Oggi un mio pezzo su La Voce.info
http://www.lavoce.info/archives/35990/il-prezzo-da-pagare-per-la-tragedia-greca/
L’austerità ha fallito, lo dice anche l’Fmi. E la dimostrazione è la
Grecia. Ma se si arrivasse al default, i paesi europei sarebbero
direttamente coinvolti. La scelta è ora fra piccoli sacrifici
distribuiti fra tutti gli europei o un prezzo molto alto per il popolo
greco oggi e per noi domani.
Tra austerità e default
Il referendum greco sull’accordo di salvataggio è solo l’ultimo di una
serie di tentativi del governo Tsipras di evitare ulteriori misure di
austerità al suo popolo. Se è una strada giusta o sbagliata, nessuno può
saperlo. Alcune cose però si sanno ed è meglio dirle, prima che sia
troppo tardi.
L’austerità ha fallito. Finché a dirlo era solo una parte dell’accademia
considerata a torto o ragione “eterodossa”, il tema poteva essere fonte
di discussione, ma quando uno studio in tal senso arriva direttamente
dal Fondo monetario internazionale a firma Olivier Blanchard e Daniel Leigh,
si può tranquillamente prenderla come una considerazione definitiva. Le
“riforme” chieste alla Grecia hanno accentuato gli effetti della crisi,
poiché una politica fatta di tagli alla spesa, senza un programma di
riforme favorevoli alla ripresa, finisce per ridurre i consumi interni
proprio delle fasce sociali che consumano una porzione maggiore del
proprio reddito. Di conseguenza, la riduzione del prodotto interno lordo
greco ha fatto aumentare il peso del debito in termini relativi,
dinamica illustrata da Marianna Mazzucato
e in atto anche per l’Italia, che nonostante la riforma pensionistica
ha visto crescere costantemente il rapporto debito/Pil negli anni
seguenti l’inizio della crisi.
Il default è un’opzione? In queste ore in Grecia si avvertono i primi
segni dell’eventuale insolvenza. Dalle file agli sportelli bancari, alla
carenza di farmaci nonché di tutti i beni importati in genere. Le
conseguenze di diventare un debitore insolvente sono gravi e immediate, a
cominciare dall’impossibilità di avere nuove linee di credito, il che
comporta immediatamente la difficoltà di approvvigionamento delle merci
importate (tra le quali le materie prime, petrolio e gas).
Successivamente, vista la crisi di liquidità, senza accordo, la Grecia
dovrebbe necessariamente ricorrere a forme alternative di emissione
valutaria creando, di fatto, un sistema a doppia circolazione, in cui la nuova
dracma verrebbe usata solo all’interno, mentre gli euro sarebbero usati
come bene rifugio (nella più classica applicazione della legge di
Gresham, secondo cui la moneta “cattiva scaccia quella buona”).
Le conseguenze di un tale caos si estenderebbero a tutta l’Europa,
attraverso i mancati pagamenti della Grecia ai paesi creditori, ma
colpirebbero prioritariamente proprio le classi meno abbienti del popolo
greco. Inoltre, ogni forma di evento “destabilizzante” provocherebbe
una crisi di fiducia e minerebbe la stabilità dell’intera area, dando
fiato agli attacchi dei fondi finanziari speculativi.
Chi sono i creditori della Grecia
Chi detiene il debito greco? La sua distribuzione, come ricostruita da Paolo Cardenà,
vede come maggiori creditori le istituzioni internazionali: addirittura
il 60 per cento è in mano proprio all’UE (attraverso i fondi Efsf di
stabilità e del fondo “salva stati” Esm), mentre solo il 12 per cento
sarebbe nelle mani dell’Fmi, in questo momento il più intransigente nei
confronti della Grecia. Nell’articolo, si evidenzia come i paesi europei
siano “realmente” coinvolti nell’eventuale default (Germania, Francia e
Italia con 146 miliardi al gennaio 2015)
e come questo trasferimento di proprietà del debito abbia avuto una
dinamica veramente singolare: in pratica le banche private dei paesi
europei hanno scaricato sugli stati, e sulla Bce, il peso del debito
greco dal 2009 a oggi.
In altre parole, il salvataggio della Grecia, anziché salvare il paese,
ha legato a filo doppio il destino dei greci a quello degli altri
europei. Fosse fallita nel 2009, la Grecia avrebbe fatto fallire le
banche europee, trasmettendo lo shock alle economie reali; oggi, un
default di Atene costringerebbe Italia, Francia e Germania direttamente a
manovre correttive di bilancio.
Scenari inquietanti
Cosa si può fare ora? Lo scenario è inquietante, le conseguenze a
breve termine di un default greco potrebbero essere pesantissime e per
questo un accordo deve essere trovato. Ma quale accordo? È impossibile
prendere in considerazione l’ipotesi che siano gli stati europei a
pagare, visto che per esempio l’equilibrio dei conti pubblici italiani
già così è a rischio. Dunque, un piano di salvataggio dovrebbe partire
da alcuni presupposti ineludibili:
1) La riduzione del debito, attraverso uno storno della quota degli
interessi dovuti agli investitori internazionali, proprio quella che ha
autoalimentato il debito negli ultimi anni (attraverso un accordo che
veda come interlocutore l’Unione Europea e non la sola Grecia);
2) La Bce dovrebbe rilevare la quota detenuta dall’Fmi, anche questo
con un accordo “al ribasso” dato che, per ammissione stessa dell’Fmi, le
“riforme” imposte alla Grecia, in cambio dei prestiti, erano errate.
3) Un piano d’investimenti straordinari in Grecia, ma anche una
riformulazione delle richieste, che consideri la necessità di protezione
sociale per le classi meno abbienti (andando verso una convergenza dei
parametri economici anziché esclusivamente dei vincoli finanziari) in
cambio, ad esempio, delle riforme pensionistiche. Si ricordi che sono
proprio Grecia e Italia i due paesi più carenti in questo senso.
È evidente che queste misure avrebbero un costo, anche in termini
d’inflazione, visto che la Bce dovrebbe rompere il dogma del divieto di
politiche espansive. Allo stesso tempo si dovrebbe archiviare
definitivamente il mito dell’austerità espansiva, che si è rivelata
inutile e dannosa come sottolineato più volte anche da Paul Krugman.
In conclusione, la scelta dell’Europa e della Grecia non è quella fra
euro e dracma, tra Alexis Tsipras e Angela Merkel, tra democrazia e
autocrazia, quanto fra piccoli sacrifici distribuiti fra tutti i paesi
europei ed enormi sacrifici per il popolo greco oggi (e per noi domani).
martedì 7 luglio 2015
mercoledì 13 maggio 2015
Il Reddito di Base in Italia. Intendimenti e fraintendimenti.
Oggi sul BIN Italia http://www.bin-italia.org/article.php?id=2012
di Salvatore Perri
Nel proseguo del dibattito su una qualsiasi forma di reddito di base da introdurre in Italia aumentano i contributi ma si moltiplica anche la confusione, pertanto è utile continuare a ragionare sui fraintendimenti piu' comuni, sia che arrivino dal mondo istituzionale sia che vengano da ambienti accademici e giornalistici.
Quale forma di reddito di base? Su questo punto c'è molta confusione.
Il punto fondamentale è distribuire diversamente il reddito dalla fiscalità generale, non redistribuire (quindi togliere a qualcuno per dare a qualcun altro). La questione non è semantica, nel bilancio dello stato ci sono mille rivoli, inclusi gli sgravi fiscali, gli ammortizzatori sociali (spesso in deroga) e trasferimenti piu' o meno giustificabili, si tratterebbe di prevedere il reddito di base o il reddito minimo venga scorporato "prima" di arrivare alle voci successive. Le varie forme di reddito di base vanno da quello universale rivolto a tutti (Basic Income) fino a forme di reddito minimo garantito (RMG) che tendono ad "integrare" altri redditi fino al raggiungimento della soglia di povertà relativa. E' chiaro che quello che si potrà fare dipenderà, anche, dalla situazione dei conti pubblici italiani.
