Salvatore Perri
Premesso che ragionare sulle ipotesi, in Politica Economia, è come fare statistica nel caos, le indiscrezioni sulle proposte elaborate da Cottarelli ed offerte al governo, meritano una qualche discussione che ne aiuti a comprendere la portata.
In primo luogo, è assolutamente certo che una riduzione della tassazione finanziata dal taglio della spesa è comunque recessiva. La ragione risiede nel valore del moltiplicatore della spesa pubblica che è maggiore di quello delle imposte. Di conseguenza avremmo fatto tutto questo per ottenere ulteriori riduzioni del PIL? Non è necessariamente detto.
Gli effetti della Spending Review saranno espansivi, recessivi o neutrali a seconda dei redditi su cui andranno ad incidere. Si parte da un assunto economico di base, la propensione al consumo è decrescente rispetto al reddito, cosa che è alla base di ogni politica redistributiva. Si toglie a chi ha di più non perchè ci piace Robin Hood, per invidia sociale, o per dare sfogo al giacobinismo che è in ognuno di noi, bensì perchè un euro tolto ad un multimilionario andrebbe in risparmi, mentre lo stesso euro donato ad un individuo comune con buona probabilità andrà in consumi. Difatti è stato proprio il crollo dei consumi interni ad aggravare gli effetti della crisi, e non il calo delle esportazioni, come invece viene propagandato.
Pertanto, se i tagli di Cottarelli riusciranno ad incidere sugli stipendi dei managers pubblici, sui doppi e tripli incarichi, sulle indennità, le trasferte fittizie, e qualsivoglia beneficio cumulato da alcuni dipendenti del settore pubblico, l'effetto del combinato disposto di tagli e riduzione di tasse non è detto che sia recessivo.
La discriminante è il "soggetto" non è la categoria.
Questo è bene che se lo ricordino anche i sindacati, perchè se si riesce a ridurre il monte pensioni colpendo quelle piu' alte (sfruttando la progressività delle imposte, che è in costituzione, e non ipotetiche soglie che sappiamo già essere incostituzionali), è inutile che i sindacati scendano sul piede di guerra equiparando i tripli cumuli alla pensione del singolo incolpevole, ben sapendo che i tripli cumuli di alcuni pensionati pubblici sono stati finanziati con contributi pagati sempre dal settore pubblico, quindi dalla collettività.
mercoledì 19 marzo 2014
giovedì 23 gennaio 2014
Il capitalismo dominato dalla finanza e la sua crisi
Salvatore
Perri
Sempre più spesso si
ascoltano ragionamenti secondo cui gli Economisti non servirebbero a nulla in
quanto, non hanno previsto la crisi, non la risolvono, nonché varie ed eventuali,
tanto varrebbe chiudere i corsi di Economia ed andare in collina. A poco vale
sottolineare un passaggio di Galbraith che, citando Marx, spiegava che il
capitalismo “avanza per crisi”, ma
queste cose in genere si leggono nei corsi di Economia.
La mia opinione è che
non ci si improvvisa Economisti dalla mattina al pomeriggio, come non ci si
improvvisa Medici, Astrofisici o Esperti di Storia dell’Arte. Ma anche all’interno
della stessa categoria degli Economisti ci sono una moltitudine di
specializzazioni come in Medicina. A puro scopo di esempio, ho scoperto di
avere il reflusso andando dal Gastroenterologo, fossi andato dell’Ortopedico
non credo che avrei mai iniziato una terapia.
Ovviamente chiunque può
dire cose intelligenti dal punto di vista economico, soprattutto se svolge
professioni per le quali questo è necessario, in particolare quando si và sul
piano tecnico specifico ci sono degli analisti nel privato che ne sanno più dei
docenti. E’ piu’ difficile, invece, che un profano assoluto della materia ci
offra soluzioni strutturate a livello “Macro”, perché le problematiche non sono
mai banali.
Il Macroeconomista (lo
studioso di Economia Politica) è assimilabile ad un Medico specializzato in “Medicina
Generale”, analizza il soggetto, osserva le sintomatologie, e sulla base della
propria cultura ed esperienza fornisce una diagnosi ed una prognosi. La
differenza è il soggetto, che non è un complesso organismo umano ma un
altrettanto complesso sistema economico. Anche le diagnosi mediche a volte non
è detto siano giuste, ma non per questo bisogna chiudere le facoltà di
Medicina. Cosa sia un Economista dal punto di vista formale lo ha spiegato
Fabio Sabatini in un articolo su Micromega e Repubblica. Ma anche all’interno
della categoria degli “Economisti” in senso stretto si può integrare la
classificazione di Sabatini con altre 3 categorie.
