aldila' delle esagerazioni, i titoli del debito italiano rappresentano un "asset" relativamente certo, pertanto se ne aumenta il rendimento e' naturale che i titoli si vendano sempre, i giornalisti si stupiscono che cio' accada con la stessa forza con cui io mi stupisco che loro si stupiscano.

Il problema nasce dopo, se gli interessi sui titoli del debito pubblico aumentano essi "spiazzano" una quota degli investimenti privati. Supponiamo un tasso sui titoli annuo al 5%, gli imprenditori privati dovranno offrire agli investitori un tasso superiore per convincerli ad investire sull'impresa anziche' in titoli di stato. Qualunque garanzia l'impresa offra sara' sempre inferiore a quella offerta dallo stato.

Di conseguenza le imprese dovrebbero poter conseguire profitti enormi per ripagare i prestiti, in tempi di crisi questo diventa complicato, ma abbiamo ancora un altro problema, questo si peculiare alla condizione italiana:   le banche.

Nel momento esatto in cui le banche ricevono liquidita' dalla BCE esse si trovano di fronte alla scelta su come investire questo denaro al fine di massimizzare i profitti, quindi effettuano la stessa scelta che effettuerebbe un investitore privato, ovvero, comprare titoli di stato anziche' finanziare le imprese.

Anche in questo caso stupirsi non serve a niente, le banche non sono enti mutualistici caritatevoli, inseguono profitti, quindi meglio il certo dell'incerto, male che vada lo stato aumenterebbe le tasse oppure dismetterebbe investimenti pur di rimborsare i titoli a scadenza.

In conclusione, lo "spread" da osservare e' quello tra i rendimenti dei titoli di stato ed i rendimenti medi delle aziende italiane. Un aumento dei tassi sul debito facilita la collocazione dei titoli, ma riduce le possibilita' delle imprese di essere finanziate. Inoltre il fatto che siano le banche a finanziare il debito comporta un trasferimento di risorse dai cittadini al settore finanziario amplificando gli effetti recessivi della crisi.


lunedì 29 aprile 2013

L’austerità espansiva e la buonanima di Pigou.



Salvatore Perri

Abstract

Coloro che si ostinano a chiedere la fine dell’austerità, rivelatasi inefficace, vengono spesso accusati di assumere posizioni ideologiche irrazionali. In realtà i basamenti teorici su cui si fondano le recenti politiche economiche europee sono fragilissimi. Attendersi la crescita dall’austerità e dalla depressione economica appare oggi irrealistico, almeno quanto lo è stato nel passato.

Le ultime vicissitudini del governo Monti, i dati terrificanti sulla produzione, sul livello di attività economica e soprattutto sulla disoccupazione, mettono in discussione i fondamenti teorici (classici e neoclassici) delle politiche economiche adottate, decretando il fallimento dell’austerità come soluzione alla crisi.

Mi sono già soffermato nei miei precedenti articoli (in tempi non sospetti) sull’inefficacia delle politiche di austerità, in particolare, spiegando l’assenza di un qualsiasi legame (anche ipotetico) fra riduzione della spesa ed aumento degli investimenti, sull’inefficacia dei tagli alla spesa per ridurre il debito e sull’inefficacia delle azioni sul mercato del lavoro per rilanciare l’occupazione. 

Semplificando, in primo luogo, non è detto che una riduzione del debito comporti un miglioramento della posizione relativa dell’Italia in termini di attrattività degli investimenti privati (nazionali ed esteri). Una parte consistente degli investimenti non dipende dal tasso di interesse (investimenti autonomi), bensì dalle prospettive di profitto che in Italia sono calate drasticamente dalla fine degli anni ’70.
Secondariamente, una riduzione della spesa pubblica è immediatamente recessiva, sia nel primo periodo che, cumulativamente, in quelli a seguire. Di conseguenza il Pil tende a ridursi in tutti i periodi e paradossalmente il debito continua ad aumentare nonostante i tagli.
In ultimo, ma non per importanza, le  c.d. “riforme” del mercato del lavoro hanno aumentato la disoccupazione anziché ridurla per il semplice motivo che un sistema economico afflitto dalla presenza del lavoro sommerso e dalle molteplici forme flessibili di contratto, difficilmente può essere riequilibrato con ulteriori flessibilizzazioni del mercato. Soprattutto in piena recessione economica quando le imprese licenziano e non assumono.