Lavoro e reddito? Non torno negli stessi termini su questioni già affrontate, ma è evidente che, da qualunque punto di vista la si consideri, nelle società moderne e postmoderne non ci sarà lavoro per tutti, anche per via del progresso tecnologico e della globalizzazione economica, ma soprattutto perché è esistita da sempre una quota di "disoccupazione ineliminabile". Le ragioni sono contemplate in qualunque manuale macroeconomico. Alcuni disoccupati non sono compatibili con le attuali qualifiche richieste nel mondo del lavoro, e non parlo di metalmeccanici che dovrebbero imparare un particolare software, ma dell'analfabetismo di rientro che ormai colpisce un buon numero di giovani adulti che abbandonano la scuola o conseguono diplomi "una tantum" dallo scarso valore culturale. Altri disoccupati sono incompatibili territorialmente con i lavori offerti oppure fanno lavori che sono esclusivamente stagionali (agricoltura, turismo etc.). Inoltre esiste sempre un periodo di "vacanza" tra la vecchia e la nuova occupazione per chi perde un lavoro. Va da se che ogni economista degno di questo nome si sia cimentato a studiare il c.d. Tasso Naturale di disoccupazione, che è quello che si osserva durante i periodi di pieno impiego (vero o ipotetico). Questo valore varia nel tempo, ma esiste sempre, dal 6% al 7% al 12% (i piu' radicali sono i teorici del c.d. Real Business Cycle), è comunque una quantità enorme. Di questi disoccupati cosa si fa? Si assume che siano antropologicamente inferiori perché non hanno trovato lavoro? Oppure si creano miriadi di corsi di formazione inutili e costosi che non hanno creato un solo posto di lavoro? Offrire una forma di reddito a queste persone le rende nuovamente "produttive" seppur in modo indiretto, in quanto sarebbero in grado di "giustificare" una parte delle merci prodotte dal sistema economico (il che combatte la caduta della produzione), potrebbero dedicarsi alla cura di se stessi, anche perseguendo percorsi culturali, artistici, potrebbero dedicarsi alla cura delle persone vicine o potrebbero dedicarsi a forme di volontariato sociale, ma allo stesso tempo condurrebbero una vita dignitosa ed indipendente.
Lavoro o reddito? L'alternativa "lavorista" è quella che vuole necessariamente che chi riceve un reddito vada a fare un lavoro deciso centralisticamente, spesso inutile, ma che comunque (non si capisce bene secondo chi) darebbe maggiore dignità al reddito. Partendo dal presupposto che tali "lavori" andrebbero "organizzati" dando fiato ai peggiori istinti della burocrazia italiana, l'esperienza degli LSU ed LPU ha chiarito che in Italia queste cose non funzionano, perché burocrazia e politica si inseriscono nelle varie fasi di questo percorso rendendo questi lavori piu' virtuali del reddito di base. In piu' queste forme di lavoro sussudiato sono "selettive" ma spesso senza criterio, per cui sono proprio idonee a fomentare forme distorsive e clientelari che con il reddito di base ci si propone di combattere.
Pago adesso o pago dopo? Altra questione è che una forma di reddito di base è vista come "improduttiva" come premio all'ozio oppure addirittura come disincentivo al lavoro. A parte che i primi esperimenti condotti da Guy Standings in villaggi africani ed indiani dicono il contrario, e cioè che chi riceve il reddito lavora di piu', siamo sicuri che una tal misura deprimerebbe la produzione? In primo luogo non stiamo parlando di redditi enormi, le varie proposte vanno da 600 euro mensili a 720, di conseguenza il soggetto ricevente che ambisce a qualcosa di piu' continuerebbe a cercare lavoro per integrare. Ma supponiamo che il ricevente consideri sufficiente il reddito di base e non cerchi lavoro. Sicuramente il soggetto consumerebbe gran parte se non tutto il reddito ricevuto (il consumo è decrescente rispetto al reddito, una delle poche realtà incontrovertibili della teoria economica). Pertanto egli "rimetterebbe in circolo" quanto ricevuto in via istantanea, rianimando l'economia circostante. Ricordiamo che Italia e Grecia, che non avevano un reddito di base, sono gli stati che fanno piu' fatica ad uscire dalla crisi. Inoltre, avere o non avere reddito, influisce sulla qualità della vita di questi soggetti, stress e cattiva alimentazione possono contribuire all'insorgere di patologie, che scaricherebbero comunque sullo stato, a costi maggiori, visto che la sanità in Italia è pubblica. Tra gli altri effetti indiretti ci sarebbe quello di garantire un minimo di coesione sociale anche nei piccoli centri che continuano a spopolarsi, appunto per l'assenza di opportunità di lavoro.
Libertà e legalità. La disoccupazione è un bacino elettorale storicamente irrinunciabile, un reddito di base libererebbe molti elettori dal vincolo di cercare il referente politico (o sindacale) di turno. Inoltre collegando il reddito di base al godimento dei diritti civili e politici si darebbe un forte disincentivo alla criminalità, in quanto tra il vivere legalmente e non, il discriminante molto spesso è proprio il reddito. Altro fattore dirimente è lo sfruttamento del lavoro nero, chi possiede il reddito chiederebbe lavori tutelati dalla legge, non essendo piu' sottomesso allo sfruttamento di quella minoranza di imprenditori sconosciuti al fisco. Questo riequilibrerebbe anche i rapporti fra le imprese, in quanto quelle che fanno concorrenza sleale a basso costo sarebbero svantaggiate nel trovare manodopera.
Ci sono le risorse? Il dibattito sull'adeguamento delle pensioni all'inflazione e la recente sentenza della Consulta, chiarisce questo punto in maniera definitiva. Il blocco all'adeguamento delle pensioni per quelle superiori a 1400 euro mensili valeva 16 Miliardi, piu' o meno quanto servirebbe per una forma intermedia di reddito minimo. Pur supponendo che il governo debba restituire una parte di questi soldi, appare chiaro che rimodulando proprio le pensioni piu' alte (sfruttando il principio costituzionale della "progressività delle imposte"), e mettendo ordine nella giungla degli attuali ammortizzatori in deroga (spesso elargite verso aziende che mai hanno prodotto nulla, e che oggi vedono i lavoratori percepire la cassa integrazione in deroga e magari lavorando in nero) le risorse potrebbero essere reperite, senza che questo determini necessariamente lo sforamento dei vincoli di bilancio.
In conclusione, una forma di reddito di base, oltre ad essere un segno di civiltà: è produttivo economicamente, è conveniente finanziariamente, favorisce la lotta alla criminalità organizzata ed al lavoro nero, combatte la corruzione, favorisce la "ricostruzione" del tessuto sociale attraverso la spinta all'inclusione di soggetti ad oggi emarginati.
di Salvatore Perri
Nel proseguo del dibattito su una qualsiasi forma di reddito di base da introdurre in Italia aumentano i contributi ma si moltiplica anche la confusione, pertanto è utile continuare a ragionare sui fraintendimenti piu' comuni, sia che arrivino dal mondo istituzionale sia che vengano da ambienti accademici e giornalistici.
Quale forma di reddito di base? Su questo punto c'è molta confusione.