Ci sono gli “Illuminati”
cioè coloro che, in base ai loro studi e ricerche, analizzano correttamente i
fenomeni economici e sono in grado di anticipare le dinamiche future fornendo
spunti per la correzione delle politiche economiche. Ci sono i “Fulminati” che
si sono svegliati una mattina convinti di avere le risposte a tutte le domande,
oppure che una particolare teoria a cui sono affezionati sin da bambini salverà
l’universo-mondo e non và messa in discussione pena la scomunica. In ultimo,
sicuramente per importanza, ci sono i “Mistici”, che hanno avuto carriere così
miracolistiche da essere troppo impegnati a rendere omaggio ai loro Santi Patroni
per accorgersi che c’è un mondo là fuori, ma almeno questi ultimi non sono
dannosi per l’ambiente perché non li si vede e non li si sente.
Io non so se sono
Illuminato o Fulminato (o entrambe), lascio a chi legge i miei pezzi
stabilirlo, sicuramente non sono Mistico (visto l’andamento della mia
carriera).
Per certo Eckhard Hein
è uno studioso serio e razionale. Ho letto il suo ultimo libro “The Macroeconomics of Finance-dominated
Capitalism – and its Crisis” edito da Edgar Elgar (2012), e credo che
possa rappresentare un ottimo esempio di che cosa vuol dire fare i
Macroeconomisti.
Hein analizza le
trasformazioni economiche provocate da un capitalismo dominato dalla finanza,
individuando i canali attraverso i quali esso opera e propone soluzioni di
politica economica per uscire dalla crisi. Fa tutto questo attraverso l’analisi
dei dati di un gruppo di paesi c.d. “avanzati” e con l’ausilio del modello di crescita
endogena proposto originariamente da Kalecki.
In primo luogo, l’autore
dimostra che nel capitalismo dominato dalla finanza il reddito da lavoro si
riduce a vantaggio dei profitti da capitale, delle rendite finanziarie e dei
salari dei managers. Questo meccanismo non sarebbe di per sé dannoso, se i
profitti così ottenuti fossero reinvestiti nell’economia reale. Invece Hein
nota che la finanziarizzazione dell’economia produce un regime economico nel
quale l’orizzonte temporale degli investimenti “si accorcia”. In pratica gli
operatori guardano al brevissimo periodo, cercando di massimizzare i profitti
finanziari in poco tempo, di conseguenza, si ottiene come risultato un sistema
in cui ci sono “profitti senza investimenti”. Per esemplificare, anziché in una
azienda si investe nel fondo speculativo.
Sostanzialmente a
livello macro, ciò che avviene è un’estrazione di rendita finanziaria
sovranazionale, laddove i capitali sono liberi, mentre il reddito dei
lavoratori e le risorse a disposizione delle imprese si riducono.
Hein nota anche che i
regimi economici che emergono dal capitalismo finanziario sono estremamente
instabili dal punto di vista macroeconomico. In una mia ricerca, (che spero sia
pubblicata a breve), dimostro empiricamente che l’instabilità macroeconomica impedisce
una corretta trasformazione dei risparmi in investimenti, accentuando il
fenomeno sottolineato da Hein. Pertanto unendo questi due argomenti si ottiene
un circolo vizioso potenzialmente devastante e senza limiti.
Un altro aspetto
interessante riguarda il cambiamento di risultati considerati come acquisiti
dalla letteratura classica. Si sosteneva che un aumento del potere degli
azionisti all’interno della società comportasse un incremento del tasso di
accumulazione del capitale e di conseguenza della crescita di lungo periodo.
Secondo Hein, le dinamiche descritte in precedenza ci raccontano un’altra
storia, gli azionisti utilizzano i dividendi per il profitto di breve periodo,
e per le ragioni di cui sopra, sottraggono denaro alla circolazione “produttiva”
privilegiando quella speculativa. Di conseguenza l’aumento del potere degli
azionisti anziché agire come stimolo alla crescita finisce per deprimerla.
Quando Hein introduce
esplicitamente nel modello il debito privato, i risultati che ne scaturiscono
sono tutt’altro che incoraggianti. Come abbiamo detto il reddito dei lavoratori
si stà riducendo, gli stessi per mantenere un livello congruo di consumi si
indebitano. Ma se il tasso di interesse è più alto del tasso di crescita dell’economia
il debito aggregato tende a crescere senza limiti, in assenza di regolazione
esterna (fenomeno che avevo analizzato in
un altro pezzo).