In sostanza “l’austerità espansiva” ci ha regalato conti “apparentemente” in ordine (appesi ad un filo) in cambio di meno consumi, più disoccupazione e più debito.
Ma non è finita qui, il substrato teorico delle politiche neoclassiche e monetariste che ha guidato la BCE ed il governo Monti include anche un principio ancora più radicale, il c.d. “Effetto Pigou”. 

Secondo questo classico pre-keynesiano la disoccupazione e la deflazione avrebbero avuto un freno automatico in qualunque sistema economico, che magicamente sarebbe ritornato a crescere per effetto di due fattori.
In primis, la disoccupazione avrebbe generato una riduzione dei salari che avrebbe reso il lavoro meno costoso spingendo le imprese ad assumere.
In secondo luogo la caduta dei prezzi avrebbe aumentato il potere d’acquisto della moneta spingendo i consumatori ad acquistare più merci.
L’insieme di questi due effetti sarebbero in grado di ripristinare la crescita.
 
Il primo ostacolo importante a queste mirabolanti affermazioni si ritrova nella crisi del ’29, quando i prezzi calarono la disoccupazione negli USA toccò i suoi massimi ed il sistema economico continuò a precipitare. In pratica, gli imprenditori spaventati non investirono, a causa dell’assenza di prospettive di profitto, le aziende continuarono a chiudere licenziando, e le merci semplicemente scomparvero dai mercati, quindi nessuno dei due effetti entrò mai in funzione.

Il capitalismo fù salvato dall’intervento statale e dalle politiche espansive, ma questa è storia nota.

Oggi l’effetto Pigou potrebbe manifestarsi? I suoi sostenitori osservano che la disoccupazione era determinata dalle “innaturali” leggi sul salario minimo e dall’art. 18. Rimossi questi vincoli i miracoli sarebbero possibili.
Purtroppo non è così, per le identiche ragioni che decretarono la fine dell’economia classica dopo il ’29 statunitense. 

Meno salari comportano meno consumi, meno reddito, meno produzione. Le aziende chiudono e chi detiene ricchezza speculativa non investe perché non ci sono prospettive di profitto. Nel frattempo che si attendono i miracoli il capitale inutilizzato (capannoni, macchine, abilità dei lavoratori) si deprezza rendendone ancora più complicato il ripristino.

Uno straordinario saggio di Keynes, ancora attualissimo, parlava dell’assurdità dei sacrifici.

Speriamo di non dovere pagare ancora a lungo la cieca obbedienza dei decisori delle politiche economiche alla speranza della risurrezione di Pigou.


venerdì 15 febbraio 2013

Quale Lavoro e quale Reddito: Italia 2013



Salvatore Perri

Abstract

E’ un luogo comune piuttosto diffuso quello che vuole il Lavoro ed il Reddito in contrapposizione fra loro. Senza lavoro non può esserci reddito, il reddito assegnato senza una contropartita distrugge il lavoro. Nell’Italia del 2013, che ha un passato ed ha un futuro, le tendenze macroeconomiche e socio-politiche certificano l’esatto contrario. Senza reddito non ci sarà lavoro ed il declino italiano sarà irreversibile.

Quale lavoro. E’ impossibile ricostruire in poche righe la storia industriale italiana. Tutti sanno che dalla fine degli anni 70 è cominciato un sostanziale smantellamento della grande industria del nord-ovest, rimpiazzato in parte dal “miracolo” dei distretti industriali del NEC (nord-est, centro). Molti studiosi si sono soffermati sulla natura di questi distretti, enfatizzandone gli aspetti peculiari. Ai nostri scopi è essenziale affermare che tutte queste trasformazioni sono state “labour saving” ovvero, i progressi tecnologici hanno consentito di risparmiare lavoro. Viene prodotto un maggior volume di produzione con un minore impiego di lavoratori. Maggior reddito più disoccupazione. Parallelamente la dimensione media dell’industria è diminuita ed il peso dei lavoratori sindacalizzati si è contratto di conseguenza. Meno lavoro, minore influenza dello stesso nella società. Il sud (alcune parti di esso) in questa storia ha un destino a se stante, seppur funzionale allo sviluppo del nord-est, esso è stato un mercato protetto per le merci settentrionali finanziato in larga parte dai trasferimenti statali (sotto forma di finanziamento di lavori non direttamente produttivi o pensioni). 