Il punto fondamentale è distribuire diversamente il reddito dalla fiscalità generale, non redistribuire (quindi togliere a qualcuno per dare a qualcun altro). La questione non è semantica, nel bilancio dello stato ci sono mille rivoli, inclusi gli sgravi fiscali, gli ammortizzatori sociali (spesso in deroga) e trasferimenti piu' o meno giustificabili, si tratterebbe di prevedere il reddito di base o il reddito minimo venga scorporato "prima" di arrivare alle voci successive. Le varie forme di reddito di base vanno da quello universale rivolto a tutti (Basic Income) fino a forme di reddito minimo garantito (RMG) che tendono ad "integrare" altri redditi fino al raggiungimento della soglia di povertà relativa. E' chiaro che quello che si potrà fare dipenderà, anche, dalla situazione dei conti pubblici italiani.
Lavoro e reddito? Non torno negli stessi termini su questioni già affrontate, ma è evidente che, da qualunque punto di vista la si consideri, nelle società moderne e postmoderne non ci sarà lavoro per tutti, anche per via del progresso tecnologico e della globalizzazione economica, ma soprattutto perché è esistita da sempre una quota di "disoccupazione ineliminabile". Le ragioni sono contemplate in qualunque manuale macroeconomico. Alcuni disoccupati non sono compatibili con le attuali qualifiche richieste nel mondo del lavoro, e non parlo di metalmeccanici che dovrebbero imparare un particolare software, ma dell'analfabetismo di rientro che ormai colpisce un buon numero di giovani adulti che abbandonano la scuola o conseguono diplomi "una tantum" dallo scarso valore culturale. Altri disoccupati sono incompatibili territorialmente con i lavori offerti oppure fanno lavori che sono esclusivamente stagionali (agricoltura, turismo etc.). Inoltre esiste sempre un periodo di "vacanza" tra la vecchia e la nuova occupazione per chi perde un lavoro. Va da se che ogni economista degno di questo nome si sia cimentato a studiare il c.d. Tasso Naturale di disoccupazione, che è quello che si osserva durante i periodi di pieno impiego (vero o ipotetico). Questo valore varia nel tempo, ma esiste sempre, dal 6% al 7% al 12% (i piu' radicali sono i teorici del c.d. Real Business Cycle), è comunque una quantità enorme. Di questi disoccupati cosa si fa? Si assume che siano antropologicamente inferiori perché non hanno trovato lavoro? Oppure si creano miriadi di corsi di formazione inutili e costosi che non hanno creato un solo posto di lavoro? Offrire una forma di reddito a queste persone le rende nuovamente "produttive" seppur in modo indiretto, in quanto sarebbero in grado di "giustificare" una parte delle merci prodotte dal sistema economico (il che combatte la caduta della produzione), potrebbero dedicarsi alla cura di se stessi, anche perseguendo percorsi culturali, artistici, potrebbero dedicarsi alla cura delle persone vicine o potrebbero dedicarsi a forme di volontariato sociale, ma allo stesso tempo condurrebbero una vita dignitosa ed indipendente.
Lavoro o reddito? L'alternativa "lavorista" è quella che vuole necessariamente che chi riceve un reddito vada a fare un lavoro deciso centralisticamente, spesso inutile, ma che comunque (non si capisce bene secondo chi) darebbe maggiore dignità al reddito. Partendo dal presupposto che tali "lavori" andrebbero "organizzati" dando fiato ai peggiori istinti della burocrazia italiana, l'esperienza degli LSU ed LPU ha chiarito che in Italia queste cose non funzionano, perché burocrazia e politica si inseriscono nelle varie fasi di questo percorso rendendo questi lavori piu' virtuali del reddito di base. In piu' queste forme di lavoro sussudiato sono "selettive" ma spesso senza criterio, per cui sono proprio idonee a fomentare forme distorsive e clientelari che con il reddito di base ci si propone di combattere.
Pago adesso o pago dopo? Altra questione è che una forma di reddito di base è vista come "improduttiva" come premio all'ozio oppure addirittura come disincentivo al lavoro. A parte che i primi esperimenti condotti da Guy Standings in villaggi africani ed indiani dicono il contrario, e cioè che chi riceve il reddito lavora di piu', siamo sicuri che una tal misura deprimerebbe la produzione? In primo luogo non stiamo parlando di redditi enormi, le varie proposte vanno da 600 euro mensili a 720, di conseguenza il soggetto ricevente che ambisce a qualcosa di piu' continuerebbe a cercare lavoro per integrare. Ma supponiamo che il ricevente consideri sufficiente il reddito di base e non cerchi lavoro. Sicuramente il soggetto consumerebbe gran parte se non tutto il reddito ricevuto (il consumo è decrescente rispetto al reddito, una delle poche realtà incontrovertibili della teoria economica). Pertanto egli "rimetterebbe in circolo" quanto ricevuto in via istantanea, rianimando l'economia circostante. Ricordiamo che Italia e Grecia, che non avevano un reddito di base, sono gli stati che fanno piu' fatica ad uscire dalla crisi. Inoltre, avere o non avere reddito, influisce sulla qualità della vita di questi soggetti, stress e cattiva alimentazione possono contribuire all'insorgere di patologie, che scaricherebbero comunque sullo stato, a costi maggiori, visto che la sanità in Italia è pubblica. Tra gli altri effetti indiretti ci sarebbe quello di garantire un minimo di coesione sociale anche nei piccoli centri che continuano a spopolarsi, appunto per l'assenza di opportunità di lavoro.
Libertà e legalità. La disoccupazione è un bacino elettorale storicamente irrinunciabile, un reddito di base libererebbe molti elettori dal vincolo di cercare il referente politico (o sindacale) di turno. Inoltre collegando il reddito di base al godimento dei diritti civili e politici si darebbe un forte disincentivo alla criminalità, in quanto tra il vivere legalmente e non, il discriminante molto spesso è proprio il reddito. Altro fattore dirimente è lo sfruttamento del lavoro nero, chi possiede il reddito chiederebbe lavori tutelati dalla legge, non essendo piu' sottomesso allo sfruttamento di quella minoranza di imprenditori sconosciuti al fisco. Questo riequilibrerebbe anche i rapporti fra le imprese, in quanto quelle che fanno concorrenza sleale a basso costo sarebbero svantaggiate nel trovare manodopera.
Ci sono le risorse? Il dibattito sull'adeguamento delle pensioni all'inflazione e la recente sentenza della Consulta, chiarisce questo punto in maniera definitiva. Il blocco all'adeguamento delle pensioni per quelle superiori a 1400 euro mensili valeva 16 Miliardi, piu' o meno quanto servirebbe per una forma intermedia di reddito minimo. Pur supponendo che il governo debba restituire una parte di questi soldi, appare chiaro che rimodulando proprio le pensioni piu' alte (sfruttando il principio costituzionale della "progressività delle imposte"), e mettendo ordine nella giungla degli attuali ammortizzatori in deroga (spesso elargite verso aziende che mai hanno prodotto nulla, e che oggi vedono i lavoratori percepire la cassa integrazione in deroga e magari lavorando in nero) le risorse potrebbero essere reperite, senza che questo determini necessariamente lo sforamento dei vincoli di bilancio.
In conclusione, una forma di reddito di base, oltre ad essere un segno di civiltà: è produttivo economicamente, è conveniente finanziariamente, favorisce la lotta alla criminalità organizzata ed al lavoro nero, combatte la corruzione, favorisce la "ricostruzione" del tessuto sociale attraverso la spinta all'inclusione di soggetti ad oggi emarginati.
martedì 18 novembre 2014
How EU-inspired Big Banking has deepened Italy’s North-South divide
English version of my last article is available there: http://revolting-europe.com/2014/11/14/how-eu-inspired-big-banking-has-fed-italys-north-south-divide/
Thanks to Tom Gill and Revolting Europe.