Successivamente l’autore
mette in evidenza che l’esplosione del debito in alcuni paesi europei ha
colpito anche gli altri, perché la riduzione della domanda aggregata
complessiva ha danneggiato le loro esportazioni.
In conclusione e
riassumendo, il capitalismo dominato dalla finanza (insieme alle politiche
economiche neo-liberiste) è alla base della crisi che stiamo vivendo. Per
uscire da questa situazione è necessario, secondo Hein, muoversi su diversi
profili. A livello intranazionale devono essere varate politiche fiscali che restituiscano
potere d’acquisto ai redditi da lavoro, anche in termini di aumenti salariari.
Questo ridurrebbe gli effetti derivanti dall’incremento del debito privato. Per
quanto riguarda il contesto europeo, Hein sostiene che sia necessario un
maggior coordinamento delle politiche economiche tra i diversi stati, al fine
di muovere risorse dai paesi in surplus commerciale verso quelli in deficit per
ridurre gli squilibri (che durante la crisi sono aumentati).
Un aspetto decisivo in
questo senso è la considerazione che l’ampiezza dei fenomeni evidenziati ha
dimensione sovranazionale, di conseguenza anche una buona politica, varata dal
singolo stato potrebbe rivelarsi inefficace, se gli altri paesi fanno l’opposto.
Inoltre è necessario, secondo l’autore, reintrodurre la separazione fra banche
commerciali e banche d’investimento, oltre ad una efficiente regolazione del
settore finanziario a livello sovranazionale.
Ovviamente nel libro c’è
molto di più ed ho sottolineato solo gli aspetti che hanno colpito la mia
curiosità, pertanto ne consiglio la lettura ai più “appassionati di Economia”.
Economisti e non.
giovedì 29 agosto 2013
Mr. Monti’s wrong answers
This is English version of my article named "Le risposte sbagliate del governo Monti" wrote in September 2012 (problems are the same and we don't see solutions).
Abstract
Mr. Monti is trying to implement some economic
measures based on neoclassical vision of the economy. Especially it is focused
on taxes, public expenditures, labor market and welfare in general Unfortunately
these measures demonstrate that he has misunderstood the causes of the crisis
and it seems that he has no clue how to get out of it. Unless he changes completely his strategy
there is a high probability that in few months the crisis would be worsened and
Eurozone collapse would be accelerated.
What Mr. Monti says
When Mr. Monti was assigned to a position of prime
minister Majority of Italians was happy because they thought that a professor
of economics for sure should have clear vision of the crisis. He announced that
his government has three main goals. The first is to show that Italians are
able to “do homework” in terms of reduction of public expenditure, to obtain
equilibrium in public balance and to recover credibility. Second is to ensure
growth. Third is to be fair with citizens because in Italy there are lots of
people that pay enormous amount of taxes (that often goes in the wrong
directions) and another part of population that pay nothing but still receives
public services.
What Mr Monti did
Despite his initial plans the first thing he tackled
was labor market. Some rights of workers were lost because of Mr. Monti’s
endeavor to open labor market. Anyway, labor market in Italy was “too” opened
because reforms in the past 20 years forced millions of workers towards short
term contracts. Nobody was assumed in consequence of this last reform. Secondly,
he issued a law of “balanced budget” that became part of the Constitution. That
implies constant reduction of public expenditure year by year because Italy is
paying an increasing amount of interests on debt. If interest rate goes up than
Italy will have to cut expenditures on transfers to regions and in following
sectors: education, healthcare, courts and so on. But this kind of cuts
certainly will generate reduction in consumption, GDP and also will determine
social instability. If GDP declines we will need carry out more cuts to make
our debt sustainable and this process repeats again and again. Thirdly, Mr.
Monti has issued a law for public insurance of banks against the risk of
bankruptcy. Now Italian banks are purchasing debts of State with funds from BCE
(to 1% of interest rate). Banks will receive from 5% to 7% of interest rate
from the State. In practice the State do not receive money directly from BCE
but has to pay this money with 5% per year to Italian banks. GDP of Italy is
increasing by zero % per year, this means that the State has to reduce public
expenditure (again) or has to sell its property (like buildings, lakes, islands,
etc.). These are the main reasons why our debts are increasing in spite of cuts.
Eventually if some banks collapse, the State will have to pay for it. This is
what is happening.
What Mr. Monti could not do
Since the Prime Minister was a follower of
neoclassical rules everyone have been expected that he would be able to “open”
markets inside of Italy. In this field he failed completely. His government is
supported by Berlusconi’s party, historic enemy of all kinds of liberalization
because he is an owner of the enterprises in many of economic sectors that are
closed to the market competition (insurance, banks and mass media). Mr.