Le risposte politiche. Rispetto alla condizione che si delineava la politica ha risposto con provvedimenti inadeguati. Maggiore disoccupazione? Si cambiano i contratti rendendoli “flessibili”. Questo ha fatto sì che da un lavoro a tempo indeterminato ne scaturissero un paio a tempo determinato, ma con un minor monte salari complessivo, senza che ciò comportasse un’inversione della tendenza. Rispetto alle imprese le politiche sono state di 2 tipi: detassare gli straordinari e spingere ogni disoccupato a creare una nuova impresa. Entrambe le politiche si sono rivelate fallimentari. Incentivare gli straordinari determina un ulteriore risparmio di lavoro, mentre le nuove imprese in un mercato asfittico non hanno margine di sviluppo, come è dimostrato dalla notevole mortalità nel primo anno di attività delle stesse.

Le Risposte Politiche 2. In termini di risposta a questa crisi, a livello ideologico si è pensato di competere al ribasso sui salari, raggiungendo l’equilibrio dei conti attraverso tagli al welfare, alla scuola ed università (solo pubblica). A livello locale invece, la classe politica ha capito perfettamente come sfruttare le debolezze del contesto normativo nazionale ed europeo. In passato c’è stato un abuso di finanziamenti statali volti alla creazione di “finti” lavori. Più o meno le buche Keynesiane per intenderci (fondi agricoli, Forestazione, LSU, LPU). La logica è lavorista, non puoi ricevere reddito se non fai nulla. In pratica questi lavori erano produttivi in modo indiretto (come con il Reddito D’Esistenza) con la differenza che questo meccanismo ha alimentato negli anni il mercato delle vacche politico-elettorali. Il passato ritorna oggi in altre forme, stessi risultati. Il settore pubblico non può assumere? Si creano società miste pubblico-privato che assumono, sempre sotto dettatura politica, poi poco conta se i lavoratori non lavorano e le società vengono chiuse con passivi da debito di guerra. L’importante è essere fintamente lavoratori, almeno per un giorno, per poter iniziare la vertenza sindacale ed usufruire della cassa integrazione. Stesso discorso per gli incentivi alla nascita delle imprese, diceva un vecchio adagio “se tutti fanno la pasta, ognuno mangia la sua”. Il mito delle imprese che creano sviluppo (sempre) esiste dai tempi della legge degli sbocchi di Say, il problema è che fù confutata da Keynes e sotterrata dalla grande depressione, ma evidentemente esercita un certo fascino ancora oggi, soprattutto in chi non conosce la storia. L’incentivo alla nascita di nuove imprese non è sempre sbagliato, lo è quando i mercati sono saturi. Se manca la domanda aggregata le nuove entranti devono dividersi la scarsa domanda con le imprese che già ci sono, le quali hanno un vantaggio competitivo dall’essere già sul mercato (Microeconomia livello “basic”). Di conseguenza le imprese create per produrre grazie all’incentivo muoiono spesso nei primi mesi di vita. Le imprese create per distrarre fondi pubblici (o comunitari) chiudono appena gli incentivi vengono riscossi, a volte senza neanche aprire i capannoni. In questi casi avviene il miracolo del lavoratore che deve iniziare la vertenza contrattuale avendo prodotto per “zero ore”.