Thanks to Tom Gill and Revolting Europe.
Salvatore Perri*
When it comes to savings among Italian households there is no “cultural” difference between the country’s north and south, figures for the pre-crisis period (1989-2007) [1] show us. Even more suprising is the fact that the southern region of Campania, whose capital is Naples, has seen the highest rate of growth in the number of bank branches. If we interpreted this data solely on the basis of standard economic theory, we should expect a substantial homogeneity in the other financial parameters, but it is not so.
Standard theory tells us saving is the basis of investment, but in the journey that brings wealth there are many variables that are not always controllable, linked to the “macro-economic stability” [2]. When the economy is stable, there is a good deal of certainty in terms of timescales in which to plan investment projects as well as access to finance at affordable rates. On the other hand, where the context is uncertain uncontrollable socio-economic factors mean that investment becomes a gamble.
This appears to be the case in the South, where despite comparable saving rates there are nearly twice as many bad loans as many regions of the north-central [3]. Crime, the size of the informal sector and pervasive corruption at all levels act as elements that can create a distortion of the cash flows. Therefore, it is more difficult to ‘convert’ savings into an investment, at least locally.
In the 8 or so years until the great financial crisis of 2008 Italy enacted a series of “reforms” that led to a concentration in the country’s banking sector. Without getting into specifics, an unleashing of competition led to the merger of banking groups, through mergers and acquisitions and cross-shareholdings. State-led industrial development of the South has also been all but stopped, both in terms of direct investment and through the Cassa per il Mezzogiorno, a regional development agency. Cuts to public funds and structural problems in the real economy have been transmitted to the financial sector, leading to the disappearance of a autonomous financial system in the South [4].
We were led to believe that the reorganization of the banking sector, under the pressure of European regulations, would lead to an improvement in the efficiency of credit allocation, but when you analyze the uneven territorial reality, it can lead to a disappointing territorial selection in the distribution of credit. This is what seems to have happened. The banks have merged, the decision-makers have moved almost entirely to the Centre and North of the country and bank branches spread across the territory of the South remain almost exclusively dedicated to harvesting deposits. Credit is provided to the South, but under much more punishing conditions than in the Centre-North. All this means that in the South higher risk investments are promoted, and these in turn have a lower success rate.
This further fuels the vicious cycle that exacerbates the gap between North and South. With an end to public intervention, government spending is cut and this is significant in explaining regional disparities. We have seen no convergence in terms of growth and the price of improvements to the banking sector have been paid by a further credit crunch to residents in the South.
No action has been taken to tackle the structural conditions of the gap: the inadequacy of the production system, the lack of hard and soft infrastructure, crime, corruption. So those who persist in doing business pay a double penalty, because they pay taxes in line with the national average but when they turn to the credit market they get a response that discriminate geographically. It is against this background that European funds have shown limited effectiveness, though with notable exceptions [5].
The financial sector reflects the reality of the North-South divide, and the resulting risk gap is reflected in credit terms. And if the decision-making centres are located elsewhere it is even more difficult to secure a push to invest in uncertain and risky ventures. The causes of the North-South divide are real and the financial sector reacts to them: any policy response should start from this awareness.
[1] For further information see Gli effetti delle trasformazioni del sistema bancario sulla crescita economica delle regioni italiane”, pubblicato dalla published by Rivista economica del Mezzogiorno (n.1-2 del 2014).
[2] See the paper by Peter L. Rousseau and Paul Wachtel, “Inflation thresholds and the finance-growth nexus” published by the Journal of International Money and Finance (no. 21.6 in 2002).
[3] In this regard, refer to the online data of the Bank of Italy.
[4] On this point, for example, you can see the essay by Alberto Zazzaro, “La scomparsa dei centri decisionali dal sistema bancario meridionale”, in Rivista di politica economica (n. 96.3/5 del 2006).
[5] As reported, among others, by Gianfranco Viesti, for example in http://profgviesti.it/wp-content/uploads/2013/04/2014viestiluongoperstrumentires.pdf.
[5] As reported, among others, by Gianfranco Viesti, for example in http://profgviesti.it/wp-content/uploads/2013/04/2014viestiluongoperstrumentires.pdf.
Salvatore Perri has a PhD in Applied Economics from the University of Calabria. His research interests include economic policy analysis and macroeconomic theory
Translation/edit by Revolting Europe
mercoledì 12 novembre 2014
Le concentrazioni bancarie hanno alimentato il dualismo Nord-Sud
Salvatore
Perri
Oggi su Economia e Politica http://www.economiaepolitica.it/mezzogiorno/le-concentrazioni-bancarie-alimentano-il-dualismo-nord-sud/#.VGMwNWeoeYk
Prendendo in
considerazione il periodo antecedente la crisi (1989-2007)[1]
balza immediatamente agli occhi una sostanziale omogeneità territoriale del
saggio di risparmio delle famiglie italiane: sostanzialmente da Nord a Sud non
esiste una diversità “culturale” nella scelta fra risparmio e consumo. Inoltre,
sorprendentemente, la regione che ha sviluppato il maggior tasso di crescita
del numero di sportelli è la Campania. Se interpretassimo questi dati solamente
sulla base della teoria economica standard, ci dovremmo aspettare una
sostanziale omogeneità anche negli altri parametri finanziari, ma è proprio qui
che i dati ci raccontano un’altra storia.
Sempre secondo la
teoria standard, risparmio è la base dell'investimento, ma nel tragitto che
porta la ricchezza a trasformarsi intercorrono relazioni fra molte variabili,
non sempre controllabili, connesse alla “stabilità macroeconomica”[2].
In un contesto macroeconomicamente stabile, vi è un’orizzonte temporale
relativamente certo in cui pianificare i propri progetti di investimento e
richiedere agli intermediari finanziari le risorse a tassi “possibili”. Per
contro, laddove il contesto è incerto, per l’azione di fattori socio-economici
incontrollabili, l’investimento diventa un azzardo. Questo appare essere il
caso del Sud in cui a fronte di saggi di risparmio omogenei le sofferenze
raggiungono quasi il doppio rispetto alle regioni del centro-nord[3].
Criminalità, settore sommerso, pervasività della corruzione a tutti i livelli
agiscono come elementi in grado di creare una distorsione dei flussi
finanziari. Pertanto il risparmio ha più difficoltà ad essere “convertito” in
investimento, almeno in loco.
Il periodo considerato
è ricco di “riforme” che hanno riguardato il settore Bancario. Senza entrare
nello specifico, la spinta a competere in un mercato aperto ha comportato l’aggregazione
dei gruppi bancari, fusioni acquisizioni e partecipazioni incrociate. Inoltre,
è finita sostanzialmente la spinta diretta dello Stato nell'indirizzare lo
sviluppo industriale del Sud, sia per quanto riguarda gli investimenti diretti
sia per quanto riguarda la via surrogata della Cassa per il Mezzogiorno. Il
ridotto flusso finanziario pubblico e le difficoltà strutturali dell'economia reale
si sono quindi trasmesse al settore finanziario comportando la sostanziale scomparsa
di un sistema finanziario meridionale autonomo[4].
Ci si aspettava che la
riorganizzazione del settore bancario, sotto la spinta delle normative europee,
comportasse un miglioramento nell’efficienza del credito erogato, ma quando si
analizzano realtà territoriali disomogenee il risparmio di costo può
determinare una selezione territoriale deludente nella distribuzione del
credito. Questo è quello che sembra essere avvenuto. Le banche si sono
accorpate, i centri decisionali sono stati spostati pressoché interamente al
Centro-Nord e le filiali distribuite capillarmente nel territorio del Sud
rimangono quasi esclusivamente con la sola funzione di raccolta. Il credito
viene erogato anche al Sud, ma solo a condizioni estreme rispetto al
Centro-Nord. E ciò comporta che si privilegiano al Sud gli investimenti a più
alto coefficiente di rischio, che di conseguenza, hanno una percentuale di riuscita
minore.