Berlusconi could not vote in parliament against himself. The lobbies have won
easily and all the Italian markets are blocked equally as before the government
of Mr. Monti was established. Also all Italians are still waiting for someone who
can propose real solutions for the problems in our economy. Corruption,
inefficiency of justice, criminal organizations, inefficiency of bureaucracy are
the most important factors that are pushing investors away from us. Not a
single law passed by the government was able to mitigate the problem. Only equilibrium
of balance itself is not sufficient to promote foreign investments; it is just
one of the essential conditions. There should be favorable conditions for
investors. Actually the environment in Italy is not that attractive in this
sense. Also in all of his speeches the Prime Minister mentions that economic
growth is important, but he cannot spend any amount of money if BCE and EU
policies are not changed because in these conditions of public balance, the
debt will grow.
Conclusion
Mr. Monti’s government could fulfill only first
commitment of his program i.e. recover international credibility that was
damaged after Mr. Berlusconi’s office period. Except for that other directions
taken by the government were wrong and did not tackle real problems of Italian
system. Economic policy driven by Mr. Monti is recessive and it is somehow
impacted on increase of public debt. Some economic policies that could have
increased attractiveness of Italy were not implemented because the government
is too weak in respect to parties that vote for a law in parliament. Unless
different line of economic policy is taken, Mr. Monti’s government will be
remembered as failure that led to decline of Italy and Eurozone in general.
martedì 9 luglio 2013
Quali Riforme per l’Italia?
Salvatore Perri
La condizione
Economico-Finanziaria dell’Italia è particolarmente seria. Migliorarla è
estremamente difficile, per farlo ci sarebbe bisogno di interventi strutturali
consistenti sui comparti reali del sistema economico (investimenti) e
contestualmente di vere “riforme” normative che traccino le linee guida un
percorso di sviluppo realistico per i prossimi decenni. La complessità della
realtà richiede risposte complesse, non in termini formali, ma in termini di
comprensione delle dinamiche che stanno determinando l’arretramento strutturale
del “sistema Italia”. Questo livello di comprensione, ascoltando le priorità
degli ultimi 3 governi, è piuttosto scarso.
Imprese.
La
crisi del settore industriale italiano viene da almeno due decenni. La mancanza
di una politica industriale da parte di governi si è sommata all’inevitabile
perdita di competitività delle imprese italiane sui mercati internazionali a
seguito della globalizzazione economica. Ad una prima fase di difficoltà delle
grandi imprese del nord-ovest, il mondo imprenditoriale ha reagito mutando la
forma della produzione attraverso ristrutturazioni che permettessero produzioni
innovative e di qualità su scala più piccola. Tuttavia l’avvento di nuovi
competitori sui mercati, caratterizzati da bassi costi di produzione, ha
provocato la crisi anche del “miracolo nord-est”. L’Italia, sostanzialmente, è
un paese post-industriale, laddove il peso dei servizi e del terziario
(sostenuto dalla domanda interna) è destinato ad essere predominante negli anni
avvenire rispetto alla produzione di merci in senso stretto.
Negare questo elemento
contribuisce a far perdere del tempo prezioso aspettando che “rinascano” nuove
imprese come quelle che abbiamo conosciuto. Questo non accadrà.
E’ necessario sostenere
le aziende competitive attraverso il supporto alla riqualificazione ed alla
modernizzazione produttiva, ed attraverso il taglio degli oneri fiscali che
incidono sul costo del prodotto, non attraverso ulteriori tagli al costo del
lavoro (totalmente inutili e dannosi, come si spiegherà in seguito).
Inoltre, anziché insistere
sul rifinanziamento della cassa integrazione di aziende che non possono tornare
alla produzione, è necessario investire su piani di riqualificazione
territoriale che permettano alle imprese di perseguire obiettivi pubblici con
lavoro privato (sicurezza del territorio, adeguamento antisismico, mobilità
sostenibile, bonifiche di discariche, solo per citarne alcuni).
Lavoro.
E’
stata opinione diffusa, ribadita tra l’altro da eminenti studiosi, che la
flessibilità del lavoro avrebbe costruito per l’Italia un paradiso di piena
occupazione. Le imprese aspettavano solo un rilascio normativo degli
inaccettabili vincoli ai licenziamenti o alle assunzioni temporanee. Ho già
scritto di questo assunto e di come sia totalmente falso, ma è interessante
sottolinearne un aspetto diverso. Se le aziende soffrono la crisi, licenziano, delocalizzano,
chiudono per le ragioni sopra elencate, che effetto possono avere incentivi
alle assunzioni o modifiche normative ai contratti? La risposta è elementare: nessun
effetto positivo. Inoltre, come era stato ampliamente previsto, una
flessibilità senza regole, senza continuità contributiva, ha generato ulteriori
problemi contribuendo a comprimere la domanda interna ed aggravare la crisi. Lo
stillicidio di dati sulla disoccupazione e sul crollo dei consumi (anche
alimentari) dovrebbe contribuire a svegliare anche i più addormentati.