“Diamogli la canna da pesca.” Un altro dramma tutto locale, si compie quando vengono applicate le “best practices” europee al mercato italiano. La strategia di Lisbona, tra le altre cose, proponeva di riqualificare i lavoratori attraverso la formazione permanente, si finanziano quindi corsi di formazione “purchessia” nelle regioni svantaggiate. Concetto giusto applicazione sbagliata. In primo luogo è paradossale che si finanzino corsi anche all’esterno degli enti di formazione preposti (scuole ed università) mentre gli stessi vengono deprivati di risorse. Ma a parte l’illogicità di un tale approccio, questi corsi passano per la mediazione politica che indirizza le risorse, non effettua controlli, non effettua indagini di mercato per sapere di quali figure c’è bisogno. In buona sostanza i corsi di formazione servono a stipendiare passivamente gli enti formatori, i loro dipendenti e gli studenti che ricevono l’incentivo orario. Esiti di questi finanziamenti? Risibili, se non altro perché al termine del periodo di fruizione dei fondi comunitari per la formazione (2008-2013) la disoccupazione stà toccando i suoi picchi proprio nelle regioni svantaggiate. Per sfatare la metafora si può dire che è inutile che mi insegni a pescare e mi dai la canna da pesca se poi mi mandi in un lago senz’acqua in cui quelli prima di me hanno pescato con l’esplosivo. Anche qui c’è un paragone storico da non sottovalutare, la logica della canna da pesca è stata utilizzata nei magici anni ’80 per giustificare gli aiuti allo sviluppo in Africa, aiuti che spesso si concretizzavano in megatangenti ai politici e traffici di scorie radioattive.

La (quasi) fine del lavoro salariato. Ci troviamo di fronte ad una condizione nella quale il lavoro subordinato come concetto è dequalificato sul piano valoriale. Deve essere retribuito meno, ma chi guadagna meno vale anche meno (nella società moderna siamo ciò che abbiamo). Il lavoro salariato è contemporaneamente uguale e diverso, in termini di trattamento economico e di mansione svolta, il precario svolge la stessa mansione del collega a tempo indeterminato ma non ha gli stessi diritti. Il finto lavoratore, cooptato con logiche politiche, ha gli stessi diritti degli altri pur non essendo un lavoratore. Il lavoro è un semi-diritto, in quanto non c’è e non ci sarà per tutti, ma coloro che non lo hanno meritano il discredito sociale per questo (sono portatori individuali di colpe sociali), anche perché non sono stati in grado di costruire relazioni per averlo (o non hanno voluto pagarne il prezzo). In sostanza anche la libertà del lavoratore-individuo diventa un valore negativo.

Conclusioni. Riassumendo, il mercato del lavoro si comprime dal punto di vista dimensionale perché c’è una tendenza alla riduzione del lavoro impiegato. Il lavoro che rimane viene ripartito in modo arbitrario in una tripartizione fra lavoratori salariati veri, lavoratori sussidiati e precari (veri o sussidiati anch’essi). In ogni caso le politiche adottate comportano una riduzione complessiva dei salari erogati. Viene così meno una parte della domanda interna ed una parte della produzione cessa di essere “giustificata”. Si determina una ulteriore diminuzione del lavoro necessario e la spirale ricomincia, potenzialmente senza limiti. Si può interrompere questa spirale in due modi complementari fra di loro: redistribuendo il lavoro delle aziende ancora produttive in modo da aumentare il numero dei lavoratori attivi, riconoscere i finti lavori per quello che sono, riconducendo le miriadi di forme di sussidio ad una unica forma di Reddito d’Esistenza da attribuire a tutti coloro che non godono di un contratto “dignitoso”. Si interromperebbe la caduta della produzione, dell’occupazione, ma anche la perdita di competitività dovuta alla presenza del lavoro sussidiato e delle corruttele che lo determinano.



venerdì 18 gennaio 2013

E Beppe Grillo scoprì il Basic Income (Reddito D'Esistenza)

di Salvatore Perri

Mi ha molto impressionato sentire Beppe Grillo parlare di Reddito D'Esistenza, dopo che per mesi i suoi cavalli di battaglia in campo economico erano l'uscita dall'Euro o la Decrescita.

Ma in questa battaglia di civiltà, combattuta fino ad oggi in Italia solo dagli studiosi del Basic Income Network e da alcuni movimenti della c.d. "sinistra estrema", più siamo e meglio è. Pertanto approfitto della nuova popolarità di un argomento relegato solitamente al margine del dibattito, per riproporre il mio contributo del Luglio 2012 che serve a sfatare alcuni dei luoghi comuni sul Basic Income.