Così si è alimentato
ulteriormente il circolo vizioso che acuisce le distanze fra Nord e Sud.
L'intervento pubblico termina, i consumi pubblici diminuiscono e questi ultimi
sono significativi nello spiegare i divari territoriali. La convergenza in
termini di crescita non c’è, i miglioramenti nell’efficienza di costo del
settore bancario sono stati pagati da un’ulteriore stretta creditizia nei
confronti dei residenti nelle regioni del Sud. Non si interviene sulle
condizioni strutturali del divario: l’inadeguatezza dell’apparato produttivo,
l’insufficienza delle infrastrutture materiali e immateriali, la criminalità, la
corruzione. Così chi si ostina a fare impresa riceve una doppia penalizzazione,
perché paga tasse in linea con la media nazionale ma quando si rivolge al
mercato del credito ottiene una risposta discriminata territorialmente. In
questo contesto, anche i fondi europei hanno dimostrato scarsa efficacia,
seppure con lodevoli eccezioni[5].
Il settore finanziario
“subisce” le ragioni reali del dualismo Nord-Sud, e il conseguente divario di
rischiosità, riflettendole nelle condizioni di credito. E se i centri
decisionali sono posizionati altrove risulta ancora più difficile che ci sia
una spinta ad investire sul rischioso e sull'incerto. Le cause del divario Nord-Sud
sono di carattere reale e il settore finanziario le asseconda: per queste
ragioni le risposte politiche dovrebbero partire da questa consapevolezza.
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Sud
martedì 3 giugno 2014
Italy’s economic problems are not caused by the euro, but by the country’s chaotic political system
My point of view about Italy and Euro. Un mio pezzo su Italia ed Euro sul blog della London School of Economics. http://blogs.lse.ac.uk/europpblog/2014/06/03/italys-economic-problems-are-not-caused-by-the-euro-but-by-the-countrys-chaotic-political-system/
Despite some signs of economic recovery in the Eurozone, the Italian economy has continued to struggle. Salvatore Perri assesses the argument that Italy’s economic problems are largely a result of its membership of the euro. He argues that most of the problems identified with Italy’s use of the single currency would likely be exacerbated with an independent currency and that the real issues facing Italy are a consequence of the decisions made by Italian politicians.
In Italy, the debate about the euro is becoming increasingly complex. Many analysts, politicians, and also some economists have openly suggested that exit from the euro could be a good solution for the Italian economy. Nevertheless, there are some aspects which are not given sufficient attention in this analysis. What would the impact of leaving the euro actually be on the Italian economy?
The most important argument which has been made against the euro in Italy is that the productivity of Italian workers has declined since monetary union. This may well be true, but it is difficult to assert that the euro was the biggest cause of this development. In all developed countries, the so called ‘financialisation’ of the economy has generated a reduction in the weight of work for modern societies due to the financial sector absorbing a greater chunk of a nation’s financial resources.
Historically, Italy was a country which was capable of transforming
raw materials into products which could be sold to other countries.
Independently of which currency is used, globalisation has reduced the
opportunity for Italian goods to be successful in world markets as
developing countries have gained a larger stake in exporting goods to
areas such as Europe.
Competition over goods will always be determined by two factors: cost and quality. Italian goods are now in a situation where they will only be in an advantageous position if they are of greater quality than alternatives, with a high level of technological skill in terms of production. Reducing wages is therefore not the solution to making Italian goods competitive again and the productivity of workers is not the problem facing Italian industries.
Exit scenarios
Leaving this issue to one side, let’s imagine that Italy did leave the euro and opted to take a ‘new lira’ as its legal currency. Under this scenario what would happen to wages? The new lira would be weaker than the euro and, as such, Italian firms which export goods would be at an advantage. Unfortunately, however, Italy is not blessed with oil or other raw materials and would therefore have to pay a premium to produce these goods, which could also potentially lead to high levels of inflation.
Far from obtaining an advantage by leaving the euro, this course of action would probably achieve the opposite of what is intended. Workers would have to pay higher prices to sustain themselves and, as a consequence, would demand higher wages. Firms, in turn, would have to increase prices further to compensate for the higher staff costs, potentially leading to requests for government support to help production.
The result would likely be similar to the situation in the late 1970s, with high inflation and high levels of social instability. Under these conditions Italian exporters would certainly not be in a position to compete more effectively in world markets. Moreover, it should also be remembered that in southern Italy criminal organisations remain strong: if inflation is growing and the state becomes weak, the main beneficiaries may end up being Italian Mafias.
The real problem with Italy’s use of the euro
Clearly, the euro has more than one problem, but these issues have been presented incorrectly in the Italian debate. In reality the solution is not ‘less Europe’, but more Europe. Monetary policy has become integrated, but local governments still compete over fiscal policy. The result is that countries across the Eurozone possess different kinds of policies, from social security to commercial laws. The fact that the European market is not complete is what disadvantages Italian firms.
High levels of corruption, criminality, and inefficiencies in the country’s bureaucratic and banking systems are additional problems in Italy. None of these problems will be solved by exiting the euro and in many ways leaving the single currency could achieve the opposite result. If Italian politicians again have the capacity to determine both fiscal and monetary policy why should we expect a different situation from that which occurred in the 1980s, where policies were regularly set with the aim of securing votes rather than solving existing problems?
Contrary to public opinion, Italy is not respecting important European legislation in the areas of competition and anti-corruption, among others. The reasons for this are clear: the Italian system is not competitive internally, with banks and firms closely connected to each other, and politics having to take into account the opinion of the strongest voting blocks. The sale of the ‘old’ Alitalia airline in 2008 is a prominent example, where the Italian government split the company into two parts and sold the profitable section to a group of Italian investors, at great cost to taxpayers, under the guise of preventing it becoming French property.
Earlier this year, in the last period of Enrico Letta’s government, banks were also granted support through a highly unusual operation which involved hiking the value of the Italian central bank’s share capital from 156,000 euros to 7.5 billion euros (something which had not previously been done since the 1930s). The decree simultaneously set a ceiling of three per cent on the amount of the bank’s shares that could be owned by any individual stakeholder.
This ensured that other banks such as Intesa and UniCredit were ‘forced’ to sell most of their existing stakes in the Italian central bank (42 per cent and 22 per cent respectively) back to the central bank itself at the now greatly increased rate. Contrary to the way it was presented, the legislation thereby sought to provide substantial financial support to these banks directly from the central bank.
Normally, if a government helps banks it is required to implement a change of governance strategy at the banks being granted support (as happened, for instance, in the United States), but in this case this did not happen. In Italy, the rule appears to be ‘help without control’ and this is the real problem. Italian politicians and bureaucracy evidently do not like to lose power with respect to the European institutions.
A vicious circle
To avoid problems, Italian politicians accept some European Commission indications related to austerity measures and cuts of public expenditure. However these are precisely the policies which are harming the Italian economy as the reduction of workers’ incomes (through labour reforms) reduces consumption and the level of production.
At the same time, these policies increase unemployment and thereby raise the amount of public debt. Considering the structural problems within the Italian economy, the fall in GDP experienced since the start of the crisis has virtually no limits as firms that close will not be replaced by others. Moreover, some of the measures within the fiscal compact and balanced budget requirements have fuelled Euroscepticism.