Alzare l’età
pensionabile e ridurre le tutele contrattuali per i neo-assunti può comportare
un piccolo beneficio nel breve periodo ed un disastro a medio termine, perché calano
le entrate fiscali e quindi i conti dello stato tornano velocemente a
peggiorare (nei periodi delle ultime “riforme” del mercato del lavoro il debito
pubblico ha continuato la sua inarrestabile ascesa).
Le uniche riforme sensate
riguardano la Redistribuzione del Lavoro nelle aziende produttive e l’introduzione
di una forma di Reddito Minimo per tutti coloro che non potranno essere
ricollocati nel mercato del lavoro (fenomeno che ho già discusso in altri
pezzi).
Stato.
Non
necessariamente un elevato peso del settore pubblico è un male per un sistema
economico (nelle condizioni sopra indicate di quello italiano nello specifico).
Il peso dello stato diventa un problema se non fornisce servizi efficienti, se
è costoso, permeato dalla corruzione e condizionato dalla politica nel senso
deteriore del termine. In questo caso, contrariamente agli altri settori, si
potrebbero ottenere grandi risultati con provvedimenti normativi. Una severa
legge anticorruzione ad esempio potrebbe contribuire ad abbassare i costi delle
opere pubbliche, che sono i veri costi della politica che nessuno riesce ad
abbattere. Una legge che riesca ad impedire le assunzioni clientelari nell’insieme
degli enti pubblici (ospedali e posizioni dirigenziali degli enti pubblici) con
pene esemplari per i trasgressori, contribuirebbe in breve tempo ad aumentare l’efficienza
della pubblica amministrazione, più della visita fiscale per chi ha 37 di
febbre. La corruzione contribuisce ad aumentare il costo delle opera pubbliche e
la gestione della burocrazia, inoltre genera un circolo vizioso che coinvolge
il privato inefficiente selezionando le imprese peggiori per l’adempimento
degli appalti. Aperta la porta alle corruttele è naturale che la criminalità
organizzata ne approfitti entrando di fatto nel meccanismo di gestione degli
enti pubblici.
La politica di gestione
del settore pubblico fatta esclusivamente di tagli, oltre a
disincentivare i settori virtuosi, deprime l’economia. Quando i tagli
colpiscono cultura e beni artistici si contribuisce al depauperamento dell’unico
patrimonio non riproducibile che il paese possiede contribuendo ad accelerare
le dinamiche depressive già in atto (a questo punto anche in termini di
competenze).
Dismettere parti del
patrimonio pubblico, senza aver definito con chiarezza un piano per
valorizzarne la parte restante, potrebbe essere un palliativo utile solo a
respirare per pochi mesi.
Conclusioni.
Le politiche economiche
hanno effetti positivi o negativi su un sistema economico a seconda che riescano
ad incidere su quelli che sono i problemi, analogamente alla risposta che un
organismo umano ha rispetto all’assunzione di un farmaco. Nell’attuale momento
storico e nell’attuale condizione economica italiana sono utili politiche che
incrementino i consumi interni e gli investimenti. Non hanno senso ulteriori
tagli della spesa, è possibile agire nello specifico di riduzioni mirate di
spesa improduttiva a patto che il risparmio sia speso immediatamente e per
intero in un altro settore. Non ha senso prorogare in eterno forme di cassa
integrazione per aziende dismesse, si deve passare ad un sistema di
redistribuzione del lavoro nelle aziende vitali e reddito minimo per i
lavoratori espulsi dal mercato. Non ha senso dismettere il patrimonio pubblico
a meno che il ricavato non venga investito, se il ricavato viene utilizzato per
ridurre il debito le condizioni di solvibilità dell’Italia miglioreranno nel
breve periodo e peggioreranno nel lungo. Bisogna sostenere il tessuto
imprenditoriale attraverso riduzioni di oneri e burocrazia senza interferire
nell’allocazione spaziale delle imprese. Bisogna intervenire con un piano
straordinario di lotta alla corruzione sia nel pubblico che nel rapporto
pubblico-privato. Piccoli interventi di spostamento di capitolati
insignificanti, come quelli che si profilano oggi, non avranno alcun impatto
sull’attuale dinamica economica italiana.
venerdì 14 giugno 2013
I Tassi d'Interesse e la confusione che regna sovrana
Salvatore Perri
Il differenziale fra tassi d'interesse sui titoli di stato italiani e tedeschi e' balzato negli ultimi mesi agli onori della cronaca additato come indicatore del potenziale disastro economico imminente. La divaricazione dei tassi ha sicuramente implicazioni problematiche ma esse riguardano principalmente il razionamento del credito verso le imprese e non, come erroneamente si crede, una ipotetica impossibilita' di rifinanziare il debito.