L'ora del Basic Income

di Salvatore Perri 

La profonda crisi economica odierna viene combattuta con armi spuntate dal governo Monti e con scarsissima lungimiranza dalle istituzioni europee. Le alternative al disastro non si limitano, tuttavia, a proposte estemporanee di uscita dal sistema solare o di ritorno all'età della pietra. Esistono strumenti per la politica economica che sono in grado di ripristinare un sistema economico con un maggior livello di equità senza passare per l'abbandono degli attuali livelli di benessere collettivo. Uno di questi, largamente studiato ed applicato all'estero, è il "Basic Income" (letteralmente reddito di base o tradotto in italiano come Reddito d'Esistenza).

Il Basic Income, a cui farò riferimento, è una somma monetaria assegnata dalla fiscalità generale  o in modo universalistico o ad un gruppo di individui che rientrino in determinate categorie, ad esempio reddituali.
Dal mio punto di vista il modo più efficiente per discutere brevemente questo strumento è quello di rispondere alle più comuni obiezioni errate che emergono nel dibattito, successivamente elencherò alcuni dei possibili benefici per il "sistema Italia", rinviando per una trattazione sistematica ed analitica del tema agli scritti di Andrea Fumagalli.

1.     L'attribuzione di una somma di denaro ad una tale platea di individui è impossibile dati i vincoli di bilancio. Falso, secondo alcune stime, portare il reddito delle persone residenti in Italia al di sopra della soglia di povertà costerebbe all'anno 11 Mld di Euro, circa 1/3 delle manovre estive di Tremontiana memoria. In politica economica c'è sempre una scelta, si tratta solo di investire in modo diverso soldi che vengono spesi comunque.


2.     Pagare i disoccupati li disincentiva a cercare lavoro. L'obiezione è corretta ed anche anglosassone, ma applicata all'Italia è priva di senso. I disoccupati italiani sono in larga parte giovani (nel sud) donne e di lunga durata (anche quando non lavorano nel settore sommerso). Attribuire un reddito, ad esempio di 600 euro mensili, non disincentiverebbe il disoccupato a lavorare per raggiungere soglie più alte, disincentiverebbe esclusivamente lo sfruttamento del lavoro, l'abuso di contratti precari, le simulazioni contrattuali. Il lavoratore avrebbe un'altra scelta, mentre alle imprese irregolari verrebbe a mancare lo strumento con il quale fare concorrenza sleale a quelle regolari.

3.     Una tale forma di retribuzione è improduttiva, le stesse somme potrebbero essere utilizzate per incentivare le imprese a creare lavoro vero. Per rispondere a questa obiezione bisogna discutere che cosa è produttivo e cosa non lo è, nell'esperienza italiana in particolare. Nella definizione di Fumagalli il Basic Income è una retribuzione per tre tipi di attività che gli individui già fanno, ma che non possono scambiare. La cura (di se stessi e degli altri non autosufficienti), il consumo e tutte quelle tipologie di lavoro intellettuale, artistico ed immateriale, che non determinano un ritorno economico (studenti, studiosi ed artisti tra gli altri). Il consumo è produttivo in modo indiretto, in quanto fornisce la giustificazione a produrre un determinato quantitativo di merci che altrimenti non verrebbe prodotto, non stiamo parlando di beni di lusso ma di "consumo autonomo" necessario per vivere nell'accezione Keynesiana. Senza la domanda l'offerta è priva di senso e cessa di essere, generando nuova disoccupazione. Il Basic Income frena questa dinamica molto più dell'incentivo alle imprese. Quando i mercati sono saturi e non ci sono prospettive di profitto le imprese non investono, forzarle a farlo non ha senso. L'Italia, ed il sud in particolare, ha sperimentato flussi di incentivazione all'impresa probabilmente senza eguali nella storia del mondo moderno, i risultati sono sotto gli occhi di tutti, ed in particolare della magistratura, sarebbe ora di cambiare approccio.

4.     Il Basic Income è incompatibile con il libero mercato. In un qualsiasi manuale di Economia, sin dagli albori dell'Economia Politica, nell'analisi dell'equilibrio di scambio, si sottolinea che l'equilibrio efficiente a volte può non essere equo. Per rendere equo l'equilibrio di mercato si può agire sulla dotazione dei fattori, appunto sul reddito di base degli individui, che è quello di cui stiamo parlando.