It is still possible to halt this trajectory with the right reforms. First, structural funds should be managed by international actors and not by an Italian bureaucracy which is largely unfit for purpose. Second, the European institutions should take a tougher line on the application of EU legislation in Italy, particularly with respect to anti-corruption laws, public agencies, private firms that work for the public sector, and the timing of judgements.
Finally, the European Commission should recognise that the economic conditions in Italy are close to a disaster and remove (temporarily) some hurdles in terms of public investment to sustain aggregate demand. This can be done in two ways: by helping firms to change production processes and by considering universal forms of protection for people that lose their jobs (such as a basic income). These measures have costs and may entail being flexible on the current deficit/GDP limit of three per cent. It may also be necessary to adapt the strategy of the European Central Bank and move resources directly to these projects without the intermediation of Italian banks.
Ultimately, the issues surrounding Italian public opinion and the European Union are generated by the contrast between Italian politicians and the European institutions. The Italian system is blocked by the inability of policy-makers to arrive at the correct solutions because they are scared of disrupting the political consensus.
In this context, the European institutions have to help Italy to implement reforms – not with absurd economic parameters, but through anti-corruption laws, social protection, a reduction in inequality and strict control of European funds to reduce the gap between the South and the North. The Eurozone may have real problems, but the current exit strategies being put forward for leaving the single currency are little more than a smokescreen used by Italian politicians to obscure their own responsibility for the crisis.
Please read our comments policy before commenting.
Note: This article gives the views of the author, and not the position of EUROPP – European Politics and Policy, nor of the London School of Economics.
Shortened URL for this post: http://bit.ly/1n63cVV
Despite some signs of economic recovery in the Eurozone, the Italian economy has continued to struggle. Salvatore Perri assesses the argument that Italy’s economic problems are largely a result of its membership of the euro. He argues that most of the problems identified with Italy’s use of the single currency would likely be exacerbated with an independent currency and that the real issues facing Italy are a consequence of the decisions made by Italian politicians.
In Italy, the debate about the euro is becoming increasingly complex. Many analysts, politicians, and also some economists have openly suggested that exit from the euro could be a good solution for the Italian economy. Nevertheless, there are some aspects which are not given sufficient attention in this analysis. What would the impact of leaving the euro actually be on the Italian economy?
The most important argument which has been made against the euro in Italy is that the productivity of Italian workers has declined since monetary union. This may well be true, but it is difficult to assert that the euro was the biggest cause of this development. In all developed countries, the so called ‘financialisation’ of the economy has generated a reduction in the weight of work for modern societies due to the financial sector absorbing a greater chunk of a nation’s financial resources.
Credit: The Polish (CC-BY-SA-3.0)
Competition over goods will always be determined by two factors: cost and quality. Italian goods are now in a situation where they will only be in an advantageous position if they are of greater quality than alternatives, with a high level of technological skill in terms of production. Reducing wages is therefore not the solution to making Italian goods competitive again and the productivity of workers is not the problem facing Italian industries.
Exit scenarios
Leaving this issue to one side, let’s imagine that Italy did leave the euro and opted to take a ‘new lira’ as its legal currency. Under this scenario what would happen to wages? The new lira would be weaker than the euro and, as such, Italian firms which export goods would be at an advantage. Unfortunately, however, Italy is not blessed with oil or other raw materials and would therefore have to pay a premium to produce these goods, which could also potentially lead to high levels of inflation.
Far from obtaining an advantage by leaving the euro, this course of action would probably achieve the opposite of what is intended. Workers would have to pay higher prices to sustain themselves and, as a consequence, would demand higher wages. Firms, in turn, would have to increase prices further to compensate for the higher staff costs, potentially leading to requests for government support to help production.
The result would likely be similar to the situation in the late 1970s, with high inflation and high levels of social instability. Under these conditions Italian exporters would certainly not be in a position to compete more effectively in world markets. Moreover, it should also be remembered that in southern Italy criminal organisations remain strong: if inflation is growing and the state becomes weak, the main beneficiaries may end up being Italian Mafias.
The real problem with Italy’s use of the euro
Clearly, the euro has more than one problem, but these issues have been presented incorrectly in the Italian debate. In reality the solution is not ‘less Europe’, but more Europe. Monetary policy has become integrated, but local governments still compete over fiscal policy. The result is that countries across the Eurozone possess different kinds of policies, from social security to commercial laws. The fact that the European market is not complete is what disadvantages Italian firms.
High levels of corruption, criminality, and inefficiencies in the country’s bureaucratic and banking systems are additional problems in Italy. None of these problems will be solved by exiting the euro and in many ways leaving the single currency could achieve the opposite result. If Italian politicians again have the capacity to determine both fiscal and monetary policy why should we expect a different situation from that which occurred in the 1980s, where policies were regularly set with the aim of securing votes rather than solving existing problems?
Contrary to public opinion, Italy is not respecting important European legislation in the areas of competition and anti-corruption, among others. The reasons for this are clear: the Italian system is not competitive internally, with banks and firms closely connected to each other, and politics having to take into account the opinion of the strongest voting blocks. The sale of the ‘old’ Alitalia airline in 2008 is a prominent example, where the Italian government split the company into two parts and sold the profitable section to a group of Italian investors, at great cost to taxpayers, under the guise of preventing it becoming French property.
Earlier this year, in the last period of Enrico Letta’s government, banks were also granted support through a highly unusual operation which involved hiking the value of the Italian central bank’s share capital from 156,000 euros to 7.5 billion euros (something which had not previously been done since the 1930s). The decree simultaneously set a ceiling of three per cent on the amount of the bank’s shares that could be owned by any individual stakeholder.
This ensured that other banks such as Intesa and UniCredit were ‘forced’ to sell most of their existing stakes in the Italian central bank (42 per cent and 22 per cent respectively) back to the central bank itself at the now greatly increased rate. Contrary to the way it was presented, the legislation thereby sought to provide substantial financial support to these banks directly from the central bank.
Normally, if a government helps banks it is required to implement a change of governance strategy at the banks being granted support (as happened, for instance, in the United States), but in this case this did not happen. In Italy, the rule appears to be ‘help without control’ and this is the real problem. Italian politicians and bureaucracy evidently do not like to lose power with respect to the European institutions.
A vicious circle
To avoid problems, Italian politicians accept some European Commission indications related to austerity measures and cuts of public expenditure. However these are precisely the policies which are harming the Italian economy as the reduction of workers’ incomes (through labour reforms) reduces consumption and the level of production.
At the same time, these policies increase unemployment and thereby raise the amount of public debt. Considering the structural problems within the Italian economy, the fall in GDP experienced since the start of the crisis has virtually no limits as firms that close will not be replaced by others. Moreover, some of the measures within the fiscal compact and balanced budget requirements have fuelled Euroscepticism.
It is still possible to halt this trajectory with the right reforms. First, structural funds should be managed by international actors and not by an Italian bureaucracy which is largely unfit for purpose. Second, the European institutions should take a tougher line on the application of EU legislation in Italy, particularly with respect to anti-corruption laws, public agencies, private firms that work for the public sector, and the timing of judgements.
Finally, the European Commission should recognise that the economic conditions in Italy are close to a disaster and remove (temporarily) some hurdles in terms of public investment to sustain aggregate demand. This can be done in two ways: by helping firms to change production processes and by considering universal forms of protection for people that lose their jobs (such as a basic income). These measures have costs and may entail being flexible on the current deficit/GDP limit of three per cent. It may also be necessary to adapt the strategy of the European Central Bank and move resources directly to these projects without the intermediation of Italian banks.
Ultimately, the issues surrounding Italian public opinion and the European Union are generated by the contrast between Italian politicians and the European institutions. The Italian system is blocked by the inability of policy-makers to arrive at the correct solutions because they are scared of disrupting the political consensus.