Il ruolo del famigerato "spread" fra i tassi d'interesse sul debito e' diventato nell'opinione pubblica mutevole non meno delle personali sensazioni climatiche. Lo stesso e' passato dall'essere una variabile in grado di determinare la fine di un governo, all'essere un'invenzione della stampa. E' indiscutibile che un aumento dei tassi d'interessi sul debito pubblico (enorme come quello italiano) abbia implicazioni importanti sui conti dello stato, ignorarlo o far finta che non esista, come fosse l'incubo in cui si viene inseguiti dai fantasmi, non ne aiuta certamente la comprensione.
Tuttavia, alcuni degli effetti di un aumento dei tassi sono quotidianamente male interpretati, creando allarmismo immotivato verso il rifinanziamento del debito ed oscurando completamente i veri effetti negativi che riguardano fondamentalmente il settore privato e le proprie possibilita' di accedere finanziamento bancario.
Se i tassi di interesse sul debito aumentano quali sono le reali conseguenze?
In primo luogo, contrariamente a quello che quotidianamente si dice, aumentano le possibilita' che lo stato ha di piazzare i suoi titoli sul mercato. La ragione e' palese, un piu' alto rendimento e' piu' appetibile di uno basso. Si dice che il rischio aumenta, ma quale rischio? E' possibile ipotizzare che lo stato non onori i suoi debiti? L'Italia possiede un patrimonio inestimabile, puo' imporre le tasse e se cio' non bastasse potrebbe consolidare il debito spostando le scadenze (come avvenne in periodi oscuri della nostra storia). Come i finlandesi che volevano il Partenone in garanzia a copertura del debito greco, l'Italia potrebbe offrire il Colosseo piuttosto che vendere la Sardegna (come in un celebre pezzo di Corrado Guzzanti in veste di Tremonti).
Aldila' delle esagerazioni, i titoli del debito italiano rappresentano un "asset" relativamente certo, pertanto se ne aumenta il rendimento e' naturale che i titoli si vendano sempre, i giornalisti si stupiscono che cio' accada con la stessa forza con cui io mi stupisco che loro si stupiscano.
Il problema nasce dopo, se gli interessi sui titoli del debito pubblico aumentano essi "spiazzano" una quota degli investimenti privati. Supponiamo un tasso sui titoli annuo al 5%, gli imprenditori privati dovranno offrire agli investitori un tasso superiore per convincerli ad investire sull'impresa anziche' in titoli di stato. Qualunque garanzia l'impresa offra sara' sempre inferiore a quella offerta dallo stato.
Di conseguenza le imprese dovrebbero poter conseguire profitti enormi per ripagare i prestiti, in tempi di crisi questo diventa complicato, ma abbiamo ancora un altro problema, questo si peculiare alla condizione italiana: le banche.
Nel momento esatto in cui le banche ricevono liquidita' dalla BCE esse si trovano di fronte alla scelta su come investire questo denaro al fine di massimizzare i profitti, quindi effettuano la stessa scelta che effettuerebbe un investitore privato, ovvero, comprare titoli di stato anziche' finanziare le imprese.
Anche in questo caso stupirsi non serve a niente, le banche non sono enti mutualistici caritatevoli, inseguono profitti, quindi meglio il certo dell'incerto, male che vada lo stato aumenterebbe le tasse oppure dismetterebbe investimenti pur di rimborsare i titoli a scadenza.
In conclusione, lo "spread" da osservare e' quello tra i rendimenti dei titoli di stato ed i rendimenti medi delle aziende italiane. Un aumento dei tassi sul debito facilita la collocazione dei titoli, ma riduce le possibilita' delle imprese di essere finanziate. Inoltre il fatto che siano le banche a finanziare il debito comporta un trasferimento di risorse dai cittadini al settore finanziario amplificando gli effetti recessivi della crisi.