5.     Un tale esborso monetario farebbe aumentare il debito pubblico. Probabilmente lo farebbe diminuire. Una spesa pubblica finanziata con imposte (già versate) ha un effetto comunque positivo sul reddito. Questo tipo di aumento di spesa si concretizzerebbe in un aumento dei consumi (perché gli individui con un reddito basso consumano in proporzione di più di quelli con un reddito alto). L'aumento dei consumi fa aumentare le entrate fiscali. Il reddito complessivo finale sarà più alto, cosa che aiuta la sostenibilità del debito. Attualmente la caduta dei consumi, e del reddito, rende necessarie manovre sanguinose sul piano dei tagli che si rivelano inutili perché la caduta dei consumi fa diminuire le entrate e vanifica i risparmi di spesa. La ripresa dei consumi interromperebbe questo circolo vizioso.

Come già detto, ed entrando nell'elenco dei possibili benefici, una tale politica garantirebbe una base di consumo e quindi di produzione, indipendente dalle variabili finanziarie e dallo spread, in quanto composta da esclusivamente da domanda interna.
Il peso della clientela, come forma di esercizio del potere politico-massonico-mafioso, sarebbe notevolmente ridimensionato, si passerebbe dal sistema di oggi basato sui privilegi ad un sistema basato sui diritti.
Il Basic Income sarebbe un potente disincentivo alla criminalità, in quanto il diritto a riceverlo potrebbe essere legato alla condotta, cioè esso potrebbe essere revocato come pena accessoria a causa di condanne penali.
Sarebbe garantito realmente il diritto allo studio universitario anche agli studenti svantaggiati, i quali potrebbero anche proseguire gli studi post-laurea, ipotesi oggi ascrivibile alla fantascienza, aiutando concretamente la competitività del sistema paese dato l'attuale livello medio di istruzione.
A medio termine le spese sanitarie dovrebbero ridursi, in quanto una maggiore cura personale garantita dal Basic Income, ridurrebbe i fattori di rischio per le fasce meno abbienti della popolazione che altrimenti si scaricherebbero sul servizio sanitario nazionale.
Si ridurrebbe l'emigrazione forzata e con essa il degrado demografico relativo allo spopolamento dei piccoli centri con benefici per la coesione sociale.
In conclusione, una tale forma di intervento caratterizzerebbe un paese come "avanzato" in termini di civiltà, non a caso ne la Grecia ne l'Italia hanno forme di sostegno al reddito di questo tipo. La Germania ce l'ha, probabilmente hanno fatto i conti meglio di noi.

http://www.bin-italia.org/article.php?id=1741

giovedì 29 novembre 2012

La logica della BCE



Salvatore Perri

Il crescente dissenso dell’opinione pubblica europea nei confronti della politica monetaria della BCE è essenzialmente dovuto alla percezione (corretta) che la stessa BCE si preoccupi molto del sistema bancario e finanziario e per nulla dei problemi dell’economia reale. Tuttavia, quello che non è sufficientemente chiaro all’opinione pubblica è che un tale comportamento della BCE è dovuto ai vincoli stabiliti da accordi fra gli stati membri (per gli strumenti utilizzabili) determinati da vincoli ideologici che legano la politica della BCE alle teorie neoclassiche e monetariste. Il senso di questo mio contributo è che entrambi i vincoli sono superabili rendendo la BCE uno strumento che contribuisca a risolvere la crisi, anziché ad acuirne gli effetti.

Quando ho detto ad una mia amica che avrei voluto spiegare perché la BCE si comporta in questo modo lei mi ha risposto: “lo so io, perché sono una massa di str….”. Questo la dice lunga sull’opinione che attualmente si ha nei confronti di questa istituzione, ma lo strumento BCE non coincide con le Politiche della BCE, è come un coltello, si può utilizzare per tagliare il pane o per uccidere. Ma la colpa non è dello strumento ma è di chi lo usa, male.

La BCE ha, tra gli altri, il compito di garantire la stabilità monetaria attraverso la gestione dell’offerta di moneta. Ciò avviene attraverso l’acquisto e la vendita di titoli (operazioni di mercato aperto) ed attraverso la gestione dei tassi d’interesse. L’assunto di base è che la BCE deve essere indipendente dagli stati membri e deve occuparsi solo del controllo della stabilità dei prezzi, oltre al corretto funzionamento del sistema finanziario. Perché accade questo?