In this context, the European institutions have to help Italy to implement reforms – not with absurd economic parameters, but through anti-corruption laws, social protection, a reduction in inequality and strict control of European funds to reduce the gap between the South and the North. The Eurozone may have real problems, but the current exit strategies being put forward for leaving the single currency are little more than a smokescreen used by Italian politicians to obscure their own responsibility for the crisis.
Please read our comments policy before commenting.
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martedì 6 maggio 2014
Il rapporto Nord-Sud e la Lega dei No Euro
Salvatore Perri
Premetto che da quando ho aperto il mio blog, l'ho fatto per cercare di contribuire all'interpretazione della realtà economica quotidiana attingendo al mio bagaglio di studi pregressi (che è quello facevo quando avevo l'opportunità di insegnare). Ho cercato di limitare al minimo gli interventi di carattere particolare, oppure prese di posizioni politiche su temi locali, perchè esiste il rischio che le mie considerazioni siano classificabili "per partito preso" e non sulla base del loro contenuto specifico.
Tuttavia quando ho sentito Salvini dire che vuole "liberare il Sud", io, da persona genuinamente ed orgogliosamente meridionale, che ha studiato la storia economica italiana, che ha dovuto vivere all'estero nel periodo più fulgido dei governi leghisti, discendente diretto di un Cavaliere di Vittorio Veneto (che l'Italia l'ha dovuta liberare veramente) ho avuto un moto di ribellione incontrollabile perchè quando è troppo è troppo.
Non aspiro ad insegnare la storia a chi non è interessato a conoscerla, ma almeno quattro fatti stilizzati in croce per Salvini potrebbero esser utili, anche se dubito che possano stare su una felpa.
Nel rapporto economico fra Nord e Sud, dal dopoguerra in poi, è prevalso un rapporto di tipo dualistico che ha legato il destino del Sud a quello del Nord, tramite lo stato centrale, in una modalità che molti Economisti migliori di me hanno definito "Funzionale".
In una prima fase, si è deciso di investire pesantemente sulla ripresa produttiva delle aziende del Nord-Ovest, perchè più vicine ai mercati europei di esportazione e di importazione di materie prime. Il Sud era già deindustrializzato dai tempi dell'unificazione e tale scelta era stata consolidata dai governi unitari e dal fascismo.
Il Sud contribuiva con un massiccio flusso migratorio di lavoratori a basso costo, che si trasferivano con le intere famiglie a fornire la carne da cannone per l'impetuoso sviluppo delle fabbriche settentrionali provocando per converso il fenomeno del "degrado demografico" del Sud dato che le forze più vitali e dinamiche emigravano. Questo meccanismo entra in crisi perchè le città settentrionali non sono in grado, ad un certo punto, di sopportare i massicci flussi di immigrazione. Lo stato centrale interviene quindi con investimenti "a perdere" nel Sud (i famosi 10.000 forestali Calabresi su cui sono state fatte campagne elettorali da Bossi, opere pubbliche di dubbia utilità, fino ad arrivare ai tentativi industriali su settori decotti degli anni '70).
Deve essere chiaro che nessun politico sano di mente pensava che il Sud potesse svilupparsi in quel modo, il sistema nel suo complesso stava in piedi perchè le aziende del Nord avevano manodopera maschile illimitata dal Sud, mentre le famiglie e coloro che non potevano emigrare venivano stipendiati passivamente al semplice scopo di non emigrare. Il cicrcolo si chiudeva con il rientro dei flussi monetari verso Nord perchè lo sviluppo dei consumi portava i meridionali a comprare proprio quei prodotti industriali del settentrione. Il Sud ha quindi fornito manodopera ed ha rappresentato un "mercato protetto" per le merci settentrionali.
A peggiorare la situazione, il fatto che le risorse erogate verso Sud sono state sempre "mediate" dalla politica. I politicanti locali, in aggiunta ad alcuni settori sindacali, hanno sempre gestito le risorse a fini di consenso, garantendosi rendite di posizione che durano ancora oggi.
Questo meccanismo che aveva una sua logica interna entra in crisi quando, a metà degli anni '80, le imprese del Nord Ovest cominciano a ristrutturarsi e necessitano di meno manodopera, mentre l'apertura dei mercati internazionali consente ai consumatori del Sud di comprare merci d'importazione, rompendo il legame diretto dei flussi monetari da Sud a Nord.
A questo punto l'elettore medio del Nord comincia a chiedersi perchè finanziare lo stato centrale, ed il Sud, nasce la Lega che và al governo anche sulla base di interpretazioni farlocche di dati, smentite ampliamente nel libro di G. Viesti "Mezzogiorno a Tradimento".
Cosa fà la Lega una volta al governo? Perpetra lo stesso identico meccanismo clientelare che ha trovato. Si fanno 2 coalizioni (Polo delle Libertà al Nord, del Buongoverno al Sud) e si vincono le elezioni, promettendo più industria al Nord e più trasferimenti ai notabili del Sud. Non sono stati affrontati i temi dell'organizzazione della spesa, della corruzzione sistemica, della lotta alla criminalità economica, degli enormi privilegi di cui godono le varie corporazioni che paralizzano l'economia meridionale.
E pensare che qualche ministero la Lega lo ebbe. Ad esempio, negli ultimi governi, il ministero della "Semplificazione Normativa" avrebbe potuto favorire la trasparenza negli atti pubblici, che al Sud serve più del pane. Il ministero delle "Riforme" che avrebbe potuto frenare l'elefantiasi dei consigli regionali meridionali, fonte inesauribile di sperperi e sprechi. Per non parlare del ministro dell'Economia, che così bravo ad effettuare i tagli lineari (che puniscono quelli efficienti e premiano i cialtroni) che è stato addirittura ricandidato dalla Lega alle ultime elezioni.
Bene, anzichè "liberare il Sud", Salvini potrebbe creare un gruppo di autocoscienza, con Umberto Bossi (tutti i figli, e pure la moglie prepensionata del pubblico impiego), Calderoli, Maroni, Belsito, Tremonti, Milanese, Rosy Mauro ed il fidanzato con la laurea. Potrebbero chiudersi in una stanza e riflettere sul contributo che hanno dato alla risoluzione dei problemi quando ne hanno avuto la possibilità.
E' inutile cercare un nemico invisibile, l'Euro, per rifarsi una verginità postuma, altrimenti faranno la figura di quelli che venivano chiamati "i meridionalisti piagnoni" sempre pronti a dare la colpa al Nord per il loro sottosviluppo. Saranno i "leghisti piagnoni" che daranno la colpa alla Germania per coprire l'evidenza di quello che non sono stati in grado di fare.
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mercoledì 16 aprile 2014
Sui benefici del Reddito Minimo Garantito in Italia (LIG)
Salvatore Perri
La crisi economica internazionale e la finanziarizzazione dell'economia, hanno (finalmente) sollevato il tema della diversa distribuzione del reddito all'interno dei sistemi economici. Il Reddito di Base ed il Reddito Minimo Garantito sono due delle forme possibili per scongiurare il tracollo delle economie c.d. "avanzate". Ho già scritto sulla necessità di redistribuire il lavoro e sul Basic Income. In questo pezzo, stimolato dagli attivisti internazionali del LIG, discuto perchè il Reddito Minimo Garantito è un passaggio obbligato per invertire le odierne tendenze economiche negative altrimenti inarrestabili.