Il differenziale fra tassi d'interesse sui titoli di stato italiani e tedeschi e' balzato negli ultimi mesi agli onori della cronaca additato come indicatore del potenziale disastro economico imminente. La divaricazione dei tassi ha sicuramente implicazioni problematiche ma esse riguardano principalmente il razionamento del credito verso le imprese e non, come erroneamente si crede, una ipotetica impossibilita' di rifinanziare il debito.
Il ruolo del famigerato "spread" fra i tassi d'interesse sul debito e' diventato nell'opinione pubblica mutevole non meno delle personali sensazioni climatiche. Lo stesso e' passato dall'essere una variabile in grado di determinare la fine di un governo, all'essere un'invenzione della stampa. E' indiscutibile che un aumento dei tassi d'interessi sul debito pubblico (enorme come quello italiano) abbia implicazioni importanti sui conti dello stato, ignorarlo o far finta che non esista, come fosse l'incubo in cui si viene inseguiti dai fantasmi, non ne aiuta certamente la comprensione.
Tuttavia, alcuni degli effetti di un aumento dei tassi sono quotidianamente male interpretati, creando allarmismo immotivato verso il rifinanziamento del debito ed oscurando completamente i veri effetti negativi che riguardano fondamentalmente il settore privato e le proprie possibilita' di accedere finanziamento bancario.
Se i tassi di interesse sul debito aumentano quali sono le reali conseguenze?
In primo luogo, contrariamente a quello che quotidianamente si dice, aumentano le possibilita' che lo stato ha di piazzare i suoi titoli sul mercato. La ragione e' palese, un piu' alto rendimento e' piu' appetibile di uno basso. Si dice che il rischio aumenta, ma quale rischio? E' possibile ipotizzare che lo stato non onori i suoi debiti? L'Italia possiede un patrimonio inestimabile, puo' imporre le tasse e se cio' non bastasse potrebbe consolidare il debito spostando le scadenze (come avvenne in periodi oscuri della nostra storia). Come i finlandesi che volevano il Partenone in garanzia a copertura del debito greco, l'Italia potrebbe offrire il Colosseo piuttosto che vendere la Sardegna (come in un celebre pezzo di Corrado Guzzanti in veste di Tremonti).
Aldila' delle esagerazioni, i titoli del debito italiano rappresentano un "asset" relativamente certo, pertanto se ne aumenta il rendimento e' naturale che i titoli si vendano sempre, i giornalisti si stupiscono che cio' accada con la stessa forza con cui io mi stupisco che loro si stupiscano.
Il problema nasce dopo, se gli interessi sui titoli del debito pubblico aumentano essi "spiazzano" una quota degli investimenti privati. Supponiamo un tasso sui titoli annuo al 5%, gli imprenditori privati dovranno offrire agli investitori un tasso superiore per convincerli ad investire sull'impresa anziche' in titoli di stato. Qualunque garanzia l'impresa offra sara' sempre inferiore a quella offerta dallo stato.
Di conseguenza le imprese dovrebbero poter conseguire profitti enormi per ripagare i prestiti, in tempi di crisi questo diventa complicato, ma abbiamo ancora un altro problema, questo si peculiare alla condizione italiana: le banche.
Nel momento esatto in cui le banche ricevono liquidita' dalla BCE esse si trovano di fronte alla scelta su come investire questo denaro al fine di massimizzare i profitti, quindi effettuano la stessa scelta che effettuerebbe un investitore privato, ovvero, comprare titoli di stato anziche' finanziare le imprese.
Anche in questo caso stupirsi non serve a niente, le banche non sono enti mutualistici caritatevoli, inseguono profitti, quindi meglio il certo dell'incerto, male che vada lo stato aumenterebbe le tasse oppure dismetterebbe investimenti pur di rimborsare i titoli a scadenza.
In conclusione, lo "spread" da osservare e' quello tra i rendimenti dei titoli di stato ed i rendimenti medi delle aziende italiane. Un aumento dei tassi sul debito facilita la collocazione dei titoli, ma riduce le possibilita' delle imprese di essere finanziate. Inoltre il fatto che siano le banche a finanziare il debito comporta un trasferimento di risorse dai cittadini al settore finanziario amplificando gli effetti recessivi della crisi.
lunedì 29 aprile 2013
L’austerità espansiva e la buonanima di Pigou.
Salvatore
Perri
Abstract
Coloro
che si ostinano a chiedere la fine dell’austerità, rivelatasi inefficace,
vengono spesso accusati di assumere posizioni ideologiche irrazionali. In
realtà i basamenti teorici su cui si fondano le recenti politiche economiche
europee sono fragilissimi. Attendersi la crescita dall’austerità e dalla
depressione economica appare oggi irrealistico, almeno quanto lo è stato nel
passato.