La teoria economica neoclassica, nelle sue componenti più estremistiche, suggerisce che la politica fiscale e quella monetaria siano, nel lungo periodo, totalmente inutili nel loro tentativo di aumentare il reddito e ridurre la disoccupazione. Politiche fiscali espansive (spesa pubblica) e monetarie espansive (aumento dell’offerta di moneta) si rivelerebbero nel lungo periodo inflazionistiche, senza alterare le variabili reali (reddito, occupazione).

Siamo di fronte alla perfetta applicazione della teoria quantitativa della moneta, secondo cui ogni aumento della quantità di moneta in circolazione si riflette proporzionalmente sul livello dei prezzi. Che cosa fa quindi la BCE? Mantiene stabili i prezzi in Europa agendo sull’offerta di moneta.
Perché non si occupa di stabilizzare anche i livelli occupazionali ed il reddito? Perché sempre le teorie neoclassiche suggeriscono che varare politiche monetarie “discrezionali”, altererebbe la credibilità della BCE che non riuscirebbe più ad ottenere la stabilità dei prezzi, in quanto l’espansione monetaria sarebbe con essa incompatibile.

Pertanto la soluzione trovata negli accordi istitutivi è stata la seguente, la BCE si occupa “solo” dei prezzi, mentre i singoli governi europei devono occuparsi della politica fiscale e quindi di reddito ed occupazione.
Si arriva a questo punto per demeriti politici, dell’Italia in primo luogo, poiché all’approssimarsi delle elezioni, i governi tendono ad espandere la spesa pubblica a fini di consenso, una storia che noi conosciamo bene, e che ha creato da noi un “trade off” fra inflazione e debito pubblico.

Detto questo, la politica monetaria odierna è funzionale all’uscita dalla crisi? Ovviamente no, e non bisogna essere scienziati per dirlo, anche se la prova a rovescio è dimostrabile scientificamente. Secondo la teoria quantitativa della moneta, se aumenta l’offerta di moneta aumenta anche il livello d’inflazione, ok, ma se si riduce il PIL? A questo punto la BCE dovrebbe ridurre l’offerta di moneta perché quello precedente non è più compatibile con l’attuale ricchezza prodotta. Questa manovra sarebbe altamente recessiva e quindi si potrebbe aumentare l’offerta di moneta per contrastare la recessione e riportare il PIL al suo livello ante-crisi?

La risposta all’ultima domanda è si, ma questa sarebbe una politica monetaria anticiclica, una di quelle strategie vietate dai trattati, che si basano sulle suddette teorie economiche neoclassiche.
Qual è la soluzione a questa trappola? Modificare i trattati, introducendo la possibilità di deroghe in caso di crisi, che consentano alla BCE di acquistare titoli dei paesi membri, titoli finalizzati a garantire la ripresa economica attraverso investimenti infrastrutturali, tecnologici e sociali. Non le auto di Batman per intenderci.
La BCE potrebbe vigilare, assieme alla Commissione Europea sul “come” si debbano spendere questi soldi. Ed evitare quindi gli abusi che noi conosciamo.

Questa politica economica non sarebbe necessariamente inflazionistica, in quanto le economie Europee sono ben lontane dal “pieno impiego”, sia di lavoratori che industriale, e sono proprio i neoclassici che ci dicono che l’espansione monetaria è inflazionistica se si parte da un livello del PIL prossimo a quello di pieno impiego. Inoltre, l’espansione monetaria attuata dalla BCE sarebbe meno inflazionistica e meno distorsiva di una qualunque politica attuata da un singolo stato.

In conclusione, la BCE non è un totem ma è uno strumento imprescindibile per l’ordinato funzionamento degli scambi in Europa. Un’altra cosa è criticarne le politiche, che non sono discrezionali, ma per scelta, questa si sbagliata. La soluzione è aprire una ridefinizione dei compiti e delle opportunità a disposizione del banchiere centrale, affinché egli possa intervenire tempestivamente in caso di episodi recessivi acuti. Il tutto coordinato efficientemente con le politiche fiscali degli stati membri. Questo sarà possibile quando maturerà nei soci dell’Eurozona la consapevolezza che i tempi sono ormai maturi per riformare i trattati ed avvicinare le istituzioni comunitarie alle esigenze dei cittadini europei.