La definizione di reddito minimo. Come ho già scritto in altri pezzi, i sistemi economici maturi, come quello italiano, necessitano di un mix di redistribuzione del lavoro e reddito di base per interrompere la spirale debito-disoccupazione che stà distruggendo le fondamenta della convivenza civile. Tuttavia, nel breve periodo, un primo passo verso una diversa configurazione della struttura economica può essere il Reddito Minimo Garantito (LIG), il quale si configura come un supporto al reddito di coloro che non stanno lavorando e delle persone inabili al lavoro per malattia. In sostanza il LIG è un meccanismo di welfare allargato (ma selettivo) che supporta il reddito delle persone dando attuazione ad un principio costituzionale di "dignità" della retribuzione, intesa in senso lato.
La fine del "self made man dream". Per anni in Italia si è attuata una politica economica di incentivazione alla nascita di nuove imprese che probabilmente non ha eguali nella storia moderna. In aggiunta alcuni governi hanno provveduto a ridurre alcuni tipi di imposte (su successioni, donazioni e patrimoni) al fine di spingere i potenziali imprenditori ad assumere lavoratori investendo nell'impresa. Inoltre, grazie ai fondi dell'Unione Europea sono stati finanziati progetti per "nuovi imprenditori". Gli esisti di questo mix di politiche è stato sconfortante. La maggior parte delle imprese nate con incentivi individuali sono cessate in breve tempo, mentre il peggioramento del quadro macroeconomico, con la riduzione dei profitti attesi, ha determinato un'ondata di crisi industriali con delocalizzazioni, ristrutturazioni, chiusure per fallimento.
Finanziarizzazione dell'economia e crisi. Il crollo delle prospettive di profitto derivanti dalle attività industriali ha spinto il "capitale" a cercare forme di investimento più remunerative, quali i fondi di investimento internazionali che si muovono con movente essenzialmente speculativo. Pertanto, il lavoro ha perso valore all'interno della società ed i consumi interni si sono compressi trascinando nella crisi anche le piccole e medie imprese che producono su scala locale. Le banche a loro volta hanno spostato i loro orizzonti di investimento verso i titoli di Stato (approfittando degli alti tassi dovuti alla crisi) disinvestendo sull'economia reale.
Dal profitto al reddito per uscire dalla crisi. Appare evidente che le politiche di incentivazioni alle imprese hanno fallito. Se non c'è prospettiva di profitto è impossibile che le imprese si espandano senza una giustificazione di mercato. Le politiche economiche di austerità hanno compresso ulteriormente il reddito disponibile e la finanziarizzazione dell'economia internazionale ha consentito rapide fuoriscite di capitali verso fondi speculativi. Come interrompere questa spirale? Una diversa distribuzione del reddito all'interno delle fasce sociali è l'unica politica economica in grado di determinare, anche nel breve periodo, una ripresa dei consumi.
Disuguaglianze e crisi. La crisi economica, qualunque ne sia l'origine, viene accentuata dalle disuguaglianze di reddito, in quanto più la ricchezza è concentrata in poche mani, meno consumi ci sono all'interno del sistema economico. In un contesto in cui gli investimenti crollano ciò determina un aggravamento della crisi. Distribuire il reddito in maniera meno diseguale consente di portare vantaggi economici nell'immediato, oltre a rappresentare una misura di carattere umanitario che caratterizza il diverso grado di civiltà di una nazione. Un aumento del reddito degli individui indigenti, anche modesto, si riversa inevitabilmente in consumi (spesso primari) riattivando le relazioni sociali di prossimità con le piccole e medie imprese locali.
Redistribuzione e capitalismo. Paradossalmente solo politiche redistributive possono salvare il capitalismo, come l'avvento delle socialdemocrazie all'inizio del 900 in Europa. Pertanto una battaglia per il Reddito Minimo dovrebbe essere combattuta anche dagli imprenditori che invece continuano a chiedere solo riduzioni di imposte (sicuramente troppo elevate) ed incentivazioni di vario genere che si sono già rivelate inefficaci. La redistribuzione del reddito, invece, comporterebbe uno spostamento di valori (economici e non) dal livello subnazionale al livello locale, riconnettendo il tessuto sociale, combattendo l'individualismo e favorendo la solidarietà fra gli esseri umani.
Conclusioni. Per ragioni, che non solo di ordine Economico, appare evidente che forme di diversa distribuzione del reddito sono ormai improcastinabili per interrompere la crisi economica ed arginare il disfacimento della società. Bisogna trasferire risorse verso i redditi individuali, verso una qualche forma di Reddito Minimo che consenta una vita dignitosa alle persone salvando la società dal disfacimento. E' importante che maturi la consapevolezza che questo non rappresenta un investimento umanitario bensì anche un investimento economico-produttivo.
Finanziarizzazione dell'economia e crisi. Il crollo delle prospettive di profitto derivanti dalle attività industriali ha spinto il "capitale" a cercare forme di investimento più remunerative, quali i fondi di investimento internazionali che si muovono con movente essenzialmente speculativo. Pertanto, il lavoro ha perso valore all'interno della società ed i consumi interni si sono compressi trascinando nella crisi anche le piccole e medie imprese che producono su scala locale. Le banche a loro volta hanno spostato i loro orizzonti di investimento verso i titoli di Stato (approfittando degli alti tassi dovuti alla crisi) disinvestendo sull'economia reale.
Dal profitto al reddito per uscire dalla crisi. Appare evidente che le politiche di incentivazioni alle imprese hanno fallito. Se non c'è prospettiva di profitto è impossibile che le imprese si espandano senza una giustificazione di mercato. Le politiche economiche di austerità hanno compresso ulteriormente il reddito disponibile e la finanziarizzazione dell'economia internazionale ha consentito rapide fuoriscite di capitali verso fondi speculativi. Come interrompere questa spirale? Una diversa distribuzione del reddito all'interno delle fasce sociali è l'unica politica economica in grado di determinare, anche nel breve periodo, una ripresa dei consumi.
Disuguaglianze e crisi. La crisi economica, qualunque ne sia l'origine, viene accentuata dalle disuguaglianze di reddito, in quanto più la ricchezza è concentrata in poche mani, meno consumi ci sono all'interno del sistema economico. In un contesto in cui gli investimenti crollano ciò determina un aggravamento della crisi. Distribuire il reddito in maniera meno diseguale consente di portare vantaggi economici nell'immediato, oltre a rappresentare una misura di carattere umanitario che caratterizza il diverso grado di civiltà di una nazione. Un aumento del reddito degli individui indigenti, anche modesto, si riversa inevitabilmente in consumi (spesso primari) riattivando le relazioni sociali di prossimità con le piccole e medie imprese locali.
Redistribuzione e capitalismo. Paradossalmente solo politiche redistributive possono salvare il capitalismo, come l'avvento delle socialdemocrazie all'inizio del 900 in Europa. Pertanto una battaglia per il Reddito Minimo dovrebbe essere combattuta anche dagli imprenditori che invece continuano a chiedere solo riduzioni di imposte (sicuramente troppo elevate) ed incentivazioni di vario genere che si sono già rivelate inefficaci. La redistribuzione del reddito, invece, comporterebbe uno spostamento di valori (economici e non) dal livello subnazionale al livello locale, riconnettendo il tessuto sociale, combattendo l'individualismo e favorendo la solidarietà fra gli esseri umani.
Conclusioni. Per ragioni, che non solo di ordine Economico, appare evidente che forme di diversa distribuzione del reddito sono ormai improcastinabili per interrompere la crisi economica ed arginare il disfacimento della società. Bisogna trasferire risorse verso i redditi individuali, verso una qualche forma di Reddito Minimo che consenta una vita dignitosa alle persone salvando la società dal disfacimento. E' importante che maturi la consapevolezza che questo non rappresenta un investimento umanitario bensì anche un investimento economico-produttivo.
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