Le ultime vicissitudini del governo Monti, i dati
terrificanti sulla produzione, sul livello di attività economica e soprattutto sulla
disoccupazione, mettono in discussione i fondamenti teorici (classici e
neoclassici) delle politiche economiche adottate, decretando il fallimento dell’austerità
come soluzione alla crisi.
Mi sono già soffermato nei miei precedenti articoli (in
tempi non sospetti) sull’inefficacia delle politiche di austerità, in
particolare, spiegando l’assenza di un qualsiasi legame (anche ipotetico) fra
riduzione della spesa ed aumento degli investimenti, sull’inefficacia dei tagli
alla spesa per ridurre il debito e sull’inefficacia delle azioni sul mercato
del lavoro per rilanciare l’occupazione.
Semplificando, in primo luogo, non è detto che una
riduzione del debito comporti un miglioramento della posizione relativa dell’Italia
in termini di attrattività degli investimenti privati (nazionali ed esteri).
Una parte consistente degli investimenti non dipende dal tasso di interesse
(investimenti autonomi), bensì dalle prospettive di profitto che in Italia sono
calate drasticamente dalla fine degli anni ’70.
Secondariamente, una riduzione della spesa pubblica
è immediatamente recessiva, sia nel primo periodo che, cumulativamente, in
quelli a seguire. Di conseguenza il Pil tende a ridursi in tutti i periodi e
paradossalmente il debito continua ad aumentare nonostante i tagli.
In ultimo, ma non per importanza, le c.d. “riforme” del mercato del lavoro hanno
aumentato la disoccupazione anziché ridurla per il semplice motivo che un
sistema economico afflitto dalla presenza del lavoro sommerso e dalle molteplici
forme flessibili di contratto, difficilmente può essere riequilibrato con
ulteriori flessibilizzazioni del mercato. Soprattutto in piena recessione
economica quando le imprese licenziano e non assumono.
In sostanza “l’austerità espansiva” ci ha regalato
conti “apparentemente” in ordine (appesi ad un filo) in cambio di meno consumi,
più disoccupazione e più debito.
Ma non è finita qui, il substrato teorico delle
politiche neoclassiche e monetariste che ha guidato la BCE ed il governo Monti
include anche un principio ancora più radicale, il c.d. “Effetto Pigou”.
Secondo questo classico pre-keynesiano la
disoccupazione e la deflazione avrebbero avuto un freno automatico in qualunque
sistema economico, che magicamente sarebbe ritornato a crescere per effetto di
due fattori.
In primis, la disoccupazione avrebbe generato una
riduzione dei salari che avrebbe reso il lavoro meno costoso spingendo le
imprese ad assumere.
In secondo luogo la caduta dei prezzi avrebbe
aumentato il potere d’acquisto della moneta spingendo i consumatori ad
acquistare più merci.
L’insieme di questi due effetti sarebbero in grado
di ripristinare la crescita.
Il primo ostacolo importante a queste mirabolanti
affermazioni si ritrova nella crisi del ’29, quando i prezzi calarono la
disoccupazione negli USA toccò i suoi massimi ed il sistema economico continuò
a precipitare. In pratica, gli imprenditori spaventati non investirono, a causa
dell’assenza di prospettive di profitto, le aziende continuarono a chiudere
licenziando, e le merci semplicemente scomparvero dai mercati, quindi nessuno
dei due effetti entrò mai in funzione.
Il capitalismo fù salvato dall’intervento statale e
dalle politiche espansive, ma questa è storia nota.
Oggi l’effetto Pigou potrebbe manifestarsi? I suoi
sostenitori osservano che la disoccupazione era determinata dalle “innaturali”
leggi sul salario minimo e dall’art. 18. Rimossi questi vincoli i miracoli sarebbero
possibili.
Purtroppo non è così, per le identiche ragioni che
decretarono la fine dell’economia classica dopo il ’29 statunitense.
Meno salari comportano meno consumi, meno reddito,
meno produzione. Le aziende chiudono e chi detiene ricchezza speculativa non
investe perché non ci sono prospettive di profitto. Nel frattempo che si
attendono i miracoli il capitale inutilizzato (capannoni, macchine, abilità dei
lavoratori) si deprezza rendendone ancora più complicato il ripristino.
Uno straordinario saggio di Keynes, ancora
attualissimo, parlava dell’assurdità dei sacrifici.
Speriamo di non dovere pagare ancora a lungo la
cieca obbedienza dei decisori delle politiche economiche alla speranza della
risurrezione di Pigou.
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